L’ANNO ZERO
Ezio Mauro (Dronero- Cuneo, 1948)
Dopo due mesi di messaggi in bottiglia, dovremo probabilmente aspettare il discorso di insediamento alle Camere del nuovo presidente del Consiglio per capire che profilo avrà il governo tra Cinque Stelle e Lega — se nascerà come oggi sembra —, quale sarà la sua natura politica, la sua cultura di riferimento, e infine e soprattutto la sua visione del Paese e del mondo. Quando il potere viene conquistato dal populismo, questa parola dice la verità, ma non spiega nulla. Quando i populismi al comando sono due le cose non si sommano, si complicano. Quello che è certo è che comincia la stagione della post-politica, perché questo è il vero codice con cui cercano l’intesa Di Maio e Salvini.
Proviamo a capirlo.
Le differenze e le diffidenze tra i due partiti sono evidenti.
Ma il principio di attrazione è più forte e si basa sul comune racconto della fine del mondo.
Ogni passo che compiono nel loro separato cammino, leghisti e grillini si dipingono alle spalle un paesaggio comune di macerie e distruzione, un mondo corrotto e fradicio, che non merita nemmeno di essere ereditato, ma soltanto soppiantato.
Poco importa che i leghisti siano ormai il più vecchio dei partiti esistenti, abbiano partecipato al banchetto dell’epopea berlusconiana, condividendo tutto, ascesa, titanismo e caduta: il sovranismo salviniano ne fa un partito nuovo, lo proietta ben al di là del Po, sostituisce Odino con Orbán nel pantheon e Roma con Bruxelles come nemico. Un nuovo mondo che ha dichiarato guerra al vecchio universo dominante. Anzi, ne è uscito fuori, anche se per farlo deve compiere un’inversione di marcia, dichiarare la fine della globalizzazione e del cosmopolitismo, tornare nel guscio degli Stati nazionali, come se il passato fosse il rifugio del futuro.
La fine del mondo è il perenne inizio della storia grillina. Loro sono nati alla politica per annunciarlo. La continua, meccanica dichiarazione di non essere né di destra né di sinistra, scegliendo come cifra costante una somma zero identitaria, andrebbe completata. È come se dicessero: noi non abbiamo un prima, e il dopo è irrilevante. Viviamo nell’oggi, perché ciò che conta è la rottura. Noi siamo qui a testimoniare la frattura, la nostra bandiera è piantata sul punto politico in cui il ghiaccio si sta rompendo, questa è la nostra funzione. È il racconto biblico di una fine del tempo politico incombente, rigeneratrice ma pur sempre apocalittica.
Queste due diverse mozioni degli istinti danno vita, potremmo dire, ad un racconto dell’anno zero. Non ci eravamo probabilmente resi conto che il Paese — pur sfibrato dalla cattiva prova della politica — era pronto ad una sub- interpretazione così elementare di se stesso e dei suoi guai. Certo, la democrazia italiana ha funzionato male e ha prodotto politica di bassa intensità e di scarsa efficacia da anni. Ma cos’è successo, perché si preferisca ormai seguire un comico piuttosto che un leader, una battuta più che un pensiero? Quando la notorietà ha cominciato a sostituire la fama, la popolarità a prendere il posto della stima? La veemenza a spodestare la competenza? La performance a soppiantare la politica, il gesto a sovrastare il significato?
Resta il fatto che oggi la missione è quasi compiuta, con un fraintendimento alla base. Perché la grande semplificazione del populismo è continuamente scusata e riscattata da una radicalità che inganna, da un estremismo illusorio. Si accetta il codice populista convinti che fornisca il tagliando per una ribellione politica al vecchio ordine, e non ci si accorge che alla semplificazione del linguaggio corrisponde una spoliazione culturale, storica, identitaria, valoriale. Nell’imbuto dell’anno zero contano solo categorie provvisorie ed effimere come “nuovo” (destinate a diventare vecchie già dopo un anno) o come “ onesto”, che è naturalmente una pre-condizione importantissima, ma appunto una precondizione: a cui nel mondo politico bisogna ovunque aggiungere altre qualità, come la competenza, l’esperienza, la conoscenza, il sapere. Per tutto questo da noi c’è invece diffidenza, perché il sapere si è formato prima dell’anno zero, si porta dietro un sospetto di peccato, ha un riflesso castale, un profumo di élite.
Basterebbe fare un passo in più. Chiedere ai distruttori presunti del vecchio mondo (che è peraltro perfettamente capace di farsi male da solo) qual è il loro disegno di nuovo mondo, se possiedono l’idea di costruire qualcosa, se hanno il progetto di un nuovo ordine, l’unico veramente rivoluzionario, oltre le macerie. Silenzio, per ora. Anzi, ambiguità. Come chiamare altrimenti, da parte dei grillini, un’idea di Paese offerta indifferentemente ad un governo con il Pd e con la Lega? E da parte di Salvini, l’idea di tenere un piede nei conflitti d’interessi permanenti di Berlusconi e l’altro nella rivoluzione grillina? Come se fosse la stessa cosa scegliere Merkel o Orbán: vivere nell’era di Obama o di Trump, continuando ostinatamente a non voler distinguere, facendo finta che contino solo i problemi, e non il modo di affrontarli.
È ora di dire che ciò che salda nel profondo Salvini e Di Maio e li ha portati a cercarsi fin qui è da un lato la forza di gravità di questa legislatura, che porta a destra come ha voluto l’elettorato, lasciando questo segno dentro l’urna. Dall’altro lato, più forte ancora, è il loro diverso, diseguale ma comune istinto di destra, che si rivela nelle scelte fondamentali, come un impulso pre-politico, un’inclinazione di natura. Quella di Salvini è una destra lepenista che proverà a fare opposizione permanente al sistema dal governo, immettendo tensione nel circuito istituzionale, puntando a virare pericolosamente la politica estera di un Paese fondatore della Ue verso quel sovranismo che ieri Mattarella ha definito un inattuabile inganno per i cittadini. Quella di Di Maio è una destra post-moderna e post-ideologica, che nasce nella guerra alle élite, nella polemica permanente con le istituzioni, nell’ambiguità incerta dei riferimenti internazionali, nel rifiuto del politicamente corretto, nel superamento delle competenze e nell’azzeramento del sapere, fuori dalla storia delle culture politiche dell’Occidente.
Proprio questo disancoramento totale da ogni vincolo storico rende ancora possibile una rottura tra i due partner, dopo le intese post-voto, le polemiche, gli insulti, i nuovi corteggiamenti, i contratti. Nell’anno zero, tutto è estemporaneo, ogni cosa si giustifica mentre si compie, solo perché avviene: finché il popolo non si risveglia. Ma la verità oggi è che i due predicatori della fine del mondo non potevano lasciare le contrade libere l’uno alle campane dell’altro. O insieme al governo, o insieme fuori, all’opposizione. Fino all’ordalia finale cui i populismi sono condannati dalla loro stessa natura suprematista.
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