EDOARDO NOVELLI, IL FATTO DEL 9-4-2018, LA CAMPAGNA ELETTORALE PIU’ SOCIAL DI SEMPRE FU NEL1948

 

se mai ti interessa…

MANIFESTI DELLA PROPAGANDA ELETTORALE PER IL 18 APRILE 1948 / E PRECEDENTEMENTE PER IL 2 GIUGNO 1946

 

IL FATTO QUOTIDIANO DEL 09-04-2018

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La campagna elettorale più social di sempre fu nel 1948

Il 18 aprile di 70 anni fa il voto che decise la storia dell’Italia contemporanea, una battaglia combattuta su temi ancora attuali che mobilitò milioni di persone in uno sforzo comunicativo da far invidia al webDio ti vede, Stalin no – Manifesti elettorali del 1948 – Immagini tratte da “Le elezioni del Quarantotto. Storia, strategie e immagini della prima campagna elettorale repubblicana” di Edoardo Novelli (Donzelli, 2008)

Ancora echeggiano nell’etere ed in rete gli echi delle promesse e dei programmi delle elezioni del 4 marzo che già si annuncia all’orizzonte la prospettiva di un nuovo ricorso alle urne per uscire dall’empasse, risultato di una infelice legge elettorale ed un elettorato tripartito in fronti apparentemente inconciliabili. Ed è nell’attesa o nella minaccia di una nuova campagna elettorale che il 18 aprile cadono i settant’anni dalle elezioni politiche del 1948. Un evento storico che stabilì gli equilibri politici della nuova Italia repubblicana, preceduto da una campagna elettorale che fissò parole, strumenti, immagini, riprese e riproposte negli anni a venire.

La campagna elettorale per le elezioni del 18 aprile del 1948 inizia di fatto il 17 gennaio del 1947, giorno del rientro dagli Stati Uniti del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi con in tasca un primo assegno di cinquanta milioni di dollari firmato dal presidente americano Herry Truman, in cambio dell’estromissione dei comunisti e socialisti dal governo, che si verifica il 31 maggio del 1947.

Quando, il 1 gennaio del 1948 entra in vigore la Carta Costituzionale, definito un terreno democratico ed istituzionale condiviso, i partiti sono pronti per scontrarsi nella madre di tutte le campagne elettorali.

La prima novità del 1948 è la vastità della mobilitazione, condotta da partiti di massa, che dispongono di strumenti di comunicazione di massa, quali manifesti, riviste, volantini, cartoline, fumetti, filmati, diffusi in enorme quantità, da una massa di propagandisti.

Forti delle vittorie ottenute in diverse elezioni amministrative i comunisti ed i socialisti danno vita al Fronte Democratico Popolare, sotto il simbolo di una stella con il volto di Garibaldi. L’eroe dei due mondi non solo richiama l’epopea risorgimentale dei garibaldini in camicia rossa, ma anche l’esperienza resistenziale delle Brigate Garibaldi. Quel “testimonial” speciale preoccupa non poco gli altri partiti. I muri si riempiono di disegni di Garibaldi che mettono in guardia gli elettori a non confonderlo con i social-comunisti. In una cartolina eccezionale per efficacia l’effige di Garibaldi capovolta si trasforma nel ghigno di Stalin. La Democrazia Cristiana si presenta da sola sotto l’emblema dello scudo crociato. A destra nasce invece il Blocco Nazionale composto dal Partito Liberale, l’Uomo Qualunque ed esponenti monarchici, che nella sua campagna attinge alla creatività di Giovanni Guareschi che su Il Candido disegna vignette memorabili quali “Nel segreto della cabina Dio ti vede Stalin no”.

Protagonisti inaspettati, ma decisivi, sono i Comitati Civici, nati e finanziati per volontà di papa Pio XII. Ufficialmente fondati soltanto l’8 febbraio sotto la guida del Presidente dell’Azione cattolica Luigi Gedda, appoggiandosi alla rete delle diocesi e delle parrocchie formano un esercito di propagandisti che, coordinati da un “Ufficio Psicologico”, invadono il paese di materiale elettorale.

