ANDREA TARQUINI, BERLINO, INTERVISTA A KAREL SCHWARZENBERG (nato a Praga nel 1937), dal ’90 al ’92 è consigliere di Havel, dal 2007 al 2009 e ministro degli esteri—

 

REPUBBLICA GIOVEDI’ 4 GENNAIO 2018–pag. 19

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Karel Schwarzenberg (nella foto, a Monaco, nel 2007), nasce a Praga nel 1937

 

“Quel sorriso tornato sui volti dei cecoslovacchi Ma Alexander fu un ingenuo”

ANDREA TARQUINI,
BERLINO

«Furono mesi di euforia: sui volti era riapparso il sorriso. Ma Dubcek sottovalutò l’inevitabilità dell’invasione». Il principe Karel Schwarzenberg, veterano di dissenso ed emigrazione, poi consigliere di Havel (DAL 1990 AL 1992) e ministro degli Esteri (DAL 2007 AL 2009), narra 50 anni dopo.

Come iniziò il “processo Dubcek”?

«Prima del fatidico 5 gennaio 1968. Insoddisfazione troppo diffusa. Critiche chiare del congresso degli scrittori.

Atmosfera dominata da angoscioso senso di stagnazione e declino. Contagiò anche il Partito comunista. Sentivano che il tempo stringeva, scelsero quel giovane politico. Nessuno immaginava che egli, timido funzionario slovacco di formazione russa, avrebbe tentato di riformare il sistema».

All’inizio Mosca non ebbe paura?

«Esatto. Dubcek aveva studiato da loro, conosceva Breznev. Eppure, a sorpresa, avviò un processo di democratizzazione e dialogo presto molto veloce: via la censura, libertà di viaggio, dibattito. Senza controllarlo e contro alleati est europei».

Come vissero la svolta società e i numerosi iscritti al “Pc”?

«La frustrazione aveva contagiato il Pc. Nel partito e a Mosca speravano però in cambiamenti moderati, non in un processo così radicale e veloce».

Come cambiò l’umore nel Paese?

«In quei mesi fu concesso a me, esule in Austria, di tornare in patria, incontrare vecchi amici.

Un particolare mi colpì subito: allora nei paesi comunisti vedevi solo volti mesti, a Praga il sorriso era tornato, regnava un’euforia senza rabbia. Il clima del sorriso aveva mobilitato la gente. Ma mi chiesi fin quando Mosca avrebbe tollerato un socialismo dal volto umano, dibattito inedito nell’Impero».

L’invasione appariva inevitabile?

«Da luglio, con l’incontro Dubcek-Breznev a Cierna nad Tisou, la sensazione di un’azione russa inevitabile e vicina contro una presunta minaccia mortale al sistema fu netta».

Come giudica Dubcek?

«Fu fino alla fine comunista per convinzioni sincere. Legato alla famiglia. Pieno di buone intenzioni ma ingenuo, specie verso la Russia. Impreparato a gestire la svolta. Dopo la sconfitta — e all’inizio accettò la normalizzazione — ci fu chiaro che un comunismo riformabile era illusione e sogno. L’Occidente invece lo capì molto dopo».

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