TIJUANA A NORD-OVEST
IL MANIFESTO DEL 01-05-2018
https://ilmanifesto.it/la-via-crucis-a-tijuana/
La Via Crucis a Tijuana
American Psycho. La «caravana» dei profughi è giunta al confine con gli Usa con la speranza di poterlo superare. Ma nella retorica populista di Trump i migranti sono diventati la minaccia «numero uno»
Gli ultimi due isolati di Avenida Constitución sono un microcosmo di Tijuana, o dello stereotipo di questa città, schiacciata sulla rete di confine su cui si incagliano i relitti della marea umana che sale da sud.
Gli ultimi profughi in ordine d’arrivo sono alcune centinaia di membri de «la caravana» di rifugiati centroamericani giunta nel fine settimana all’accampamento di Juventud 2000, la Ong che all’angolo di Fernando Ayala ha allestito un capannone in lamiera in cui sono stipate dozzine di minuscole tende e mucchi di indumenti e giochi per bambini raccolti dai volontari.
MALGRADO IL NOME altisonante quest’ultimo pezzo di Avenida prima del confine è un tratto maleodorante di asfalto, sconquassato di buche e pozze di liquame. Alcuni derelitti sono accasciati sui marciapiedi, incuranti delle signorine in tenuta da pole dancing che volteggiano davanti al Chicago Club e gli altri locali del distretto a luci rosse per invogliare ipotetici clienti nordamericani in libera uscita o spring break.
È stato questo il terminale della carovana organizzata dalla associazione pro migranti Pueblos Sin Fronteras e battezzata «Via Crucis» per attirare attenzione sui travagli dei profughi. Composta principalmente da profughi honduregni la carovana ha percorso oltre 4.000 km per arrivare fin qui ed è assurta agli onori delle cronache qualche settimana fa quando il presidente Trump l’ha denunciata come un attacco alla sovranità che gli Usa giurando che avrebbe respinto difeso a tutti i costi i sacri confini meridionali e intimando al Messico di fermare i pericolosi migranti prima che giungessero sull’uscio della «maggiore democrazia mondiale».
Nella fattispecie la dangerous caravan della Via Crucis era composta di poveri cristi, principalmente famiglie in fuga da condizioni insostenibili di vita nel loro paese soffocato da gang criminali, violenza, povertà e soprusi. Molti sono inoltre esuli politici in fuga dalla repressione in atto nel paese dopo la frode elettorale che ha riportato al potere il filoamericano Juan Orlando Hernandez a seguito di brogli particolarmente plateali. Dopo essere stati segnalati dalla Fox News (la principale fonte di informazioni del presidente) come incarnazione della «minaccia immigrante» agli Usa, gli ignari profughi si sono trovati oggetto di bordate di tweet presidenziali che li ha denunciati come destabilizzatori sotto mentite spoglie di perseguitati.
LUNGO IL DIFFICILE PERCORSO dal Centro America al confine il gruppo di famiglie è stato oggetto di numerosi reportage e interviste in cui hanno spiegato di correre pericolo di morte in patria e di sperare nell’accoglienza umanitaria ne El Norte. Il Messico ha respinto le richieste di Trump, pur concedendo provvisoria residenza a chi l’ha voluta.
Ora infine i reduci del calvario sono giunti in vista della terra promessa indicata dal Disney Store, dalla Polo Ralph Lauren e gli altri scintillanti marchi del Las Americas Outlet, le cui vetrine si intravedono attraverso i reticolati di confine come allettanti fari di affluenza micidialmente inarrivabile a 300 circa in linea d’aria dal accampamento di Juventud 2000.
LA COMITIVA nata come atto anche simbolico per attirare l’attenzione sul dramma dei migranti, si è venuta a trovare al centro di una contesa simbolica ed emblematica della attuale politica globale. In quest’ottica l’iniziativa di Pueblos Sin Fronteras è stata cooptata da una narrazione nazional-populista e apocalittica in cui i profughi comprovavano la minaccia oscura del sud che tenta di fare breccia nella muraglia difensiva della nazione.
Vengono a mente le parole proferite da Steve Bannon quando era consigliere speciale di Trump: «Più la sinistra ci incontra su terreno identitario e più saremo vincenti». Nella retorica militarizzata su cui Trump ha costruito la propria fortuna politica i diseredati della carovana sono diventati conferma delle dietrologie paranoiche sulla difesa dei confini fisici ed etnici della nazione.
Investite di effimera celebrità mediatica (quando arrivo, nell’accampamento è all’opera una troupe della Fox News per cui l’avanzata della «caravana» è diventata ormai cinico reality da seguire a puntate con titoli ad effetto per fomentare angoscia nel pubblico target), si preparano all’ultima tappa del loro viaggio.
DIVISI PER NAZIONALITÀ e smistati in gruppi familiari, venerdì scorso erano stati rifocillati nel vicino centro salesiano dove, mi ha spiegato Jose Maria Lara, coordinatore di Juventud 2000, avrebbero ricevuto anche consulenze legali a cura di avvocati volontari americani sulle procedure di richiesta di asilo.
