REPUBBLICA – ARCHIVIO — 14 -01-2018
2018-01-14,
Nanni Cagnone
di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli
Per lungo tempo ho avuto l’impressione di inseguire un fantasma: un uomo dalla consistenza volatile di cui avevo sentito più volte parlare che regolarmente si sottraeva alla presa. Avevo letto qualcosa di suo, in particolare Dites- moi, monsieur Bovary uno strano e affascinante poema e memoriale in cui la storia del personaggio sembrava portata dal vento per scompigliare le nostre certezze. Poi accadde che in una rievocazione a La Spezia del Gruppo 63 tornasse flebile e incerto il suo nome: Nanni Cagnone. Aveva per un breve periodo partecipato al movimento guidato da Balestrini e Sanguineti, per poi richiudersi in un lungo silenzio. Non è stato facile stanarlo. Vive a Bomarzo, celebre per i suoi mostri, in una casa semplice che dà su una vallata, con la compagna Sandra, una donna silenziosa che mentre parliamo lavora al computer. La stanza non è grande, ma piacevole. Lui guarda lei e poi dice che venire a vivere a Bomarzo, sedici anni fa, è stato perché Sandra lo aveva deciso: «L’ho solo seguita, come si segue la cosa più importante della vita. Altrimenti avrei potuto vivere in ogni altra parte del mondo. Perché ogni luogo alla fine è uguale all’altro. L’indifferenza mi è stata buona maestra di vita».
Dove è nato?
«Sono nato a Carcare a qualche chilometro da Altare su una collina che guarda il mare sopra il savonese. Un paese di artigiani: ebanisti e soprattutto soffiatori di vetro. Ricordo le fornaci e i maestri vetrai avvolti nei loro neri mantelli respirare, attraverso le canne da soffio, l’ossido di silicio. E mio padre, medico condotto, che curava i loro enfisemi. Infanzia solitaria, un fratello che sarebbe diventato pittore. Ho ancora negli occhi i grandi cedri del Libano che sono stati abbattuti. La loro perdita mi rattrista più della scomparsa dei miei genitori».
Non li ha amati?
«Non con lo stesso slancio che ho avuto per mio nonno Angelo: portava carrozze dall’entroterra savonese al principato di Monaco. Fu musico e barbiere, calzolaio e contadino, narratore di minime gesta e ammiratore di donne. Uomo inquieto, tutto il contrario del figlio che dalla vita trasse ordine e giudizio. E un certo senso di fanatica equità. Curò fascisti e antifascisti durante la guerra. Il che gli valse un’accusa di collaborazionismo. Rischiò di essere fucilato. Si salvò perché dopotutto era un uomo di fede. E dall’altra parte c’erano solo i primi esempi di trasformismo. Gente che era stata fascista e si era riciclata nella Resistenza. Come poteva essere credibile?» Furono questi i suoi anni di guerra?
«Furono dopotutto gli anni meno tristi nonostante il collegio e il forte odore di cavoli. I tedeschi passavano lenti. Senza più la baldanza dell’invasore. Eravamo di nuovo liberi. Ma per fare cosa? Presto arrivarono gli anni Sessanta. Il Living Theater con Judith Malina che oscillava tra ritualità e improvvisazione. Furono grandi? Furono in un certo senso unici. Godei perplesso della loro frequentazione. Fu il periodo in cui suonavo jazz con un quartetto americano. Avevo imparato a pensare con le dita. Mi piaceva. In seguito mi iscrissi a medicina. Un anno a Pavia. Forse per far contento mio padre. Ma non resistetti e venni a Roma».
A fare cosa?
«Mi iscrissi a filosofia. Ero influenzato da Wittgenstein in anni in cui nessuno lo leggeva. Mi piaceva il suo rigore, l’atteggiamento verso la vita più che le conseguenze. Arrivai a Roma nel 1960. Le Olimpiadi. Ma quale era la mia specialità? Mi trovavo in una città dall’indifferenza non ostile. Non mancarono le opportunità e gli amori».
Di che tipo?
« Lavorai per la casa editrice Lerici e per la rivista Marcatrè. In quel piccolo mare di raffinata saggistica tentai di portare le mie predilezioni filosofiche. Senso e sensibilia di John Austin, il libro sulla filosofia del gioco di Eugen Fink che era stato allievo di Heidegger;
Teoria dell’orgasmo di Wilhelm Reich; Allegoria di Angus Fletcher. Avevo conosciuto Fletcher a New York. Diventammo amici. Era uno straordinario comparatista. Un uomo ironico e spudorato, allievo di Kenneth Burke. Parlai di lui con Enzo Melandri che all’epoca si occupava del grande tema dell’analogia».
Scrisse un bellissimo libro “ La linea e il circolo”, qualche anno fa ristampato da Quodlibet.
«Un libro fondamentale, come tutto il suo pensiero. Con Enzo ci frequentammo poco ma con intensità. L’ultima volta che lo vidi fu in un caffè bolognese. Era un uomo dall’intelligenza medievale, acuminata e profonda. Ma anche in un certo senso mentalmente inibito. Aveva cominciato a bere. Non so quali fantasmi avessero preso a visitarlo».
Anche lei non scherza quanto a fantasmi.
«A cosa pensa?»
Alle sue fughe dal mondo, alla riservatezza estrema, alle case editrici che ha rifiutato, ai dolori mentali che l’hanno colpita.
«Ho imparato a guardarmi come fossi una terza persona; a giudicarmi in maniera impersonale illudendomi di una qualche pretesa oggettività. Ma non sono mai fuggito dalle amicizie vere».
Chi sono stati i suoi amici?
« Quelli di un certo peso interiore come Giuseppe Pontiggia, Amelia Rosselli e soprattutto Emilio Villa».
Ce ne parli.
«Incontrai Pontiggia nel 1975. Gli feci visita e ci capimmo al volo. Nessuno dei due aveva un temperamento dogmatico. Avevamo la stessa passione per i classici e il medesimo disinteresse per le avanguardie. In quel periodo frequentavo anche Franco Fortini che si era incuriosito ai miei lavori poetici. Uomo di grande intelligenza ma umanamente modesto. Un giorno mi disse che avrebbe voluto fare uscire un mio libro per Einaudi ma che al tempo stesso andava sforbiciato. Si offrì di farlo. Gli risposi che se io non ero Eliot lui certamente non era Pound. Finì bruscamente il nostro rapporto».
Non è stato molto incoraggiante.
« Gli ammirevoli esponenti della cultura italiana furono come i “boys” di Wanda Osiris: quando lei scendeva le scale loro si arrampicavano. Sono stato preso per un marziano, un matto, un mistico, un illuminista, uno sciamano, un avanguardista. Vattimo un giorno mi disse tu scrivi cose bellissime ma io non le capisco. L’unico che provò a definirmi un “classico” fu Emilio Villa».
Per Carmelo Bene il più grande genio che avesse conosciuto.
«Fu poeta, saggista e biblista. Aveva una cultura prodigiosa, una lingua eretica adatta a mondi sconosciuti. Fu amico di Duchamp, e…