LUCIANO CANFORA, LA SCOPA DI DON ABBONDIO– IL MOTO VIOLENTO DELLA STORIA, LATERZA 2018, presentazione su youtube dell’autore+ recensione su ” Il corriere della sera “

 

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LUCIANO CANFORA (Bari, 1942), è un filologo classicostorico e saggista italiano. È considerato un «profondo conoscitore della cultura classica», al cui studio egli applica «un approccio multidisciplinare. È stato candidato per le elezioni europee del 1999 nella lista dei Comunisti Italiani nella circoscrizione dell’Italia Nord Occidentale, in quella Centrale e in quella Meridionale, senza risultare eletto.

 

QUI DICE CHE SI PUO’ SCARICARE ONLINE

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La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia

Luciano Canfora

Editore:Laterza

Collana:I Robinson. Letture

Anno edizione: 2018

In commercio dal: 20 settembre 2018

Pagine: 98 p., Rilegato, 12 euro

 

 

La scopa di don Abbondio

Luciano Canfora rintraccia nel tempo presente problemi e fenomeni che pensavamo essere ormai scomparsi nelle pieghe della storia. Nasce così “La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia”. Eccone un brano su “La rivoluzione”.  

L’andamento a spirale del movimento storico lo si può osservare allo stato puro se si pone mente a quel ciclico fenomeno di rottura che gli storici chiamano «rivoluzioni ». Se si osserva, cioè, il riproporsi, di rivoluzione in rivoluzione, della medesima fondamentale istanza, che suscita l’idea di un ritorno ogni volta al punto di partenza. (E sarebbe un inveramento dell’originario significato, per esempio astronomico, del termine latino revolutio.)

Per paradosso, perciò, si potrebbe molto superficialmente sostenere che «le rivoluzioni» incarnano in realtà sempre la stessa rivoluzione. «Eppur si muove».

Partiamo dunque da questa constatazione: è da secoli che sembra replicarsi, e ritentarsi, pur sempre la stessa rivoluzione. Ovviamente cambia il lessico: conforme alla cultura e alle esperienze delle singole epoche. Ciò che invece rende inevitabile la ‘replica’, il rinnovarsi del tentativo, è che le rivoluzioni prima o poi si snaturano o meglio divengono altro: i dogmatici dicono ‘falliscono’.

Ma proprio il fatto che esse tornino a riprodursi ne dimostra la necessità. La posta in gioco è, da sempre, la spinta verso l’uguaglianza: da Erodoto («la parola più bella è ciò che è uguale per tutti») in avanti.

Nonostante la durezza delle rivoluzioni, però, l’ineguaglianza risorge e sempre daccapo provoca repulsa.

E quando finalmente diviene chiaro di quanto ci si è allontanati dalle premesse, e dalle promesse, della rivoluzione precedente, ecco che sono mature le condizioni perché venga ad esistenza una nuova scossa.

Se solo si considera la distanza che intercorre tra i principi dell’89 (Dichiarazione dei diritti dell’uomo) e la realtà, cent’anni dopo, dell’Europa in marcia verso la Prima guerra mondiale, protesa a spartirsi il mondo coloniale, ben si comprende l’inevitabilità di una nuova resa dei conti. Che allora infatti daccapo si produsse (1917-1918). Cambia il lessico, ma la questione sul tappeto è la stessa: i ‘caposaldi’ tradìti della rivoluzione precedente. Non è di ieri o ier l’altro, ma del 1789, la formulazione-caposaldo prodotta dalla Rivoluzione francese: «Gli uomini nascono e restano liberi e uguali» (Preambolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo). E se ben si riflette, si comprende che tutto si gioca su quelle due parole «e restano»: programma grandissimo e inevaso, su cui si infranse quell’esperienza dopo un quarto di secolo di convulsioni (1789-1815). Per poi ricominciare dopo poco. Perché, una volta scritto, quel «e restano» non si può più cancellare. E già mentre – allora – veniva man mano disatteso, veniva nondimeno altrettanto puntigliosamente rilanciato: così vediamo il repubblicanissimo.

Direttorio schiacciare la Congiura degli Eguali di Gracco Babeuf (1796) o il repubblicanissimo generale Cavaignac, figlio del convenzionale e regicida Cavaignac (1793), sparare sugli operai socialisti parigini nel giugno 1848, i quali alla neonata Seconda Repubblica francese ancora una volta chiedevano di tener fede, non solo a parole e nei proclami, alla sbandierata uguaglianza.

Ma è storia assai più antica. Pescando quasi a caso nel passato ne troviamo immediatamente la traccia.

