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Il patto sporco
Nino Di Matteo,Saverio Lodato
In commercio dal: 14 settembre 2018
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GIORGIO BONGIOVANNI
”Il Patto Sporco” nelle parole di Stajano
- Dettagli
- Pubblicato: 30 Settembre 2018
di Giorgio Bongiovanni
“Un libro amaro” che “fa rabbrividire” ma che è “utile specchio di un Paese fragile come il nostro” perché si raccontano “fatti conosciuti e sconosciuti, documentati e rilevanti, vista la fonte, ed è importante per costruire la storia sanguinosa, spesso coperta di mistero di questi anni”.
Così Corrado Stajano (in foto), in poche parole, sintetizza il libro “Il Patto Sporco” il nuovo libro del pm Nino Di Matteo scritto insieme al nostro editorialista, il giornalista scrittore, Saverio Lodato, edito da Chiarelettere. Finalmente, grazie alla firma dello storico editorialista (autore di libri importanti come “Un eroe borghese”, in cui si racconta la storia di Giorgio Ambrosoli), il Corriere della Sera, che spesso abbiamo criticato per essere stato supino al potere di turno, dà spazio a libri importanti che mettono in luce la storia della nostra Repubblica. Stajano, giornalista dalla schiena dritta di questo giornale assieme a Milena Gabanelli e l’ex direttore Ferruccio De Bortoli, scrive una recensione-dossier sul libro di Di Matteo e Lodato, ponendosi anche interrogativi e domande. Per questo riteniamo sia importante riproporre questo articolo ai lettori di ANTIMAFIADuemila.
Quel «patto sporco» con la mafia
Il magistrato Nino Di Matteo esplora i retroscena della «trattativa con lo Stato»
di Corrado Stajano
Ci si è già dimenticati, in questo Paese senza memoria, della terribile sentenza del 20 aprile di quest’anno, il processo detto della Trattativa tra lo Stato e la mafia? Un pentolone ribollente di brutture, di tradimenti, del sangue di tanti innocenti vittime dell’Italia peggiore? La notizia della grave condanna inflitta dalla Corte d’assise di Palermo agli assassini mafiosi e a uomini delle istituzioni con indosso l’uniforme dell’Arma benemerita della Repubblica sembra già scivolata via lasciando il posto alle notizie piccanti, esse sì di rigore, sui sarti, i cuochi, i portatori di influenze e di sogni.
Per fortuna esistono ancora i libri. Ne è appena uscito uno che fa rabbrividire, Il patto sporco. Il processo Stato-mafia nel racconto di un suo protagonista: Nino Di Matteo, il pubblico ministero più perseguitato del Bel Paese, che analizza le motivazioni della sentenza di condanna e risponde, in una approfondita intervista, alle domande di Saverio Lodato, tra i più agguerriti giornalisti del fenomeno mafioso.
Il libro narra fatti conosciuti e sconosciuti, documentati e rilevanti, vista la fonte, ed è importante per costruire la storia sanguinosa, spesso coperta di mistero di questi anni.
Nino Di Matteo, ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, non si sente un eroe. Quel che ha fatto l’ha fatto, dice con semplicità, soltanto nel nome dello Stato di diritto, con grandi sacrifici, suoi e della sua famiglia. Sottoposto «al primo livello di protezione eccezionale», non deve esser stato facile vivere in quel modo, lasciato solo anche da chi avrebbe dovuto difenderlo, l’Associazione nazionale magistrati, il Consiglio superiore della magistratura, insultato anche da persone impensabili, accademici, opinionisti, giornalisti, magistrati. Ma lui aveva le prove di quel che faceva: risultano ora con chiarezza dalle 5.252 pagine delle motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto depositata il 18 luglio scorso.
Ne ha subite di minacce in 25 anni di inchieste e di solitudine Nino Di Matteo. Totò Riina, intercettato nel 2013 nel carcere di Opera mentre all’ora d’aria parla con un mafioso pugliese: «Gli farei fare la fine del tonno. La stessa che ho fatto fare a Falcone», dice commentando con rabbia l’impegno di Di Matteo nel processo sulla Trattativa.
«Lei deve stare attento perché noi siamo molto avanti. Abbiamo già comprato l’esplosivo, abbiamo studiato tutte le sue abitudini», gli dice nel carcere di Parma, nel 2014, il mafioso Vito Galatolo. «Perché?», chiede il magistrato. E il mafioso, levando lo sguardo alla famosa fotografia di Falcone e Borsellino sorridenti, appesa alla parete, in palermitano stretto replica indicando Falcone: «Non comu a chistu, ma come l’autru». E aggiunge: «Ce lo hanno chiesto». (Sono stati differenti, quindi, la matrice e i moventi della strage di via D’Amelio rispetto a quelli della strage di Capaci. Chi chiese, al di fuori della mafia?)
E un costruttore palermitano che si era occupato dell’acquisto del tritolo per uccidere Di Matteo, all’ufficiale della Guardia di Finanza che l’arrestava dice: «Per capire dove viene l’esplosivo e che cosa c’è dietro, dovete cercare in alto».