Gli obiettivi dei Comitati Civici che non partecipano alla competizione sono due: combattere il comunismo e l’astensionismo. Per far questo non parlano alla testa delle persone ma alla pancia, avendo capito l’importanza ai fini delle scelte di voto delle componenti emotive ed irrazionali quali l’autostima, l’orgoglio, la paura. Una consapevolezza che i Social Network e le moderne campagne digitali hanno ereditato. Nel coloratissimi manifesti dei Comitati Civici chi non vota è un somaro o un coniglio, teschi indossano il colbacco con la stella rossa. Immagini un po’ rozze secondo alcuni, ma folgoranti per sintesi ed efficacia, alle quali è difficile contrapporre delle argomentazioni. È anche a causa di questo tipo di propaganda che la campagna elettorale assume nel corso delle settimane toni sempre più brutali e violenti, su tutti i fronti.

Le elezioni del ’48 fissano i temi che segneranno il confronto/scontro elettorale negli anni a venire. La contrapposizione fra comunismo e anticomunismo, ancora perfettamente riproposta da Berlusconi nel 1994, a cui fa da contraltare quella fra fascismo e antifascismo, riemersa nell’ultima campagna elettorale. Il coinvolgimento della fede e della religione, con le processioni della Madonna pellegrina, le preghiere elettorali, la negazione dell’assoluzione agli elettori comunisti da parte dell’arcivescovo di Milano Shuster, epigono di chi ancora oggi sui palchi dei comizi giura sul Vangelo. La trasformazione dell’avversario politico in nemico e la sua rappresentazione sotto forma di orco, traditore, pericolo, al fine di privarlo della legittimità politica e della cittadinanza democratica. La diffusione di una propaganda sporca e scorretta, come una falsa lettera inviata a migliaia di elettori da un immaginario cittadino di Trieste che, impossibilitato a votare, chiedeva di votare per lui contro il comunismo.

A dimostrazione che le attuali fake news e falsi post hanno origini lontane. Sino al coinvolgimento di forme di gioco con il concorso Totalvoto, altra trovata dei Comitati Civici, che sul modello del Totocalcio premiava chi indovinava il risultato elettorale a patto che avesse votato. Esattamente come oggi il “Vinci Salvini” ha moltiplicano follower e contatti.

La campagna del ’48 spesso celebrata quale prova di una rinata democrazia, di una passione politica diffusa e di partiti autorevoli nella loro azione di rappresentanza, fu anche una campagna polemica e violenta, segnata da continui scontri, feriti ed anche morti, per mano delle forze dell’ordine guidate dal Ministro degli Interni Mario Scelba, dei fascisti, di criminali al soldo degli agrari. Al punto da indurre Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente, a promuovere un accordo fra i partiti per non disturbare i comizi avversari, a non concedere confronti di piazza, a rispettare la libertà di parola e di voto. E almeno in questo i settant’anni che ci separano dalla campagne elettorale del 1948 sono davvero molto lontani.

 

 

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EDOARDO NOVELLI, nasce a Torino nel 1960, è figlio dell’ex sindaco di Torino, Diego Novelli:  è un professore universitariosociologo e giornalista italiano.

I suoi campi di interesse riguardano la sociologia politica, la storia della comunicazione politica e delle campagne elettorali, la trasformazione della scena pubblica e dei suoi attori, l’interazione fra media, informazione e sistema politico. Nei suoi lavori uno spazio specifico ricoprono l’analisi dell’iconografia e della grafica politica e lo studio dei materiali audiovisivi di propaganda.

All’interno di un progetto di rilevante interesse nazionale (PRIN) finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca (MIUR) ha realizzato l'”Archivio degli Spot Politici”, il principale archivio online italiano dedicato a questa forma di propaganda politica e il sito web “Gala della Politica”, del quale è il responsabile.

Sul tema della comunicazione politica e delle campagne elettorali ha realizzato programmi televisivi per Rai 3Rai Educational e La7; collaborato con quotidiani e riviste («La Stampa», «Il Venerdì di Repubblica»); curato mostre fra le quali per Rai Teche Cari elettori, care elettrici. Le immagini della Prima Repubblica nelle Tribune della Rai, che si è tenuta nella sala della Regina della Camera dei deputati nel settembre 2015.[2]

Dal 2009 è membro del consiglio editoriale della rivista quadrimestrale Comunicazione politica edita da Il Mulino

 

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2 risposte a EDOARDO NOVELLI, IL FATTO DEL 9-4-2018, LA CAMPAGNA ELETTORALE PIU’ SOCIAL DI SEMPRE FU NEL1948