La pratica implica costituirsi alle autorità americane di confine e quindi la detenzione preventiva in attesa di una prima intervista che deve determinare una «credibile minaccia» all’incolumità nel paese d’origine.
In seguito i richiedenti asilo vengono smistati in centri detenzione ad ingrossare le fila dei più di 400.000 immigrati che vivono in un ipertrofico complesso carcerario (in gran parte appaltato a strutture private che complessivamente fatturano 44 milioni di dollari l’anno) in cui gli immigrati non hanno diritto alla libertà condizionata né appello nella snervante attesa di un udienza formale che può prolungarsi per mesi e anche anni.
Questa era già la prassi in epoca Obama ma ora con un amministrazione che della severità contro i migranti ha fatto un punto cardine, le famiglie vanno incontro a misure più espressamente crudeli come la separazione. L’ultima iniziativa annunciata il mese scorso da Jeff Sessions, il ministro di giustizia con delega di fatto alla pulizia etnica, per «scoraggiare» le richieste di asilo è infatti la rimozione di bambini anche di 6-7 anni dai propri genitori.
QUESTI POSSONO ESSERE poi dislocati in centri anche a migliaia di chilometri dalle madri. Una misura, ha spiegato Sessions con eugenetica lucidità, «di dissuasione» a quella che ha definito «la frode» dell’asilo da parte di persone che sono semplicemente povere.
Nella sceneggiata trumpiana alla retorica ha fatto seguito la mobilitazione della guardia nazionale, un atto simbolico per creare l’effetto emergenza e fabbricare ad arte la psicosi quanto il presunto muro di confine dato in pasto allo zoccolo duro dei supporters. Texas, Arizona e New Mexico hanno accettato la richiesta del presidente dislocando alcune centinaia di militari in località vicine al confine per «attività di supporto».
LA CALIFORNIA ha deliberato a lungo poi accettato di mobilitare 200 riservisti con funzione logistica a condizione tassativa che non fossero coinvolti in missioni di interdizione diretta di migranti e con l’espresso divieto di coadiuvare la costruzione di muri. Assalita da Trump come «una farsa» la decisione è diventata l’ultimo tassello di un conflitto sempre più aperto fra Washington ed il Golden State.
La scorsa settimana infine è circolata la voce di brigate di magistrati spediti al confine per smaltire la prevista «ondata» di richieste di asilo. «È una fandonia», mi dice però Michelle Stavros, avvocato di San Diego specializzata in immigrazione, «se pure mandassero i giudici, mancano le strutture in cui operare, anche questo è un vecchio trucco per agitare gli animi».
LA SAGA DELLA CAROVANA somiglia dunque sempre di più ad una messa in scena politica, un teatro della crudeltà contro gli inermi che è cifra comune di una politica globale che rivendica come virtù il nazionalismo identitario – dalla Siria al Mediterraneo alle Alpi al Rio Grande.
Una guerra di distrazione di massa di cui in questo caso faranno probabilmente le spese una manciata di famiglie indigenti e, per Trump, un atto dimostrativo e «performativo» a favore dei sostenitori che chiedono carne viva e vittime sacrificali per lenire i rancori che lo hanno portato alla casa bianca. Quando mi congedo per tornare al otro lado una donna dice: «Speriamo nella comprensione di Trump, non è forse anche lui un essere umano come noi?» È una speranza che date le premesse pare quantomeno mal riposta.
DOMENICA, prima di raggiungere il confine i membri della carovana e qualche centinaia di sostenitori si sono riuniti a Playas de Tijuana. Alcuni a cavalcioni sulla staccionata di confine hanno sventolato bandiere dell’Honduras scandendo «No somoso criminales, sino trabajadors internacionales!» e cori di «Gracias Mexico!»
All’imbrunire davanti al varco di San Ysidro c’era un bivacco di una cinquantina di migranti. Gli agenti avevano detto loro che noi c’era personale disponibile per accogliere le domande e si preparavano ad una prima notte all’ addiaccio. I genitori coi fardelli in spalla, parlavano sommessamente o controllavano i cellulari.
I bambini e le bambine usano lo spiazzo antistante la postazione del border patrol come farebbero ovunque, rincorrendo felici una palla. Potrebbe essere l’ultima volta per un pezzo – il loro destino dall’altra parte della linea non promette nulla di buono. C’è infatti la netta sensazione che alla fine del loro calvario i profughi della carovana si stiano per consegnare al gulag di una amministrazione a loro apertamente ostile, che tutto ha a cuore tranne le loro sorti.
PER FUGARE OGNI DUBBIO al riguardo, il presidente di questa America che rinnega il melting pot sostituendo al progetto multiculturale un suprematismo risorgente, si è recato contemporaneamente in Michigan per un comizio, uno di quei rochi sabba per elettrizzare la base. «Non ci sono ispanici in sala stasera, vero?» ha chiesto Trump, dipingendo poi una scena del suo horror fantapolitico: «Questa valanga di gente che passa il confine viene a votare per i democratici! Per questo urge costruire il muro e vi prometto che se non stanzieranno i fondi io blinderò il paese!»
AUTORE DELL’ARTICOLO::
LUCA CELADA
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Ha frequentato Quarto Liceo Artistico Roma
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Vive a Los Angeles