TRE RECENSIONI PER ” MARINAI, RINNEGATI E REIETTI ” DI CYRIL LIONEL ROBERT JAMES- nato a Port of Spain, Trinidad, nel 1901 — E’ “LA STORIA DI HERMAN MELVILLE E DEL MONDO IN CUI VIVIAMO “, 1952 –RISTAMPATO DA OMBRE CORTE, 2003–un libro scritto da ” uno straniero indesiderato ” dall’America mentre era rinchiuso nella prigione a Ellis Island…

 

Ellis island air photo.jpg

Ellis Island, dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, è stato il principale porto d’ingresso degli immigrati, attualmente è diventato un museo dell’immigrazione e si trova nel territorio di New York City

Marinai, rinnegati e reietti

Marinai, rinnegati e reietti

La storia di Herman Melville e del mondo in cui viviamo

di Cyril Lionel Robert James

EDITORE OMBRE CORTE, 2003

 

presentazione dell’editore:

 

Vittima del maccartismo, nel 1952 James fu rinchiuso a Ellis Island in quanto “straniero indesiderato”. In quei mesi scrisse “Marinai, rinnegati e reietti”, senza dubbio la più sorprendente e originale interpretazione dell’opera di Melville mai pubblicata. Per James, la genialità e la grandezza dello scrittore americano stanno nell’aver saputo cogliere nel suo tempo i primi segni di quella degenerazione della democrazia che è il totalitarismo, nell’averci offerto con Achab un’attenta descrizione “del tipo sociale più pericoloso e distruttivo mai apparso nella civiltà occidentale” e nell’aver prefigurato, attraverso la letteratura, i conflitti sociali generati dalla rivoluzione industriale.

 

 

TRE RECENSIONI:::   http://www.ombrecorte.it/rass.asp?id=19

 

 

La Stampa – Tuttolibri, 14 febbraio 2004 

MOBY DICK IN SALSA MARXISTA CONTRO L’AMERICA TOTALITARIA 
“Marinai, rinnegati e reietti” di Cyril James: un saggio di 50 anni fa che, con limiti ed errori, continua a provocare

