SIMONETTA FIORI, ROBINSON, REP. 04-02-’18 ::: IL TRADIMENTO DELL’OCCIDENTE. I RAGAZZI DELL’EST CONDANNATI AL MURO.

 

 

 

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ROBINSON

Il tradimento dell’Occidente

I ragazzi dell’Est condannati al Muro

di Simonetta Fiori

C’è un lato oscuro del Sessantotto di cui finora s’è parlato poco. O a bassa voce. Certo non è mai stato evocato con il sentimento di disagio e colpa che ora traspare dalle pagine di chi allora fu partecipe della rivolta e oggi si domanda: come è stato possibile? Come è stato possibile che noi autenticamente libertari voltassimo le spalle ai nostri coetanei di Praga, Varsavia e Belgrado in lotta contro regimi illiberali? Come è stato possibile che la nostra idea di Europa fosse così angusta da espungere i fratelli che leggevano i nostri stessi romanzi e ascoltavano i Rolling Stones? Succede a Torino e a Roma, ma anche a Parigi o a Berlino: l’ideologia che stritola amore e dolore. Così si resta distanti dalla primavera di piazza San Venceslao e dal successivo inverno dei carri armati russi. Così non ci si accorge degli sfollagente sulle schiene degli studenti polacchi, con l’espulsione di migliaia di ebrei. E il movimento nelle università jugoslave, con il suo ribollire di nazionalismi, sembra appartenere a un altro pianeta. Su quella parte di Europa cade un silenzio che oggi suona paradossale. Anche perché, a sfogliare il libro della successiva storia europea, quel che ha contato di più è proprio l’altro Sessantotto. Quello che non abbiamo capito.

Un “ Occidente sequestrato”. Così l’avrebbe definito Milan Kundera, riferendosi alla tragedia dei paesi considerati dalla loro amata Europa come un pezzo dell’Impero sovietico, e niente più. E Il Sessantotto sequestrato è il titolo di un prezioso volume di Donzelli che mette a fuoco l’imperdonabile distrazione verso Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni. A renderne più interessante la lettura è che a riflettere sull’abbaglio sono due storici che presero parte alle speranze del movimento e oggi vi fanno i conti non senza la corda partecipe dell’autobiografia: Guido Crainz, che ha curato il volume, e Anna Bravo, autrice di uno dei saggi. Mentre sull’altra sponda, quella allora rimossa, le testimonianze antiche e recenti di Jirí Pelikán, Adam Michnik e Wlodek Goldkorn ci restituiscono l’assurdità di una rimozione che all’epoca contagiò larga parte della gaucheintellettuale.

Dalla sinistra ortodossa a quella eretica, l’atto di accusa redatto da Crainz non risparmia nessuno. A cominciare dal silenzio che accolse l’appello degli artisti cecoslovacchi lanciato sulle colonne dell’Espresso diretto da Eugenio Scalfari. “Ci rivolgiamo a voi, intellettuali occidentali di sinistra, che ancora siete soggetti a pericolose illusioni sulla democrazia dei paesi socialisti”, scrivono tra gli altri Václav Havel e Milos Forman nel settembre del 1967, stagione di rinnovata caccia alle streghe. “Ci rivolgiamo a voi che protestate contro i massacri americani nel Vietnam, contro il fascismo in Spagna, contro il razzismo negli Stati Uniti e chiudete gli occhi su ciò che succede là dove riponete le vostre speranze!”. Un grido d’allarme sulla presbiopia del nostro ceto pensante. Reazioni? Per la gran parte “ raggelanti”, annota Crainz. Non solo sulle pagine diRinascita, il settimanale del Pci, che per voce di Peter Weiss liquida i ribelli cechi con l’accusa di “sopravvalutazione della libertà occidentale”. Ci si mette anche i Quaderni Piacentini, tribuna tra le più stimolanti dell’altra sinistra, che rigetta “ le istanze borghesi” dei dissidenti con l’argomento che del marxismo non avevano capito un bel nulla.

Il clima di borioso torpore non viene scosso neppure dalle agitazioni studentesche che sin dal gennaio del 1968 attraversano le piazze polacche, con un’ondata repressiva che colpisce anche i professori, un nome per tutti Zygmunt Bauman. Quella promossa dal generale Moczar — ministro dell’Interno di Gomulka — è una campagna dai toni aspramente antisemiti che avrebbe portato all’allontanamento di tredicimila ebrei. Reazioni da parte delle università italiane? Pochine. Eppure le informazioni arrivano, grazie sempre all’Espresso e ai corsivi di Gianni Rodari su Paese Sera. Uno di quei ragazzi che allora lasciarono la Polonia, oggi autorevole firma di Repubblica, Wlodek Goldkorn, confessa “la sua incredulità per l’ignoranza e l’indifferenza della stragrande maggioranza delle forze della sinistra occidentale di fronte al linguaggio fascista dei comunisti”. Un’incredulità rimasta intatta per mezzo secolo.

