AIME’ CESAIRE, BASSE-POINTE, MARTINICA, FRANCIA (1913-2008)
INTERNAZIONALE.IT / NOTIZIE /ANDREA DE GEORGIO— 03 GIUGNO 2018
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“L’ora rossa: una nuova umanità”. È questo il titolo scelto per la 13ª edizione di Dak’Art, la biennale d’arte contemporanea africana in Senegal, che si è tenuta dal 3 maggio al 2 giugno. L’espressione è presa in prestito dal poeta antillano Aimé Césaire, che nell’opera teatrale Et les chiens se taisaient (1958) l’aveva usata per indicare il momento di risveglio dell’Africa alle prese con l’emancipazione dal colonialismo.
Oggi questa immagine esprime, secondo il direttore artistico di Dak’Art, Simon Njami, “l’urgenza di un pensiero e di un’azione per rispondere alle sfide ecologiche, politiche e sociali che si presentano all’Africa e al mondo”. Per un intero mese, mostre e vernissage, performance di danza e teatro, conferenze e dibattiti, feste e concerti hanno attirato nella capitale senegalese migliaia di visitatori, collezionisti e addetti ai lavori provenienti da tutto il mondo, consentendo agli artisti africani di esprimere la loro visione.
Tradizione e modernità a confronto
Come nelle passate edizioni la biennale è stata una ventata di dinamismo per un paese, una regione e un intero continente che sta tentando di reinventare il suo futuro senza dimenticare il passato.
Tradizione e modernità sono state al centro di molti lavori. Come nel caso di Edification, serie fotografica del senegalese Alun Be che s’interroga sull’impatto della tecnologia sulla società ritraendo tipiche scene africane in cui dei ragazzini indossano dei visori a 360°. “La questione non è più come modernizzare l’Africa ma come africanizzare la modernità”, dice il fotografo e architetto.
“È un processo cominciato da tempo, ma ora finalmente viviamo un vero rinascimento d’espressione che ci sta liberando dai complessi del passato. Oggi noi africani ci sentiamo liberi, fieri”. Da questo senso di ritrovata centralità nasce un’esplosione creativa che spazia da supporti artistici più classici, come pittura e scultura, a nuove modalità espressive, come video installazioni, performance interattive e multimediali.
“La vera essenza di questa biennale è la sua incontenibile varietà”. A parlare, seduto nel salotto della sua casa-atelier ad Almadies, quartiere di Dakar a ridosso della costa, è Mauro Petroni, artista e ceramista italiano che vive in Senegal da trentacinque anni e dal 2002 cura OFF, circuito di mostre non in concorso della biennale.
“C’è sempre più interesse. L’arte africana vende bene”. Secondo Petroni questa manifestazione negli ultimi anni ha fatto grandi sforzi per uscire dall’elitismo di cui l’hanno tacciata in passato, arrivando a rappresentare per il paese “un’importante opportunità di sviluppo economico attraverso la cultura e il turismo”.
In questa edizione OFF ha presentato 320 esposizioni (nel 2016 erano 270), dai quartieri residenziali alle zone più periferiche della capitale. Alcune mostre hanno raggiunto le città di Saint-Louis, Mbour, Thies, Kaolack, Matam, Ziguinchor e altre nel paese.
La selezione di opere internazionali in concorso, IN, è stata allestita a Plateau, centro amministrativo di Dakar, all’interno del vecchio palazzo di giustizia, una costruzione fatiscente abbandonata da tempo e trasformata in galleria d’arte per la scorsa edizione della biennale.
Una riappropriazione degli spazi pubblici che fa rivivere, almeno per questo mese, altri luoghi simbolo del passato coloniale della città come la stazione ferroviaria, il mercato maliano e il biscottificio di Medina.
Una generazione imprigionata
Vincitrice del premio Senghor 2018, massimo riconoscimento della biennale (del valore di circa 30mila euro), è stata Leila Adjovi. Al palazzo di giustizia la giovane artista franco-beninese ha esposto Malaika Dotou Sankofa, lavoro fotografico in cui mette in scena un personaggio femminile in stretti abiti da uomo che sulle spalle porta enormi ali fatte di colorati tessuti africani. “Volevo esprimere il senso di imprigionamento della nostra generazione, per questo le foto sono state scattate nei sotterranei del palazzo di giustizia”.
