STEFANO MANNUCCI
(pagg. 478, euro 18) edito da Mursia (2017)
Stefano Mannucci, giornalista, si occupa di musica da decenni e la sua carriera si è sempre divisa tra carta stampata e radiofonia; attualmente è su Radiofreccia, emittente della famiglia di RTL 102.5, tra i conduttori di Rock Morning come Doctor Mann, e scrive su «Il Fatto Quotidiano».
il fatto quotidiano del 17 agosto 2018
https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/addio-regina-del-soul-voce-del-riscatto-dei-neri/
Addio regina del soul, voce del riscatto dei neri
Nelle chiese era tutto un frenetico passarsi i sali. Clarence LaVaughn Franklin si lanciava nei suoi incendiari sermoni e i fedeli svenivano uno a uno, folgorati dalla visione di quel Dio che avrebbe liberato i neri dall’oppressione. La piccola Aretha osservava con occhi curiosi, compiaciuta dall’innegabile potere sovrannaturale di suo padre. Il predicatore battista: che però, avrebbe ricordato la figlia, “era anche un uomo. E quante donne della congregazione si presentavano a lui, dopo la funzione, con le gonne un po’ tirate su”. Del resto, a quel punto delle cose, il vecchio C.L. era tornato a essere un single impenitente. Il matrimonio con Barbara, cantante gospel, era fallito: a elevare inni al Signore avrebbe pensato sua figlia Aretha. O le altre due bambine: Emma, Carolyn.
Non poteva sapere, malgrado le aderenze con il Padreterno, che Aretha avrebbe fatto molto di più. Avrebbe attraversato i territori peccaminosi del rhythm’n’ blues e del soul, del rock e del pop. E malgrado le contaminazioni del fumo, che via via le intorbidava la voce togliendovi luce e purezza, Mrs. Franklin sarebbe stata per sempre la migliore. La Regina.
The Queen of Soul è morta ieri, a 76 anni. Un 16 agosto del cazzo. La stessa data in cui, nel 1977, il mondo ebbe l’annuncio choc della scomparsa di Elvis. Il Re. Con la variante che Presley era stato ritrovato senza vita seduto ingloriosamente sul cesso mentre leggeva un libro sul “vero volto di Gesù”.
Sempre che in quella bara ci sia lui e che non abbiano ragione gli irriducibili complottisti che ancora oggi lo avvistano per ogni dove, imbiancato e acciaccato, ma vivo, vegeto e presumibilmente immortale.
La morte di Aretha invece è stata certificata persino in anticipo, con una imbarazzante sequenza di R.I.P. sui social già da un paio di giorni, gli inopportuni tweet di quelli che volevano firmare per primi il libro virtuale del compianto, perché il cancro all’esofago non lasciava speranze. E poi Aretha si era ormai ritirata dai concerti, era già nella storia della musica. Incastonata in un’America irrimediabilmente trascorsa. Quell’infanzia vissuta seguendo il padre in estenuanti rally nel profondo Sud, “dove ci costringevano a mangiare nel retro dei ristoranti e se dovevamo andare al bagno non ci restavano che le stazioni di servizio. A patto che facessimo benzina”. Due figli avuti a 14 e 16 anni, un primo matrimonio con il violento Ted White. La tentazione della bottiglia per dimenticare le umiliazioni domestiche. Una fottutissima paura di volare che la limitava nelle tournée. L’aereo? Per carità: serate a portata di macchina! Del resto, lei era di Detroit, la Motor City. Che si spostassero gli altri. Come facevano Mahalia Jackson, Art Tatum, Oscar Peterson, frequentatori di casa dei Franklin. Quando era giovanissima e doveva esibirsi in chiesa dopo la Messa, vide avvicinarsi un ragazzo lungo i banchi: “Era vestito nel modo più cool che avessi mai visto, un completo blu elettrico e un soprabito marrone”. Si chiamava Sam Cooke. Tempo dopo, Aretha e la sorella Carolyn erano in auto quando la radio diffuse You send me, il grande successo di Sam. Il suo amico ce l’aveva fatta, ora toccava a lei. Ad Aretha andò ancora meglio, perché Cooke morì mentre inseguiva la pollastrella sbagliata in un motel di Los Angeles. Si disse che l’aveva ucciso la proprietaria, Bertha Franklin: solo omonimia, uno sputo del destino.
La “vera” Franklin osò rifiutare l’ingaggio della Motown del potentissimo Berry Gordy jr, e optò dapprima per la Columbia e poi per la Atlantic. Nacquero in queste due etichette i trionfi della Regina: I never loved a man (the way I love you), Think, You make me feel (a natural woman), Chain of fools e il suo cavallo di battaglia, Respect, mutuato da Otis Redding. “Nel ’67 – raccontava – divenne un inno per il movimento per i diritti civili, ma per me era più una canzone sul confronto tra uomo e donna”. Curiosamente, nessun suo pezzo è mai arrivato al primo posto della classifica. Ma ci è andata molto vicino, ritrovando smalto dopo il momento buio degli anni Settanta. Il cameo d’oro con i Blues Brothers. I dischi negli Ottanta, i duetti con Annie Lennox o George Michael. L’onore di essere la prima donna ammessa nella R’n’r’ Hall of Fame nell’87.
La trovata fenomenale di improvvisare a modo suo il Nessun dorma ai Grammy del 1998, in sostituzione di Pavarotti malato. E i brividi di Obama: quando Aretha (con in testa un vistoso fiocco tempestato di Swarovski) impreziosì l’inaugurazione del primo mandato intonando My country, ’tis of thee e sei anni più tardi, nel 2015, quando fece commuovere il presidente nero a una serata d’onore per Carole King: avvolta in una pelliccia, seduta al piano, la Regina cantò in modo sublime Natural woman.
Aveva paura di volare, ma la sua voce se ne era fregata per tutta la vita.