DONATELLA D’IMPORZANO CI PARTECIPA NELLA SUA RUBRICA : ” C’ENTRA ASSOLUTAMENTE “::: UN RACCONTO DI VINCENZO CONSOLO DA ” LE PIETRE DI PANTALICA ” IN CUI SI NARRA LO SBARCO DEGLI ALLEATI IN SICILIA

 

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Vincenzo Consolo nel libro ” Le pietre di Pantalica”, si esprime, come nella sua opera più famosa, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, in un linguaggio insieme realistico e poetico, che scava nelle profondità di un popolo. Con un ritmo sonoro e melodioso di parole antiche, che riaffiorano con la consapevolezza ironica di chi guarda la storia con umana pietà, trasmette l’eterno inganno a cui, più o meno consapevolmente, si affidano le genti. Trascrivo qui parzialmente uno dei racconti che compongono il libro: la cronaca dello sbarco alleato in Sicilia nella Seconda guerra mondiale.
Da ” Le pietre di Pantalica”, di Vincenzo Consolo, prima edizione 1988, Mondadori.

 

Lo Sherman
Mattinata di luglio d’un sole che folgora la terra, i campi di stoppie, le piane gerbide, le colline di gesso e caolino a ridosso della valletta di contrada Prato. Nel silenzio attonito, in mezzo alla desertica campagna, nel vuoto infinito avanzava lo Sherman sulla strada verso Mazzarino… Da grotte e anfratti di rocce, da cunette, da macchie di rovi che schermavano salìbbe, da filari di fichidindia, sbucarono a poco a poco i contadini, le donne con i figli al petto e fra le gonne, i vecchi rinsecchiti. Stracciati, terrosi, stupefatti, come i morti che si destano al suono delle trombe.
Guatarono sulla strada quella gran tartuca di ferro, quella cùbbula possente, quel bufone meccanico col cannone sulla testa che avanzava lasciando dietro una coda di fumo e di polverazzo. Videro le stelle bianche stampate sopra i fianchi e la bandiera floscia in su la cima dell’asta sopra il parafango. Che è e che non è, capirono finalmente che si trattava d’essi, dei Mericani, che dopo tre notti e giorni di fuoco fitto e botti, arrivavano finalmente a liberare.
Alla casina del dottor Cannada…tre uomini avanzarono incontro al carrarmato, gonfi di coraggio e di speranza, con sotto una paura nera soffocata. Agitavano panni, fazzoletti bianchi in segno di resa, pace e amistà. Erano il prete Cannarozzo, mastro D’Aléo e Vico Nolasco, inteso Divìco Sette Soldi, che pel suo soggiorno ventennale in terra mericana, in Pittsburgh city Pennsylvania, masticava quel linguaggio forastiero e che parlò, urlando, contro la torretta ermetica, il pertugio d’una calotta sibillina: “We are friends, friends! Welcome to Mazzarino city! We love America! peace, peace, liberty!” Il prete Cannarozzo, grasso e sudato dentro la sua tonaca stinta che dal nero torceva ormai al verde, una mano in alto, faceva croci nell’aria, segni di benedizione e assolvimento. S’arrestò il carro con fracasso, con rinculo e gran macinamento sotto i denti di ciottoli e ghiaietto. Si scoperchiò in alto all’improvviso quell’enorme buatta; dal buio del suo ventre sbucarono nel sole una, due, tre teste con elmo, spalle e braccia in divisa color verde: i Mericani si misero a vociare, a far urla di gola come garzoni per richiamar pecore sparse o bordonari per aizzar giumente, a far gesti larghi, spartani, mosse d’accoglimento e di benevolenza. “Ihù, ihù, ihù!…” fecero a bocca grande, e tutti i denti in fora belli bianchi.
I tre uomini restarono di stucco, labbra dischiuse e occhi spalancati, il prete Cannarozzo il braccio in alto come quello di un santo dentro il reliquiario.
” Oh, oh, paesani!” fece allora uno da sopra il carrarmato. ” Io, io, siciliano” aggiunse per scuoterli e levargli lo spavento.