Ai nostri ragazzi innamorati del Che e di Mao sfugge completamente anche quel che accade dietro la porta di casa, le tensioni nazionalistiche esplose negli stessi mesi tra gli studenti di Belgrado, Zagabria e Sarajevo ( ne parla il saggio di Nicole Janigro che rivela un mondo sconosciuto). E rispetto alla scure sovietica che nell’estate del ’ 68 cala sulle speranze dei giovani praghesi, la nuova sinistra dei gruppi e delle riviste — da Giovane Critica a Classe e Stato, dalla casa editrice Samonà e Savelli al leader del movimento romano Oreste Scalzone — quest’arcipelago allora egemone preferisce trincerarsi dietro un’equidistanza raccapricciante, oggi diremmo cerchiobottista: si condanna l’invasione dei carri armati, ma anche il nuovo corso del “ buon padrone Dubcek”, accusato di “ revisionismo” e “ restaurazione capitalistica”. Pur non mancando isolate voci solidali — soprattutto gli articoli del Manifesto che l’avrebbe pagata con l’espulsione dal Pci — il tono prevalente nell’estrema sinistra giovanile è di estraneità alla tragedia cecoslovacca. Per Praga non spendono una parola neppure i cineasti raccolti alla Mostra di Venezia, cuore artistico della formidabile contestazione. “ I carri armati invadevano la città ma gli autori non mandarono neppure una cartolina di rammarico”, avrebbe raccontato Liliana Cavani. E quando nel gennaio del 1969 Jan Palach si dà fuoco come un bonzo vietnamita, molti tra i nostri sessantottini restano indifferenti. Oppure esprimono un misurato lutto — raccontano Crainz e Bravo — “ come di chi partecipa a un funerale rimpiangendo le doti dell’estinto, ma senza mischiarsi troppo con la sua famiglia”.

Furono solo gli studenti italiani a mostrare distacco per l’altro Sessantotto? In realtà sia a Parigi che a Berkeley sono rare le scintille di fratellanza. L’esule ceco Pelikán ha raccontato di aver scritto un’accorata lettera ad Angela Davis — simbolo della rivolta americana — senza riceverne un cenno di risposta. “Fummo prigionieri della mitologia”, avrebbe ammesso anni più tardi Daniel Cohn-Bendit, il leader del Maggio francese. E il fascino dell’insurrezione rende ciechi sulla realtà del comunismo realizzato. È Anna Bravo a condurci tra le contraddizioni del nostro movimento giovanile rispetto alle ragioni del “Sessantotto sequestrato”. A Parigi come a Torino gli studenti inseguono il sogno della rivoluzione, a Praga o a Varsavia chiedono riforme. Per i primi “non c’è libertà senza pane”, per gli altri “non c’è pane senza libertà”. Da noi il comunismo è “una costruzione simbolica che attrae tutte le cose belle e buone del mondo”, per gli altri “ il comunismo significa gulag, polizie segrete, censura e paura”. Per l’Occidente che legge Marcuse “la democrazia è un amore secondario perché soltanto formale, inerte di fronte alle ingiustizie sociali, complice e vittima della esecrata società di massa”. Per i ragazzi dell’Europa centrale, al contrario, la democrazia è il traguardo desiderato. Lo dice con chiarezza un esule ceco intervenendo in un’assemblea studentesca a Bologna: “ Forse è vero che chiedevamo la democrazia borghese. Ma per noi, che abbiamo vissuto nazismo e stalinismo, la democrazia resta un obiettivo avanzatissimo”. Kundera l’avrebbe sintetizzato alla sua maniera: “Il maggio parigino è un’esplosione di lirismo rivoluzionario. La Primavera di Praga è un’esplosione di scetticismo postrivoluzionario”.

Un’altra sostanziale differenza riguarda il rapporto con la violenza. Se nell’Occidente fa breccia il “paradigma guerriero”, caro all’immaginario maschile — è sempre Bravo a farci strada — a Praga prevale il codice ironico della disobbedienza civile e non violenta. “Lenin svegliati! Breznev è uscito pazzo” è uno dei cartelli innalzati nel settembre del ’68 davanti ai carri armati. Il socialismo dal volto umano non può nascere su un massacro.

Cosa è rimasto dei due Sessantotto? Un bilancio storico non può sottrarsi alla domanda centrale. Se quello “sequestrato” ha inciso positivamente sugli eventi successivi — i leader di Solidarnosc e di Charta 77 venivano da lì — per poi liquefarsi nell’opaco presente tra populismo e nazionalismo, il Sessantotto italiano qualche interrogativo lo pone. Fu la clamorosa sottovalutazione della democrazia formale ad alimentare quell’indulgenza più tardi riservata alla violenza dei “compagni che sbagliano”, come dissennatamente furono battezzati i terroristi? Nessuno formula la domanda esplicitamente, però è possibile leggerla tra le righe. Ma questa è davvero un’altra storia, che meriterebbe un nuovo libro. ?