di Ruggero Bianchi 

Forse perché incarna, pur se in maniera alquanto anomala, una cattiva coscienza di cui gli intellettuali americani avvertono sempre più spesso e sempre meno sotterraneamente i morsi, Marinai, rinnegati e reietti: la storia di Hermann Melville e il mondo in cui viviamo di C.L.R. James è uno di quei saggi – ben pochi, nel campo della critica letteraria – che di tanto in tanto riappaiono sugli scaffali delle librerie. Uscito nel lontano 1953 (l’anno stesso di Il crogiuolo di Arthur Miller), ripubblicato nel 1978 e nel 1985, appare adesso in Italia nella traduzione di Anna Belladelli, con utili postfazioni di Bruno Cartosio, Giorgio Mariani e Enzo Traverso, che tracciano il complesso e vigoroso profilo dell’autore, il suo percorso tra il politico e il letterario, le sue intuizioni confinanti a volte con la preveggenza. Nato a Port of Spain (Trinidad) nel 1901, James emigra nel 1932 in Inghilterra, per trasferirsi nel 1938 negli Stati Uniti, dove è attivissimo nel Socialist Workers’ Party fino al 1952, quando è vittima del Maccartismo. Caraibico e marxista, è rinchiuso come “straniero indesiderato” nel carcere di Ellis Island in attesa di venir espulso e rispedito in Gran Bretagna. E proprio durante questo periodo di prigionia scrive il suo volume su Melville: un’opera davvero illuminata che sconvolge e stravolge l’interpretazione ormai classica e condivisa datane da F.O. Matthiessen solo un decennio prima, rileggendo Moby Dick non già in chiave pacificante di romance ma come cupa parabola sui destini totalitari di un’America in cui il tirannico e titanico uomo d’azione, Ahab, non è meno colpevole (né, in fondo, meno pericoloso) di Ishmael, remissivo annotatore e commentatore, succubo se non complice di un “potere assoluto”.
E’, quella di James, una lettura a tutto campo del massimo narratore americano; un’analisi che, pur concedendo maggior spazio a Moby Dick, non trascura altri capolavori all’epoca non adeguatamente apprezzati: non soltanto (come può sembrar ovvio data la sua etnia, la sua formazione culturale e politica e le sue scelte ideologiche) Benito Cereno e Le isole incantate, ma addirittura Pierre, straordinario capolavoro che nemmeno gli studiosi più recenti sanno ancora riconoscere nella sua grandezza. Una curiosa miopia della quale persino Hershel Parker ha dato conferma ancora pochi anni fa nella cosiddetta kraken edition, una bizzarra edizione abridged (censurata per ragioni non etiche o politiche, ma stilistiche e strutturali!) dell’ultimo, sfortunato e scandaloso, romanzo melvilliano (Harper/Collins, 1995). Certo, malgrado il suo spirito anticipatorio, Marinai, rinnegati e reietti mostra a tratti limiti vistosi. L’equivalenza suggerita almeno a livello di compromissione, tra Ahab e Ishmael, “borghesi” alle prese con una ciurma “proletaria”, trascura il rovesciamento di senso che in Moby Dick, dopo l’inabissarsi del Pequod, l’epilogo insinua quasi a tradimento, costringendo lettori e critici a ripartire da zero nella loro ricerca. Così come appare sommario il viscerale rifiuto di Billy Budd, giustificato in poche righe nella prefazione all’edizione del 1984: “Billy è un Gesù che sopporta e porge l’altra guancia ai colpi a venire. Questo personaggio è assente nel mio studio non perché io l’abbia dimenticato ma perché lo rifiuto”. Ma, al di là di questi e altri limiti, le pagine sofferte e a volte autobiografiche di James, nelle quali le vicende del Pequod s’intrecciano all’esperienza di Ellis Island, suonano più che mai attuali, dolenti e presaghe, critiche e ammonitrici. Schiudono orizzonti inesplorati e crudeli ai “nuovi americanisti americani”, come li definisce William V. Spanos in The Errant Art of Moby Dick: the Canon, the Cold War, and the Struggle for American Studios (Duke Up, 1995), un autore altrettanto eretico che ne segue la scia, riesaminando Melville non solo nel quadro della revisione del Canone ma anche in rapporto alla Guerra Fredda e alla tragedia del Vietnam e invitando i suoi connazionali a sottrarsi all’effetto “totalizzante dell’Immaginario americano”, a interrogarsi sui punti di vista “stranianti” degli “altri” e dei “disaffiliati” e a confrontarsi con l'”esterno” di un “interno” che preclude loro aperture inquietanti su nuove dimensioni.

il manifesto – 26 Novembre 2003

La voce di un Prometeo nero

Tra il `52 e il `53, a pochi mesi dall’esecuzione dei coniugi Rosenberg, Cyril L. R. James – rinchiuso tra i prigionieri politici di Ellis Island – scrive Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo, ora pubblicato da Ombre Corte con la postfazione di Cartosio e Mariani In chiave marxista Mentre Achab insegue la balena bianca, Ismaele va alla ricerca di una nuova patente sociale. Secondo la lettura di James, Melville rivela la sua grandezza nel situare Ismaele all’interno d’un processo storico segnato dalla continuità tra le nevrosi del capitale e il totalitarismo: un futuro già visibile nel 1851