” Mio padre nasciò a Cefalù, mia madre a Petralìa…”.
” Può esser mai? si chiese il prete Cannarozzo. ” Così biondo, e faccia rossigna d’apricocca?” ma quello parlava, parlava siciliano, se pure con accento forastiero.
” Veni qua, veni qua” disse l’americano facendo cenno a Divìco Sette Soldi. Divìco si mosse e andò sotto la torre, un riso scimunito a fior di labbra.
” La coppola!” ordinò. Divìco si scoppolò e stese la berretta rovesciata tenendola con due mani come ‘na guantiera. Quello allora gli rovesciò dentro pacchetti di sigarette, rotoli di caramelle e altri involti. I due soldati allato ridevano sguaiati, dandosi manate come a una passata comica di scena variètè, e soprattutto uno, nero nero peggio d’un saracino, due labbroni aperti come un forno. Il biondo si mise a vociare, con faccia cattiva, a insultarli, e quelli allora si composero, s’inconigliarono, affondarono dentro il carrarmato; ma subito riemersero con le mani piene di sigarette e tant’altri complimenti, che lanciarono al D’Aléo e al padre Cannarozzo. Il quale non si chinò, come quell’altro, per dignità, a raccogliere da terra la roba sparsa, ma con fare contegnoso tirò fuori il fazzoletto dalla tasca e s’asciugò il sudore sulla testa, sulla faccia, sul collo, sotto la ” pazienza” sbottonata. Il biondo siciliano notò quel suo imbarazzo e lo chiamò.
” Vossia, mastro prete, vieni qua!” e quando Cannarozzo fu di sotto ” Apparecchia la sottana” gli disse. Quella parola, sottana, riferita al suo abito talare, al suo sacerdotale vestimento, il padre Cannarozzo l’intese come offesa. Ma vista l’innocenza del soldato, si chinò, per quanto potesse consentirgli la sua panza, e prese graziosamente con due mani l’orlo della veste, tirò su, e formò in sul davanti ‘na bella concarella. Nella quale piovve ogni ben di Dio, noto e ignoto.
Quando finì tutto questo movimento di regali e di galanterie, il soldato siciliano, ch’era pur comandante, domandò:
” Ahò, paisani, ci sono qua intorno ancora Germanesi, soldati italiani?”
“No! No! No!” risposero in coro i tre paesani.
E padre Cannarozzo rincalzò:
” I Germanesi si sono ritirati, e quanto a militi e soldati taliani, se la squagliarono avanti”.
” Possiamo andar sicuri, possiamo entrare dentro nel paese?”
” E come no?! Son tutti là ch’aspettano!”
” Allora, camàn, camàn! Forza, venite qua pure voi” disse il comandante facendo segno ai tre di montare sopra il carrarmato. I tre cercarono d’arrampicarsi, ma l’impresa risultò difficoltosa. Saltarono allora giù i due soldati e a forza di manate e di braccia a puntello sotto il culo li spinsero sull’alto balconcino di lamiera, Divìco, D’Aléo e padre Cannarozzo erano felici come fanciulli sopra la vara del Signore dell’Olmo. Il carro ebbe uno scossone, si mise a sussultare e subito partì, col suo fracasso e il suo sferragliamento verso Mazzarino.
I contadini, su per i colli, avevano spiato quella scena, avevano riconosciuto i loro tre paesani montati sopra il carro, e si convinsero che tutto era finito, finiti i fuochi, i botti, gli aeroplani, che la guerra era passata e che potevano tornare nel paese.
Ma si convinsero anche che quella pomponella dei tre compaesani, di Divìco, di D’Aléo e del padre Cannarozzo- andare per primi incontro ai Mericani, i fazzoletti bianchi, il parlamento e poi le regalìe- era quella di sempre, che sempre ripetono i baroni, proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a comandare, per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani.

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