Il messaggio, anche in questo caso, è chiaro: “Nonostante il crescente discorso sull’Africa che avanza, il nostro è un continente ancora alle prese con diversi problemi. Per superare davvero la condizione attuale devono essere gli africani stessi a scegliere il loro sviluppo”.
Il Senegal in questi mesi vive una situazione politica lontana dall’immagine di stabilità di cui gode all’estero. Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali previste per il 24 febbraio 2019, infatti, i principali oppositori del presidente Macky Sall finiscono in carcere uno dopo l’altro.
L’Africa prova a scrivere la sua storia con un espressionismo che non sia puro esercizio estetico
È successo a Khalifa Sall, ex sindaco di Dakar in carcere dal 17 marzo 2017 con l’accusa di corruzione. È successo a persone della società civile e del movimento antagonista Y’en a marre (ne abbiamo abbastanza), finite in manette il 19 aprile. È successo anche ad alcuni leader dell’opposizione che, all’inizio di marzo, hanno partecipato a manifestazioni non autorizzate.
Nelle ultime settimane, poi, le strade della capitale si sono riempite di sassi, barricate improvvisate e pneumatici incendiati. È la protesta degli studenti universitari, scoppiata dopo i ripetuti ritardi nel pagamento delle borse di studio. Nella città di Saint-Louis, antica capitale dell’impero coloniale francese, la violenta repressione delle marce studentesche ha causato alla morte di uno studente di lettere di 25 anni. Fallou Sène, ucciso il 15 maggio dalla pistola di un poliziotto, è il secondo studente morto durante il mandato di Macky Sall.
Siamo lontani dai tumulti dal ’68 senegalese – periodo di forte contestazione che costrinse il presidente Léopold Sédar Senghor a rifugiarsi in una base francese prima di reprimere con la forza lo sciopero generale – ma il malcontento giovanile continua a crescere. Alcune scritte con lo spray rosso sono apparse sulla facciata dell’università Cheick Anta Diop. Dicono “Francia vattene!”, testimoniando un conflitto che va ben oltre la questione delle borse di studio.
Un gioco di specchi con l’occidente
Non a caso Raw Material Company, una delle gallerie d’arte più interessanti della capitale senegalese, per questa biennale presenta un’esposizione intitolata The revolution will come in a form we cannot yet imagine (la rivoluzione avrà una forma che non possiamo ancora immaginare), ampia ricerca d’archivio sulle riviste letterarie, politiche ed artistiche di molte ex colonie del sud del mondo. A cinquant’anni esatti dal maggio 1968, lo spazio espositivo – finito al centro di aspre polemiche durante Dak’Art 2016 per una mostra sull’omosessualità chiusa dallo stato su pressione delle élite religiose – sceglie un approccio storicizzante suggerendo diversi parallelismi fra il passato e il presente africano.
Dopo decenni di rappresentazioni prodotte dagli ex colonizzatori, la cui bulimia suprematista ha relegato l’arte non occidentale nella degradante categoria dell’esotismo, l’Africa sta provando a scrivere la sua storia attraverso un espressionismo che non sia puro esercizio estetico ma spunto per un vero riscatto sociale e politico. Un continuo gioco di specchi con l’occidente, a volte deformante, a volte illuminante, con cui gli artisti africani cercano, non senza contraddizioni, di ridefinire la narrazione del continente. Un momento non solo artisticamente cruciale per stati che hanno da poco compiuto mezzo secolo e che, nonostante la formale indipendenza, si sentono ancora il “giardinetto” delle ex potenze coloniali. Francia in primis.
Una questione aperta che travalica i confini puramente intellettuali arrivando a determinare la vita quotidiana di milioni di persone, soprattutto i più giovani esposti a crisi identitarie giocate proprio sull’incontro-scontro tra modernità e tradizione. Ecco perché la ripresa e la decostruzione del concetto di negritudine – di cui il padre della nazione Senghor è stato ideologo, insieme a Aimé Césaire – torna di pressante attualità. E oggi è declinato attraverso frasi e immagini di Thomas Sankara, presidente libertario del Burkina Faso (1983-1987), affiancate a quelle del film della Marvel Black panther.
“Non sono solo giovani pazzi con vestiti strani. Gli artisti sono il bagliore che illumina la società”, commenta un guardiano palestrato davanti a un’installazione in mostra su un marciapiede del quartiere Mermoz. A Dakar è suonata l’ora rossa. E “nulla sarà più come prima”. Parola degli artisti africani.