In Melville parla il futuro anteriore 

di SANDRO CHIGNOLA 

Scritto tra il `52 e il `53, mentre Cyril Lionel Robert James si trovava rinchiuso a Ellis Island come “undesiderable alien” in attesa di espulsione dagli Usa, il libro su Melville (Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo, con postafazioni di Bruno Cartosio e Gianni Mariani e una nota biografica di Enzo Traverso, Ombre Corte, € 14,50), si inserisce a pieno titolo nella discussione inaugurata qualche anno prima da F. O. Matthiessen, che in American Renaissance (1941) aveva rintracciato il tratto distintivo dei grandi scrittori americani nella loro adesione alle idee di democrazia e di libertà, dando così l’avvio a una febbrile attività interpretativa dalle non troppo dissimulate intenzioni politiche. Per C. L. R. James, scrittore nero, militante panafricanista e teorico diventato marxista, a suo dire, grazie alla contemporanea influenza di due libri, La storia della rivoluzione russa di Trotzkij e Il tramonto dell’Occidente di Spengler, e quindi non facilmente permeabile da suggestioni sull’immediata espansività del sogno americano, Moby Dick travalicava ampiamente, per la sua grandezza, i limiti del romanzo moderno. E poiché proponeva la tragedia di un intero ordine sociale e culturale – non quella di un singolo individuo – poteva essere posto sullo stesso piano dell’Orestea o del Re Lear. Il viaggio sugli oceani del Pequod è il viaggio della civiltà moderna “alla ricerca del suo destino”. E’ questa dimensione propriamente tragica a fare del microcosmo del Pequod il nostro stesso mondo, “the world we live in”, come recita il sottotitolo del libro. Per C. L. R. James, Melville coglie in Moby Dick i primi segni della degenerazione che avrebbe ribaltato la democrazia in totalitarismo, depositandoli in una trama narrativa coniugata al futuro anteriore. In Achab egli rintraccia l’apparizione del moderno dittatore dell’età delle masse, nella ciurma moltitudinaria e meticcia dei marinai i rinnegati e i reietti, l’umanità selvaggia in cui si allacciano i legami sociali della comunità a venire, nel Pequod la metonimica cifra complessiva della fabbrica sociale fordista, in Ismaele – il narratore, cui il critico di Trinidad è uno dei primi a prestare la dovuta attenzione – l’alienato intellettuale contemporaneo, sospeso tra la seduzione del potere e l’esistenza ordinaria, ma “indistruttibile” di un equipaggio anonimo fatto di semplici cittadini del mondo.
Parallelamente alla Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer (uscita qualche anno prima ad Amsterdam, nel 1947), il libro di C. L. R. James legge il viaggio del Pequod come un’allegoria della civiltà moderna. Il delirio di Achab espone nave ed equipaggio alla totale autodistruzione in cui viene portata a compimento la doppia struttura di dominio del sistema capitalistico. Il Pequod è un sistema di fabbrica, la cui razionalità di scopo Melville, “metodico come un sociologo”, restituisce in pagine bellissime (“una baleniera è stata la mia Università di Yale e la mia Harvard”, Melville avrà modo di confessare, con parole non dissimili da quelle di chi, nell’Italia degli anni ’60, si troverà a riconoscere nella Fiat la propria Università): pagine che raccontano come la meticolosità e l’orgoglio del lavoro vengano compresse ed espropriate da un dispositivo di organizzazione che si spersonalizza nella follia del suo comandante. E, allo stesso tempo, esso è quanto Achab è disposto ostinatamente a sacrificare, in una caccia sin dall’inizio destinata a ritorcersi contro di lui e la sua nave, in un’impresa il cui senso finale è la pura riproduzione del suo potere personale su uomini e cose. La verità della lotta contro la balena sono le bombe di Nagasaki e Hiroshima; è Auschwitz, in cui la creazione demoniaca della borghesia moderna, la civiltà della tecnica, sfugge al controllo e trascina i suoi evocatori nella catastrofe di un naufragio generale, in cui la pretesa di dominio sulla natura (Moby Dick) si rovescia contro coloro che le hanno dato l’avvio.