Così se apriamo il grande libro della storia italiana nell’età comunale ci imbattiamo nella rivolta fiorentina dei Ciompi, il cui capo – senza di certo conoscerlo

– riprende un grande motivo dell’ateniese Antifonte: «Se spogliate un ricco e spogliate un povero vedrete che non vi è differenza!». Antifonte diceva: «respirano entrambi col naso e con la bocca! Schiavi e liberi, Greci e barbari». Ma si potrebbe partire da molto prima dei Ciompi: dal discorso di Tiberio Gracco riferito da Plutarco («Persino gli animali hanno una tana per dormire, non i nostri contadini italici!»); o da Spartaco, «che ripartiva in parti uguali il bottino tra gli schiavi ribelli e così attirava sempre nuovi ribelli» (Appiano, Guerre civili, I, 541); o dai Bagaudi, contadini banditi alla fine dell’impero. Le forme cambiano. Talvolta parrebbe trattarsi di conflitti ideali o religiosi, eppure alla base vi è sempre la stessa spinta. Ne furono protagonisti i contadini tedeschi conquistati alla Riforma e presto avversati dagli stessi Riformatori. Non dissimile fu il caso dei ‘Livellatori’ inglesi, presto in rotta di collisione con la neonata repubblica di Cromwell. Più spesso furono le avanguardie spintesi troppo avanti a subire il contraccolpo per aver guardato troppo lontano: dagli ‘Enragés’ del

1793 alle rivoluzioni socialiste di Parigi schiacciate la prima e la seconda volta da governi ‘repubblicani’. Con spiccata ferocia nel 1871.

Ed è proprio il muro dei 40.000 fucilati della Comune che aiuta a capire quanto il 1917 di Pietroburgo riprendesse il filo mai interrottosi della medesima spinta all’uguaglianza, incoercibile come la fame: «sentimento – osservò Tocqueville – nutrito dallo spettacolo della diseguaglianza», «sentimento sempre uguale a se stesso, sempre teso al medesimo obiettivo col medesimo ardore ostinato e talora cieco». 

 

 

In breve, presentazione dell’editore:: 

Nel momento in cui forze politiche oscurantiste prendono il sopravvento in Italia e in larga parte d’Europa, giova interrogarsi sul ‘moto storico’. Il suo andamento può sprofondarci in deprimenti bassure o innalzarci verso affrettate illusioni. Tra il cupo fatalismo persuaso dell’eterno ritorno e il pervicace ottimismo degli assertori di inarrestabili ‘sorti progressive’, la lezione che ci viene dalla storia è che, dopo l’esaurirsi di una ‘rivoluzione’, maturano immancabilmente le condizioni per una nuova scossa: di quelle che a don Abbondio apparivano salutari colpi di scopa.

«Sul letto di morte Mao avrebbe detto una parola che riassume il suo pensiero: “Raccomandate ai giovani cinesi di ricordarsi di Yu Kung”. È il protagonista di una favola contadina. Narra di un vecchio contadino che voleva spianare una montagna a colpi di zappa, lui e i figli. A chi vedendolo all’opera gli disse che sciocchezze state facendo, il vecchio rispose: “Io morirò ma rimarranno i miei figli. Moriranno i miei figli, ma resteranno i miei nipoti e così le generazioni si susseguiranno all’infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte. A ogni colpo di zappa esse diventeranno più basse”. La logica di Mao si attaglia a quella del contadino. Le iniquità sociali sono alte e potenti, ma non è detto che non possano essere abbattute. E in effetti lo sono state anche se altre ingiustizie nel corso dei secoli, ed anche in quelli nostri, ne hanno occupato il posto. Ma anche queste cadranno sotto i colpi di zappa di una rivoluzione che per essere vera ha da essere permanente.» (Dal Diario di Pietro Nenni)

CORRIERE DELLA SERA- 21 SETTEMBRE 2018

https://www.corriere.it/cultura/18_settembre_21/saggio-luciano-canfora-laterza-84315cc2-bdc9-11e8-92b2-6ab34b2db80e.shtml

 

Nel saggio di Luciano Canfora
La stagione dei populisti

Ne «La scopa di don Abbondio», edito da Laterza, il filologo e storico analizza l’avanzata delle forze anti establishment oggi e nel primo Novecento

Anna Boghiguian, «The People’s People», courtesy dell’artista/Galerie Sfeir-Semler

Anna Boghiguian, «The People’s People», courtesy dell’artista/Galerie Sfeir-Semler

Non si fa illusioni sugli istinti della nostra specie. A tutti coloro che, compreso lui stesso, perseguono ideali egualitari, Luciano Canfora indica ostacoli quasi insormontabili che si ergono sulla loro strada: tradizioni antiche, pregiudizi stratificati, ma soprattutto «quel ferino egoismo che costituisce il nerbo della psiche umana». D’altronde se, come scriveva nel Leviatano il filosofo inglese Thomas Hobbes, «la vita dell’uomo è solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve» (anche se oggi un po’ meno che nel XVII secolo), è comprensibile che sia molto forte la pulsione di ciascuno ad affermarsi e a procurarsi beni di vario genere a detrimento degli altri.

