Le infiltrazioni della ’ndrangheta
LA MAFIA IN EMILIA
Attilio Bolzoni
È il confine, fra il prima e il dopo. Per prenderne definitivamente atto ci voleva il ” bollo” della giustizia a certificare che la ’ndrangheta c’era e che non era una fantasia, che si era radicata in Emilia da almeno vent’anni, che era penetrata nel tessuto economico della regione, che imponeva la sua legge anche lontano dalle fiumare dell’Aspromonte e dagli uliveti di Gioia Tauro.
Cosa ci dice questa sentenza con centoquarantadue condannati e con pene che arrivano a milleduecento anni di reclusione? Ci dice che da oggi in poi nessuno può più fare finta di niente, nessuno fra Reggio o Modena o Bologna può più cadere dalle nuvole e pensare che la mafia sia uno « stato d’animo » dei calabresi o dei siciliani o che — come sosteneva un antropologo di fine Ottocento — si «eredita con il sangue».
Da oggi in poi lì, in quella parte d’Italia che per troppo tempo si è illusa (ma è andata proprio così o ha preferito immaginare una conveniente lontananza?) di non avere niente a che fare con i boss e con le cosche, nulla sarà più come nel passato. È una sentenza che segna una linea di demarcazione. Un po’ come è andata con il processo “Crimine-Infinito” in Lombardia, come è andata a Roma con l’ultima sentenza di Mafia Capitale che ha riconosciuto Buzzi e Carminati colpevoli di 416 bis. Anche in Emilia c’è. Non si chiama ” Mondo di mezzo” e non si chiama Cosa Nostra o Camorra ma si chiama ’ndrangheta.
Nonostante le incomprensibili tesi dei negazionisti o le sottovalutazioni politiche di una nomenclatura che si è voltata dall’altra parte ( in verità anche forze di polizia, prefetti e magistrati prima di questa colossale inchiesta nelle province emiliane non avevano brillato per fiuto investigativo) il processo a ” Nicolino” Grande Aracri e all’infame giostra che girava intorno a lui ha fatto affiorare la più classica delle forme di criminalità organizzata. Né colletti bianchi e nemmeno colletti neri, senza coppola ma neanche con il vestito da manager della finanza, si sono presentati — e in molti casi sono stati ben accolti — senza sparare un colpo. Corrompendo, comprando, offrendosi alle banche e alle imprese, alle amministrazioni pubbliche.
Fra i condannati del processo troviamo figure di favoreggiatori e complici che abbiamo già conosciuto giù, in Sicilia e in Calabria. Commercialisti, costruttori, rappresentanti degli apparati dello Stato, anche giornalisti. Appalti, slot machine, droga, trasporti. I “servizi”, la ’ndrangheta in Emilia ha fornito in questi anni i beni che richiedeva il mercato. Un partito criminale che si è rafforzato e si è esteso senza incontrare grandi resistenze. Nel silenzioso compiacimento di molti — famosa l’intercettazione telefonica della fiscalista bolognese che si diceva “onorata” della visita nel suo studio del capo dei Grande Aracri — la mafia calabrese si è ingrassata. Con tanti a sostenere che, tutto sommato, l’infiltrazione era abbastanza recente. Un’altra fandonia. Alle porte di Bologna, uno zio di Totò Riina si era ben sistemato già nel 1958.
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