 

Guido Crainz

Guido Crainz, già docente di Storia contemporanea all’Università di Teramo e commentatore del quotidiano «la Repubblica», per i tipi della Donzelli ha pubblicato fra l’altro Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi (2015).

Pavel Kolárˇ

Pavel Kolárˇ, nato a Praga, insegna storia comparata e transnazionale presso l’Istituto universitario europeo di Firenze. Il suo ambito di lavoro è la storia europea contemporanea, in particolare della Germania e dell’Europa centro-orientale.

Wlodek Goldkorn

Wlodek Goldkorn, nato in Polonia, ha lasciato il suo paese nel 1968. Scrittore e giornalista, vive in Italia. Il suo ultimo libro è Il bambino nella neve (Feltrinelli, 2016). È autore di saggi sull’ebraismo, sul Medio Oriente e l’Europa centrale. Collabora con «la Repubblica» e «L’Espresso».

Nicole Janigro

Nicole Janigro, nata a Zagabria, vive e lavora a Milano. Psicoanalista e saggista, insegna a Philo, scuola di pratiche filosofiche. Tra le sue pubblicazioni, L’esplosione delle nazioni (1993, 1999).

Anna Bravo

Anna Bravo è stata professore associato di Storia sociale all’Università di Torino. Fra i suoi lavori, A colpi di cuore. Storie del sessantotto (Laterza, 2008).

SCHEDA LIBRO

«Nella storia d’Europa dei decenni successivi, il ’68 non ci appare tanto rilevante per quel che avvenne a Parigi oppure a Torino, a Berlino, a Milano o a Trento, quanto per i traumi e i rivolgimenti che segnarono quell’area del l’Europa “sequestrata” dall’impero sovietico».

Guido Crainz

A distanza di cinquant’anni dal simultaneo manifestarsi dei movimenti di contestazione del ’68 in tante parti del Vecchio continente, iniziamo forse a comprendere che per la sua storia successiva sono rilevanti soprattutto i rivolgimenti, i traumi e i processi che segnarono la Cecoslovacchia, la Polonia e altre aree dell’Europa «sequestrata» dall’impero sovietico, per dirla con Milan Kundera. Per molti versi quei rivolgimenti rappresentarono uno spartiacque: la conferma definitiva che il «socialismo reale» non era riformabile. I processi che attraversarono allora quest’area furono solo apparentemente stroncati a Praga dai carri armati del Patto di Varsavia e in Polonia da una brutale offensiva di regime che assunse violenti toni antisemiti, provocando l’esodo di una ricca comunità intellettuale e di una parte significativa degli ebrei rimasti nel paese dopo la Shoah. In realtà, pur nel modificarsi di prospettive e di visioni del mondo, si dipanano da allora alcuni esili e al tempo stesso straordinari fili che portano al 1989, passando per Charta 77 in Cecoslovacchia o per il Kor e Solidarność in Polonia. Eppure, in quel fatidico ’68, i giovani, gli intellettuali e i rinnovatori di quei paesi, i sostenitori di un «socialismo dal volto umano», non trovarono nei movimenti studenteschi dell’Occidente quel solidale sostegno che sarebbe stato necessario. Né lo ebbero dai partiti comunisti europei. Perché? E perché in molte ricostruzioni storiche complessive ha prevalso spesso una sostanziale rimozione di questi aspetti? A queste domande e a questi nodi rispondono i contributi del libro: il saggio di apertura di Guido Crainz; quelli di Pavel Kolář, Wlodek Goldkorn, Nicole Janigro, Anna Bravo; e i documenti di studenti e intellettuali di allora, con le successive testimonianze di personalità come Jiří Pelikán, Adam Michnik, Zygmunt Bauman.

 

https://www.donzelli.it/libro/9788868437275

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1 risposta a SIMONETTA FIORI, ROBINSON, REP. 04-02-’18 ::: IL TRADIMENTO DELL’OCCIDENTE. I RAGAZZI DELL’EST CONDANNATI AL MURO.

  1. roberto rododendro scrive:

    molto interessante. Sarebbe da approfondire.
    Quel che mi lascia perplesso (considerazione superficiale ,poco o per nulla approfondita, solo intuita) è come questi paesi, tutti, nel giro di pochi anni siano diventati reazionari, fascistoidi e xenofobi ( la xenofobia credi sia solo una “spalla” cui appoggiarsi). In realtà mi da l’impressione che abbiano imparato dal vecchio regime “cosiddetto comunista” ( personalmente non ho mai pensato che in URSS ci fosse un comunismo realizzato). Insomma: hanno appena cambiato l’abito ma non la pelle.
    p.s. spero di essere stato chiaro: mi dovessi rileggere io non ci capirei nulla 🙂

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