Luciano Canfora, «La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia» (Laterza, pp. 98, euro 12)

Luciano Canfora, «La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia» (Laterza, pp. 98, euro 12)

C’è da perdersi d’animo, da concludere che forse con quel fenomeno atavico bisogna scendere a patti, accettando gli uomini così come sono e cercando di regolarne l’irriducibile individualismo, piuttosto che proporsi di debellarlo. Ma Canfora ricorda anche che il futuro è sempre aperto, che le esigenze di giustizia da cui sono scaturite le diverse rivoluzioni rimangono vive, che nessuna restaurazione riuscirà mai a riportare veramente una società al punto di partenza. E soprattutto che le oscillazioni imprevedibili della storia possono travolgere anche gli assetti apparentemente più solidi.

A questo si riferisce il titolo del suo breve e polemico libro La scopa di don Abbondio (Laterza). Una scopa che nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni era la peste, evento cataclismatico per eccellenza. Anche senza chiamare in causa agenti biologici come le epidemie che facevano strage di umili e potenti nei secoli passati, la storia è tuttora capace di riservare sorprese sgradite perfino ai ceti dominanti più sicuri di sé.

Luciano Canfora

Luciano Canfora

Quanto al presente tuttavia l’analisi del filologo classico, firma di spicco del «Corriere», è alquanto cupa. Canfora dà ormai per spacciata la democrazia politica, che a suo avviso «scivola sempre più tra le entità archeologiche». E come unica alternativa alla tecnocrazia delle élite finanziarie, eurocratiche o cosmopolite, vede avanzare le forze populiste, che a suo avviso si possono appropriatamente definire «movimenti fascistici».

Al di là delle ovvie differenze storiche con la prima metà del Novecento, tempo di rivoluzioni e guerre mondiali, si possono individuare, secondo Canfora, almeno due punti comuni tra le attuali destre anti-establishment e le camicie nere, o brune, di quel periodo funesto. Uno è l’insistenza sul richiamo nazionalista, ieri indirizzato a scopi di espansione territoriale, oggi rivolto soprattutto contro gli immigrati dai Paesi poveri. L’altro è la consapevolezza, ben viva a suo tempo nell’ex socialista Benito Mussolini, della necessità di garantire alle masse popolari una certa protezione sociale, senza urtare troppo gli interessi del grande capitale, ma ponendo limiti al mercato e rifiutando i vincoli dell’austerità finanziaria.

Nel frattempo la sinistra è sparita, denuncia Canfora, o quanto meno ha rinunciato a far valere le sue ragioni, per cui i lavoratori si sono trovati senza alcuna rappresentanza credibile ed è risultato quindi agevole per la destra più accanita «lucrare su un disagio vero (e senza prevedibile riscatto)».

Anche se l’autore non lo formula apertamente, viene spontaneo il paragone tra questo squilibrio e la situazione che Canfora stesso descrive nel capitolo del libro dedicato alle grandi religioni monoteistiche. Oggi il Cristianesimo, osserva, si è profondamente trasformato e forse snaturato, un po’ come è avvenuto alla sinistra, perché di fatto ha rinunciato al monopolio assoluto della verità e della salvezza sulla base di credenze indefettibili. È diventato insomma «una quasi-filosofia deistico-illuminista», che vede gli altri culti come vie diverse, ma legittime, per entrare in contatto con la trascendenza.

Ben differente la condizione dell’Islam, più somigliante alla destra populista per il suo atteggiamento conflittuale (da un parte la lotta tra sunniti e sciiti, dall’altra il potenziale scontro tra i nazionalismi dentro l’Unione Europea) e soprattutto per la tendenza al «massimo di aggressività verso l’esterno». Per gli integralisti musulmani contro «atei, ebrei e crociati», per i sovranisti contro il comodo capro espiatorio costituito dai residenti stranieri.

La storia a Pordenonelegge

Si parla anche di presente e passato a Pordenonelegge, dove venerdì 21 settembre Luciano Canfora ha tenuto una lectio sul «moto violento» della storia. Sabato 22 Paolo Mieli e Antonio Scurati dialogano su Mussolini e il fascismo (ore 11,30, piazza San Marco). Racconta di storia «in miniatura» Maurizio Corona (12, Palazzo della Provincia). Di viaggio e mito Andrea Marcolongo (12, Spazio Ascotrade). Del presente dei giovani «disuguali» (Dario Di Vico, alle 10); di intarsi tra fiction e realtà (Luca Mastrantonio, alle 10,30). Al bestsellerista Robert Harris va invece il premio «La storia in un romanzo» (ore 18, teatro Verdi).

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