  1. Donatella scrive:

    Sulla campagna delle elezioni politiche del 1948 ho alcuni ricordi personali: i negozianti di Piazza Eroi a Sanremo si dettero un gran daffare per accogliere degnamente la Madonna Pellegrina: prepararono festoni con la carta ( come quelli che ora si vedono davanti agli oratori in festa), i discorsi più frequenti parlavano del pericolo che quelle potessero essere le ultime elezioni, se avessero vinto i comunisti. La suggestione più profonda era data dalle processioni, fatte con fiaccole alla sera, con i canti invocanti l’occhio di Dio sulle vicende umane, con un profumo di incenso che rimaneva a lungo nell’aria. Nelle scuole rette dalle suore, compresi gli asili, si facevano pregare i bambini, affinché, con le loro innocenti suppliche, scongiurassero il pericolo disastroso dell’avvento dei cattivi.

  2. Donatella scrive:

    Vincenzo Consolo nel libro ” Le pietre di Pantalica”, si esprime, come nella sua opera più famosa, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, in un linguaggio insieme realistico e poetico, che scava nelle profondità di un popolo. Con un ritmo sonoro e melodioso di parole antiche, che riaffiorano con la consapevolezza ironica di chi guarda la storia con umana pietà, trasmette l’eterno inganno a cui, più o meno consapevolmente, si affidano le genti. Trascrivo qui parzialmente uno dei racconti che compongono il libro: la cronaca dello sbarco alleato in Sicilia nella Seconda guerra mondiale.
    Da ” Le pietre di Pantalica”, di Vincenzo Consolo, prima edizione 1988, Mondadori.

