LE FRATTURE CHE SCUOTONO BRUXELLES
Massimo Riva
Le faglie sismiche che insidiano la stabilità dell’Unione europea si stanno moltiplicando e sovrapponendo pericolosamente l’una all’altra.
Nella prima fase della recente crisi economica il quadro geopolitico appariva caratterizzato da un’unica, ancorché profonda, spaccatura in senso orizzontale fra Paesi del Nord e del Sud del continente. I primi attestati su una rigorosa linea di austerità contabile, i secondi alle prese con bilanci pubblici e fragilità bancarie a serio rischio di collasso. La dialettica fra le due posizioni ha assunto a tratti toni di elevata drammaticità — in particolare nel caso della Grecia e in minor misura dell’Italia — ma senza mai tradursi in un terremoto rovinoso. Poi con la ripresa generalizzata dell’economia era lecito sperare che si avviasse un periodo di assestamento in grado di scongiurare nuove scosse. Così non è stato, anzi.
Prima ancora che la frattura fra Nord e Sud cominciasse a ricomporsi, un’altra se ne è aperta sul versante Est con la plateale sfida nazional-sovranista lanciata dai quattro Paesi del Patto di Visegrad (Cechia, Slovacchia, Polonia e Ungheria) sul nodo migranti.
Da ultimo il tentativo franco-tedesco di contrastare queste spinte centrifughe con l’annuncio di un imminente piano di rilancio degli obiettivi unitari ha prodotto paradossalmente una nuova spaccatura, stavolta all’interno del blocco dei Paesi del Nord, che pure appariva come il più omogeneo.
Uscita di scena Londra, ecco che ora il ruolo di grande frenatore del progetto europeo viene assunto con pari prepotenza dall’Olanda. Su iniziativa della quale e con l’appoggio di altri sette Paesi — Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania e Svezia — è stato prodotto un documento che pronuncia un secco no al trasferimento di nuovi poteri sovranazionali a Bruxelles e chiede pure che le scelte sul futuro della zona euro siano discusse al tavolo plenario dei 27 membri della Ue anziché a quello dei 19 Paesi che adottano la moneta unica. Già suona infido che gli olandesi abbiano voluto irrobustire la loro posizione con la firma anche di due Paesi (Danimarca e Svezia) che continuano a tenersi le loro valute nazionali. Ad allarmare, infatti, è soprattutto il reiterato proposito di sottoporre al controllo di tutti le decisioni sulla sorte dell’euro, che è l’unica e concreta esperienza di collaborazione rafforzata finora compiuta con successo all’interno della Ue.
Dietro una questione in apparenza procedurale, se ne cela una di robusta sostanza politica: l’intento di impedire che l’euro possa divenire la levatrice di un’unione che da economica si evolva in politica quanto meno fra alcuni Paesi. La faglia scavata da questa specie di nuova Lega Anseatica appare così destinata a saldarsi fatalmente con quella già aperta dai quattro della banda di Visegrad, minacciando scosse che potrebbero rivelarsi queste sì distruttive per le sorti dell’Unione.
Obiettivo di fondo di questi guastatori, infatti, è quello palesemente regressivo di mantenere l’Europa nel suo attuale e precario status quo. In mezzo al guado fra la sponda dell’unione doganale e una riva politica che si allontana sempre di più. Errore storico esiziale in un mondo dominato dai grandi blocchi di potere russo, americano e cinese. Ma che — ahinoi — suona come musica anche per le orecchie malate degli autarco-sovranisti di casa nostra.
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