A differenza di Adorno e Horkheimer, tuttavia – ed è questo il motivo per cui C. L. R. James elegge a motivo centrale della sua interpretazione quella che a molti americanisti è sempre parso essere un narrative minore – lo scontro non è già quello di Achab contro balena (o di Achab e Starbuck), ma quello tra Achab e la ciurma. Marinai, rinnegati e reietti non esaurisce negativamente il proprio sforzo critico nella denuncia del necessario collasso della civiltà occidentale, ma in esso si sforza di recuperare i frammenti di una possibile redenzione futura. Lo sguardo sul romanzo (sulla grande fabbrica fordista e sul sistema di dominio che la percorre e la sostiene) è lo sguardo di un intellettuale nero detenuto a Ellis Island. Che vi sperimenta – come ci viene raccontato nel tormentato settimo capitolo del libro, tolto dalle edizioni successive e poi ripubblicato – non soltanto la personale difficoltà della coerenza da tenere a fronte delle autorità che lo stanno inquisendo e che da lui pretendono un’apologia del sistema americano molto difficile, se non impossibile da pronunciarsi, ma anche, e soprattutto, le autonome linee di comunicazione e di solidarietà tra i migranti, le forme della loro cooperazione globale e sovversiva, la materiale realtà di esistenze che sconfessano la “colossale idiozia” di un’amministrazione, che nei detenuti dell’isola vede semplici “individui isolati in cerca di carità e di una casa negli Stati Uniti. Perché l’America è di certo migliore dei loro paesi d’origine, poveri e arretrati” e non comprende la potenza della loro mobile soggettività.
I marinai, i rinnegati e i reietti di cui si compone la ciurma del Pequod – e le cui biografie reali, si potrebbe ricordare, compongono la trama della storia segreta dell’Atlantico rivoluzionario recentemente ricostruita da Peter Linebaugh e Marcus Rediker (The Many-Headed Hydra. Sailors, Slaves, Commoners and the Hidden History of Revolutionary Atlantic, Boston, 2000) – appartengono al futuro. Questo è ciò che fonda, per C. L. R. James, la loro contemporaneità. Il Pequod e Ellis Island raccontano una stessa storia. Con uno scarto significativo, però. Se la comunità dei “vili marinai” di Melville è tenuta insieme in termini di pura contiguità spaziale solo da una chiglia e dalla mente geniale e folle del suo comandante, se non possiede nemmeno la consapevolezza dell’unità che si realizza nella solidarietà e nel lavoro di bordo e che potrebbe essere attivata contro di lui (è il motivo del perché la ciurma non si ribella ad Achab), quella dei detenuti di Ellis Island – che a differenza degli isolati dannati del Pequod, “sanno tutto”, come C. L. R. James si trova a constatare – discutono tra di loro di politica internazionale e confrontano le proprie esperienze di fuga e di lavoro, si passano articoli di giornale e se li traducono gli uni con gli altri, sono in grado di scegliere dove vivere orientandosi tra i diversi dispositivi di legge nazionali. Formano, dunque, una moltitudine consapevole di sé e capace di orientarsi da sola sulle rotte globali di un mondo costruito come aperto dal loro gesto di defezione e di libertà.
La “suprema ironia” di Ellis Island (e forse la segreta morale che solo parlando di lì, da dentro quel centro di detenzione, è dato trarre dall’opera di Melville) è – come scriverà C. L. R. James – che mentre il Dipartimento di Giustizia degli USA, ponendo in contraddizione con se stesso il dettato costituzionale americano, mette in atto una spietata politica anti-immigrazione, i migranti – i marinai, i rinnegati e i reietti che hanno rotto gli ormeggi con i propri paesi di provenienza – “diventano sempre più consapevoli di essere cittadini del mondo”, registrando in quella consapevolezza il dato di fatto della propria forza e della propria autonomia.
Nella lunga notte della guerra fredda che segue gli esperimenti totalitari degli anni `30 e `40 e che contrae il sogno americano nel delirio paranoico del senatore McCarthy, solo il gesto di liberazione del prendere il mare e il sistema di rapporti paritario e franco della comunità di fuga dei migranti può segnare uno scarto, per C. L. R. James, nella parabola che fa tocquevillaneamente degenerare la moderna libertà astratta in precondizione di dominio, la cooperazione sociale sorvegliata in mera servitù.