    Lo Sherman
    Mattinata di luglio d’un sole che folgora la terra, i campi di stoppie, le piane gerbide, le colline di gesso e caolino a ridosso della valletta di contrada Prato. Nel silenzio attonito, in mezzo alla desertica campagna, nel vuoto infinito avanzava lo Sherman sulla strada verso Mazzarino… Da grotte e anfratti di rocce, da cunette, da macchie di rovi che schermavano salìbbe, da filari di fichidindia, sbucarono a poco a poco i contadini, le donne con i figli al petto e fra le gonne, i vecchi rinsecchiti. Stracciati, terrosi, stupefatti, come i morti che si destano al suono delle trombe.
    Guatarono sulla strada quella gran tartuca di ferro, quella cùbbula possente, quel bufone meccanico col cannone sulla testa che avanzava lasciando dietro una coda di fumo e di polverazzo. Videro le stelle bianche stampate sopra i fianchi e la bandiera floscia in su la cima dell’asta sopra il parafango. Che è e che non è, capirono finalmente che si trattava d’essi, dei Mericani, che dopo tre notti e giorni di fuoco fitto e botti, arrivavano finalmente a liberare.
    Alla casina del dottor Cannada…tre uomini avanzarono incontro al carrarmato, gonfi di coraggio e di speranza, con sotto una paura nera soffocata. Agitavano panni, fazzoletti bianchi in segno di resa, pace e amistà. Erano il prete Cannarozzo, mastro D’Aléo e Vico Nolasco, inteso Divìco Sette Soldi, che pel suo soggiorno ventennale in terra mericana, in Pittsburgh city Pennsylvania, masticava quel linguaggio forastiero e che parlò, urlando, contro la torretta ermetica, il pertugio d’una calotta sibillina: “We are friends, friends! Welcome to Mazzarino city! We love America! peace, peace, liberty!” Il prete Cannarozzo, grasso e sudato dentro la sua tonaca stinta che dal nero torceva ormai al verde, una mano in alto, faceva croci nell’aria, segni di benedizione e assolvimento. S’arrestò il carro con fracasso, con rinculo e gran macinamento sotto i denti di ciottoli e ghiaietto. Si scoperchiò in alto all’improvviso quell’enorme buatta; dal buio del suo ventre sbucarono nel sole una, due, tre teste con elmo, spalle e braccia in divisa color verde: i Mericani si misero a vociare, a far urla di gola come garzoni per richiamar pecore sparse o bordonari per aizzar giumente, a far gesti larghi, spartani, mosse d’accoglimento e di benevolenza. “Ihù, ihù, ihù!…” fecero a bocca grande, e tutti i denti in fora belli bianchi.
    I tre uomini restarono di stucco, labbra dischiuse e occhi spalancati, il prete Cannarozzo il braccio in alto come quello di un santo dentro il reliquiario.
    ” Oh, oh, paesani!” fece allora uno da sopra il carrarmato. ” Io, io, siciliano” aggiunse per scuoterli e levargli lo spavento.
    ” Mio padre nasciò a Cefalù, mia madre a Petralìa…”.
    ” Può esser mai? si chiese il prete Cannarozzo. ” Così biondo, e faccia rossigna d’apricocca?” ma quello parlava, parlava siciliano, se pure con accento forastiero.
    ” Veni qua, veni qua” disse l’americano facendo cenno a Divìco Sette Soldi. Divìco si mosse e andò sotto la torre, un riso scimunito a fior di labbra.
    ” La coppola!” ordinò. Divìco si scoppolò e stese la berretta rovesciata tenendola con due mani come ‘na guantiera. Quello allora gli rovesciò dentro pacchetti di sigarette, rotoli di caramelle e altri involti. I due soldati allato ridevano sguaiati, dandosi manate come a una passata comica di scena variètè, e soprattutto uno, nero nero peggio d’un saracino, due labbroni aperti come un forno. Il biondo si mise a vociare, con faccia cattiva, a insultarli, e quelli allora si composero, s’inconigliarono, affondarono dentro il carrarmato; ma subito riemersero con le mani piene di sigarette e tant’altri complimenti, che lanciarono al D’Aléo e al padre Cannarozzo. Il quale non si chinò, come quell’altro, per dignità, a raccogliere da terra la roba sparsa, ma con fare contegnoso tirò fuori il fazzoletto dalla tasca e s’asciugò il sudore sulla testa, sulla faccia, sul collo, sotto la ” pazienza” sbottonata. Il biondo siciliano notò quel suo imbarazzo e lo chiamò.
    ” Vossia, mastro prete, vieni qua!” e quando Cannarozzo fu di sotto ” Apparecchia la sottana” gli disse. Quella parola, sottana, riferita al suo abito talare, al suo sacerdotale vestimento, il padre Cannarozzo l’intese come offesa. Ma vista l’innocenza del soldato, si chinò, per quanto potesse consentirgli la sua panza, e prese graziosamente con due mani l’orlo della veste, tirò su, e formò in sul davanti ‘na bella concarella. Nella quale piovve ogni ben di Dio, noto e ignoto.
    Quando finì tutto questo movimento di regali e di galanterie, il soldato siciliano, ch’era pur comandante, domandò:
    ” Ahò, paisani, ci sono qua intorno ancora Germanesi, soldati italiani?”
    “No! No! No!” risposero in coro i tre paesani.
    E padre Cannarozzo rincalzò:
    ” I Germanesi si sono ritirati, e quanto a militi e soldati taliani, se la squagliarono avanti”.
    ” Possiamo andar sicuri, possiamo entrare dentro nel paese?”
    ” E come no?! Son tutti là ch’aspettano!”
    ” Allora, camàn, camàn! Forza, venite qua pure voi” disse il comandante facendo segno ai tre di montare sopra il carrarmato. I tre cercarono d’arrampicarsi, ma l’impresa risultò difficoltosa. Saltarono allora giù i due soldati e a forza di manate e di braccia a puntello sotto il culo li spinsero sull’alto balconcino di lamiera, Divìco, D’Aléo e padre Cannarozzo erano felici come fanciulli sopra la vara del Signore dell’Olmo. Il carro ebbe uno scossone, si mise a sussultare e subito partì, col suo fracasso e il suo sferragliamento verso Mazzarino.
    I contadini, su per i colli, avevano spiato quella scena, avevano riconosciuto i loro tre paesani montati sopra il carro, e si convinsero che tutto era finito, finiti i fuochi, i botti, gli aeroplani, che la guerra era passata e che potevano tornare nel paese.
    Ma si convinsero anche che quella pomponella dei tre compaesani, di Divìco, di D’Aléo e del padre Cannarozzo- andare per primi incontro ai Mericani, i fazzoletti bianchi, il parlamento e poi le regalìe- era quella di sempre, che sempre ripetono i baroni, proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a comandare, per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani.

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