E ancora. Matteo Messina Denaro, l’attuale capo della mafia, latitante da 25 anni, «rampollo di una famiglia con quattro quarti di nobiltà mafiosa» dice che Di Matteo è andato troppo avanti con le sue inchieste. Il magistrato commenta così le ragioni della latitanza del capomafia: «Temo la copertura di ambienti deviati delle istituzioni che hanno ragioni di temere, sapendo di quali terribili segreti è a conoscenza, che un giorno possa decidere di vuotare il sacco».
Un libro di piombo questo Il patto sporco. Quei 200 chili di tritolo comprati in Calabria per uccidere Di Matteo non sono stati trovati. Dove sono nascosti? C’è ancora, da parte della mafia, l’intenzione di usarli? C’è qualcuno che sa dove sono, nelle istituzioni, nei Servizi, «deviati», naturalmente? Una minaccia che pesa.
Questo processo non è fondato, come in una guerra dichiarata tra eserciti nemici che trattano ad esempio su uno scambio di prigionieri: la posta in gioco, invece, è stata discussa alla pari tra uomini dello Stato e i poteri criminali di quello stesso Stato. Il reato contestato è infatti: «Violenza e minaccia a corpo politico dello Stato». I governi del tempo. Una trattativa soltanto politica: «I carabinieri (generali e ufficiali superiori) omettono di lasciare traccia scritta dei loro colloqui (con gli uomini della mafia), omettono di riferire ai vertici dell’Arma e alla magistratura, cercano invece sponde politiche, informando autorità istituzionali e parlamentari». E ancora: «Non lo hanno fatto perché sapevano che con Vito Ciancimino stavano conducendo una trattativa politica: cosa volevano i mafiosi per far interrompere quella strategia dell’attacco frontale allo Stato e alla politica? Ecco perché, mentre tacevano con chi avrebbe dovuto sapere, riferivano ad autorità politiche e ministeriali», di cui la sentenza fa abbondantemente i nomi e illustra i desideri dei mafiosi, contro i «pentiti», il carcere duro, il 41 bis, il sequestro dei beni, la modifica della legge Rognoni-La Torre, la revisione, attraverso una sentenza della Corte di Strasburgo, degli ergastoli del maxiprocesso del 1986.
E questo – la pressione assassina – seguitando a uccidere: dopo via D’Amelio, le stragi di Firenze, Roma, Milano, del 1993; la bomba non esplosa per il cattivo funzionamento del telecomando nel gennaio 1994 allo stadio Olimpico di Roma che avrebbe ucciso centinaia di carabinieri.
Il libro è ricco di fatti che provano l’esistenza della vergognosa trattativa e anche di interrogativi non tutti con una risposta. Perché Totò Riina, in corso d’opera, decide di cambiare il piano dell’assassinio di Falcone, non più a Roma, ma in Sicilia? E dieci anni prima: chi ha rubato il diario di Carlo Alberto dalla Chiesa nella cassaforte di villa Pajno, a Palermo, subito dopo il suo assassinio in via Carini, poco lontano? (Specialisti di Servizi, non rozzi criminali). Dov’è finita, 1992, l’agenda rossa di Paolo Borsellino sul campo di battaglia di via D’Amelio, passata in più di una mano?
Qual è il vero significato dei foglietti coi numeri di telefono del Sisde di Roma e del capocentro di Palermo trovati dalla Polizia scientifica sul cratere di Capaci? Chi fece sparire quasi del tutto i file informatici di Falcone dopo la sua morte? Quali furono i motivi dell’accelerazione dell’assassinio di Paolo Borsellino? Che cosa aveva scoperto il magistrato nei tragici 57 giorni dopo Capaci? La cattura di Riina, nel gennaio ’93, poi, e la mancata perquisizione del suo covo, sono smaccate prove dell’accordo tra le parti «per evitare che saltassero fuori atti e documenti compromettenti proprio su quella fase della trattativa». Come mai restò segreta per quasi vent’anni la lettera che i familiari dei detenuti a Pianosa e all’Asinara inviarono nel febbraio 1993 al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro furibonda di minacce contro Nicolò Amato, a capo del Dipartimento delle carceri, e contro Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno che si erano mostrati intransigenti nel loro lavoro? Rappresentavano un ostacolo per ogni accordo sottobanco e vennero rimossi rapidamente dal loro incarico. (Quella lettera segreta fu trovata da Nino Di Matteo e dall’allora pm Antonio Ingroia solo nel 2011 negli archivi del Dipartimento delle carceri). Quando i capimafia oltranzisti e moderati – come in politica – si convinsero che il nascente movimento di Forza Italia, tramite Dell’Utri, rappresentava la carta vincente? Andreotti, ormai aveva fatto il suo tempo, l’assassinio di Lima aveva segnato un’epoca. (Nelle sedute della Commissione antimafia della XII legislatura, il primo governo Berlusconi, nel ’94, si parlava ossessivamente di 41 bis e di «pentiti», la minaccia di cui liberarsi).
Questo amaro libro è anche l’utile specchio di un Paese fragile come il nostro. Popolato però di uomini e donne che fanno il loro dovere e ancor più del loro dovere, con grande passione. Energie positive che restano isolate perché mancano i ponti della buona politica. L’altra Italia.
Tratto da: Corriere della Sera
Foto © Imagoeconomica
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