La lotta tra Moby Dick e il destino 

di PIERPAOLO ASCARI

“La gente della terra è perlopiù così ignorante di alcune tra le più evidenti e tangibili meraviglie del mondo, che senza qualche accenno ai nudi fatti della baleneria, storici e di altro ordine, potrebbe ridere di Moby Dick come di un’assurda favola o, cosa ancora peggiore e più odiosa, di un’orrenda e insopportabile allegoria”. Se decidessimo di assegnare un significato ingenuo alle parole del narratore del romanzo di Melville saremmo obbligati a inserire nel girone degli ignoranti un discreto numero di critici e – cosa ancora più impegnativa – tutti coloro che da centocinquant’anni si cimentano nella lettura di Moby Dick. Del resto, che quel narratore non sia intenzionato a porsi sullo stesso piano del pubblico e che lo affronti, anzi, con una buona dose di ambiguità, lo potevamo intuire sin dalle prime battute, in uno degli esordi più celebri della storia del romanzo occidentale. Il pubblico ha bisogno di un prestanome che garantisca per la storia che si accinge ad ascoltare? E sia, il narratore lo accontenta: “Call me Ishmael” – dice – e facciamola finita. Basterebbero anche solo questi pochi indizi per attribuire a Ismaele uno spirito autoritario, rivestito di moralità e dissimulato nella giustapposizione tra i suoi poteri di testimone e i poteri, più evidenti, del tiranno del Pequod. Quasi a subirne il carisma, però, Edward Morgan Foster condannerà al fallimento qualsiasi tentativo orientato a leggere il romanzo in chiave allegorica, archiviando il caso con un tono perentorio: “Nulla si può dire a proposito di Moby Dick se non che si tratta di una battaglia. Il resto è canto”.
Un lettore diverso, invece, Cyril Lionel Robert James, decide di trasformare Ismaele nel proprio oggetto di analisi. Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo è l’importante referto di questa analisi dalla sfortunata vicenda editoriale, che oggi Ombre Corte traduce finalmente in italiano. Nato a Port of Spain nel 1901, pioniere nello studio delle condizioni soggettive della schiavitù, nipote di schiavi ma cresciuto all’insegna della più classica formazione britannica, James occupa un posto di rilievo nella storia del marxismo. Coinvolto nell’elaborazione di un programma che consentisse al Socialist Worker’s Party di attivare la mobilitazione delle comunità afroamericane, a James appaiono subito chiare le insolvenze di una prospettiva limitata alla questione di classe: un paradigma che giudica incompleto, troppo “meccanico” e incapace di cogliere l’originalità di quelle forme di oppressione che vengono esercitate ai margini del ciclo produttivo.
Senza mai rompere del tutto con i vizi e le virtù della critica dell’economia politica – come ha scritto Federico Gattolin (C. L. R. James. Il Platone nero, Prospettiva edizioni) – James è tra i primi, comunque, a lamentarne le asfissie. Ma un curriculum di questo tipo, negli Stati Uniti, all’inizio degli anni Cinquanta, a pochi mesi dall’esecuzione dei coniugi Rosenberg, non può portare che guai. James viene rinchiuso tra i prigionieri politici di Ellis Island ed è sull’isola, nel 1952, sotto la rigida sorveglianza di un “lettore istituzionale” come l’Fbi, che lavora al saggio su Melville. Un lettore istituzionale che, qualora l’analisi di Moby Dick dovesse suscitarne le premure, rischierebbe di trasformarsi nel più ingombrante dei lettori impliciti. Il rischio è concreto.
Per James, infatti, la grandezza di Melville consisterebbe nell’avere situato Ismaele nel solco di un processo storico segnato dalla continuità tra le nevrosi del capitale e il totalitarismo, una realtà che “in America si poteva già intravedere” nel 1851. Una realtà che si rende osservabile solo nel momento in cui da “coscienza critica di Achab”, rappresentante di una proposta esegetica e di una nazione che si presumono innocenti, Ismaele si trasforma nell'”alter-ego intellettuale” del suo capitano. Qui, nella trama di questa degradazione, si annidano i meriti e le difficoltà di una lettura comunque formidabile, resa possibile da una premessa di metodo per molti versi contigua ai saggi sul realismo di Lukács.
Ismaele è solitario, di buona famiglia newyorkese e di buone letture, isolato dall’equipaggio e dalle relazioni “spontanee” che l’equipaggio sa instaurare al proprio interno, con il mare e con gli strumenti di navigazione. Del suo orribile capitano si potrebbero dire le stesse cose. Entrambi rimangono rinchiusi in un punto di vista ancora una volta “meccanico” (che i francofortesi avrebbero definito “strumentale”), una prospettiva inflessibile alla quale sottomettono la natura e sacrificano se stessi: Achab all’inseguimento della balena bianca, Ismaele alla ricerca di una nuova patente sociale. Il loro rovesciamento della razionalità mercantile nel tentativo estremo di opporsi al capitalismo di Nantucket, ne mantiene intatti la forma logica e produttiva, le dinamiche di sfruttamento della natura e il sadismo.
Achab, negli abiti del tiranno, è una premonizione di Hitler e di Stalin. Ismaele incarna il tipo intellettuale, presente “all’angolo di ogni strada” e pronto a esercitare la forza dell’astrazione laddove i dittatori manipolano le masse e deportano gli avversari politici. La conclusione di James, allora, non potrebbe essere più chiara: Achab, Ismaele – e, con loro, l’America che Melville osteggiava – sono condannati allo stesso destino suicida di Stalin e del Terzo Reich.
Eppure Moby Dick non termina qui, con l’inabissamento del Pequod e con l’inferno che il capitano e il suo alter-ego avrebbero stivato, come una bomba a orologeria, sotto il ponte della baleniera. Perché all’oceano che si richiude sfuggono quattro assi di legno e un epilogo. Grazie a un “ingegnoso meccanismo a molla” Ismaele può rimanere a galla: gli squali gli passano “accanto mansueti” e i falchi lo sorvolano “col becco inguainato”, per due giorni, prima che l’equipaggio di un’altra imbarcazione lo avvisti e lo tragga in salvo. Deve così le sue prerogative di testimone alla tecnologia, a un patto di non belligeranza con il mare e alla comunità dei marinai. E’, per un momento soltanto, un abitante del mondo armonioso che Melville avrebbe tentato di opporre al “mondo in cui viviamo”, all’individualismo liberal e alla pianificazione sovietica.
James cancella questo momento, forse per riunire nella catastrofe i destini paralleli del capitano e del suo alter-ego, probabilmente per non esporsi alle ritorsioni di quel lettore implicito che lo ha tormentato nelle difficili giornate di scrittura e che si sarebbe pur sempre potuto immedesimare con la raffigurazione agiografica di Melville. Perché ciò che trascura è un segmento della storia nel quale – a volerlo decodificare sulla base delle sue stesse premesse – tra la voce di Melville e la voce di Ismaele si viene a creare una distanza inferiore a quella che Marinai, rinnegati e reietti intendeva preservare.
Salvare Melville significava concedere agli Stati Uniti una speranza, resa verosimile dall’ostensione di un contenuto nazionale interdetto alle patologie del narratore. Ma adesso, quando il romanzo termina davvero, l’intellettuale di New York che rifornisce la sua storia di documenti falsi e di prescrizioni non è più così diverso dall’autore che lo ha messo in scena. E mentre Ismaele riorganizza il mondo nelle rubriche della baleneria, per esaurirne i confini e la storia in un quadro totale – simile all’ufficio delle lettere smarrite di Washington in cui, due anni dopo, il narratore di Bartleby vorrà rinchiudere il dramma dell'”umanità” intera – siamo indotti a sospettare che lo scrivere romanzi non sia del tutto immune dalle tentazioni di dominio che Cyril Lionel Robert James si ostinò a circostanziare, forse, nell’inutile tentativo di salvare se stesso.

 

 

 

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *