EDITORIALE (che, in genere, è di Lucio Caracciolo) DELL’ULTIMO NUMERO DI LIMES::: TRIMARIUM TRA RUSSIA E GERMANIA—GRANDI MANOVRE NELL’EUROPA DI MEZZO, AREA DISPUTATA DA WASHINGTON, MOSCA E BERLINO

 

NOTA DEL BLOG::: TRIMARIUM (TRE MARI)

Fondazione Camis De FonsecaIn verde i 12 paesi del Trimarium

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Meglio un muro di una guerra

Pubblicato in: TRIMARIUM, TRA RUSSIA E GERMANIA – n°12 – 2017

Carta tratta da: Krzysztof Szczerski, Utopia Europejska. Kryzys integracji i polska inicjatywa naprawy. (Utopia europea. La crisi dell’integrazione e l’iniziativa polacca di riparazione). I. Carta dell’Europa tra le due guerre con l’indicazione dei paesi appartenenti all’area cosiddetta dei Tre Mari. Era un progetto sostenuto con decisione dalla Polonia di collaborazione politica, economica e militare tra gli Stati situati tra Baltico, Adriatico e Nero.

Carta tratta da: Krzysztof Szczerski, Utopia Europejska. Kryzys integracji i polska inicjatywa naprawy.

Editoriale del numero di Limes 12/17, Trimarium, tra Russia e Germania.

1. LEuropa non ha chiuso le guerre che la devastarono nel Novecento. La partita geopolitica resta quella del 1918: come ricostruire un ordine continentale distrutto dal simultaneo crollo degli imperi che l’avevano cogestito nel secolo post-napoleonico (carte a colori 1 e 2). Dopo la prima guerra mondiale, anche la seconda e la terza (fredda), tutte imperniate sull’egemonia in Europa, si esaurirono per armistizio. Senza verdetto condiviso né codificato fra vincitori e vinti.

L’impero americano sembrava aver sedato, allo scadere del Novecento, le rivalità intra-europee che l’avevano spinto, riluttante fino all’ultimo, a dirimere le nostre vertenze. Tra cui determinante quella fra Mosca e Berlino. Oggi che Washington esibisce, non più incontestata, il suo primato mondiale, sperando di contemperarlo con la riduzione della bolletta imperiale – pedaggio che ogni superpotenza devolve alla gloria – gli europei devono tuttora elaborare il lutto del declassamento da padroni a comprimari. E le residue potenze veterocontinentali, illuse di consorziarsi in matrimoni morganatici con selezionate ancelle (cos’altro è l’Unione Europea, vista ieri da Parigi oggi da Berlino?), scoprono di non averne voglia né forza. Soprattutto, l’Europa centro-orientale, spazio canonico dei conflitti euromondiali, fisarmonica geopolitica di cui Russia e Germania muovono il mantice con ostinata dissonanza, soggiace alle fibrillazioni che segnano le nazioni sovraccariche di storia quanto carenti di condivisa identità.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Fu il suicidio dell’Unione Sovietica, contemporaneo al disfacimento del mini-impero jugoslavo – entrambi inizialmente non voluti dagli Stati Uniti, men che mai dalle residue potenze euroccidentali – a riaprire plurisecolari conflitti. Preconizzati e inutilmente esorcizzati nel discorso con cui il 1° agosto 1991 Bush padre volle pubblicamente ammonire gli ucraini, in procinto di divorziare dalla morente Urss, e per loro tramite tutti gli aspiranti neo/veteronazionalisti dell’Est: «Gli americani non sosterranno coloro che aspirano all’indipendenza per rimpiazzare una distante tirannia con un dispotismo locale. Non aiuteranno coloro che promuovono un nazionalismo suicida basato sull’odio etnico»1.

Che cosa resta di quei propositi nel sempre più contestato spazio fra Russia e Germania,su cui suprema dovrebbe vigilare l’America? Prima di addentrarci nella verifica, merita ricordare quale fosse il paradigma strategico dalla cui implosione tutto è cominciato. Perché vi troveremo inscritti i geni delle correnti dispute. E della conseguente ripresa delle competizioni in riemersione dopo la lunga tregua della guerra fredda.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


2. La bipartizione imperfetta dell’Europa fra Stati Uniti e Unione Sovietica (1945-1991) fu parentesi. Spacciato per definitivo e all’epoca quasi universalmente percepito tale, l’affidamento del continente europeo a superpotenze laterali, strutturalmente eterogenee, era sutura epidermica. Legittimata e narrata quale conflitto ideologico. O come ultima mano della partita fra hegeliani di destra e di sinistra. Con relativi supplementi d’anima – Bene contro Male – cui media e politica mai possono rinunciare. Tutto pur di celare le ferite territoriali che la Grande Guerra aveva inflitto al tessuto veterocontinentale. Fino a bandire il termine «geopolitica» in quanto bizzarramente compresso nella Geopolitik germanica, a sua volta demonizzata perché «scienza nazista».

Quel mezzo secolo breve assegnava a ciascuno il suo posto. Est o Ovest. Nel convivio placé qualche socio orientale provava a sedersi di sbieco (Jugoslavia, Albania, Romania), alcuni occidentali sperimentavano vigilate ambiguità (Italia, Germania Federale) o si travestivano da grandi potenze pur di non abdicare al proprio rango (Francia, Inghilterra). Altri si truccavano da neutri (Svezia, Finlandia, Austria, persino Svizzera).

La spartizione fissata da Usa e Urss, incardinata sulla cortina di ferro, univa l’Europa mentre la bisecava. Produceva due Europe specularmente opposte, dunque strategicamente simmetriche. L’una giustificava l’altra. La linea Stettino-Trieste ne era la spina dorsale. Berlino divisa era baricentro geografico – umiliato, depotenziato ma non debellato, come scoprimmo nella notte del 9 novembre 1989 – dell’Europa duale. Contenta di esserlo, nei semiprotettorati americani. Infelice, ma in genere rassegnata, nelle colonie sovietiche. Quanto a Washington e Mosca, consideravano tale assetto subottimale. L’incubo nucleare le induceva però a una postura conservativa. Provvisoria, nei loro sogni imperiali più eccitati. Eppure accettabile e infatti accettata. Nell’aforisma di John Fitzgerald Kennedy, informato il 13 agosto 1961 che i clienti tedeschi di Mosca stavano recintando i quartieri occidentali di Berlino con cemento e cavalli di Frisia: «A wall is a hell of a lot better than a war» 2.


Carta di Laura Canali - 2009

Carta di Laura Canali – 2009


 

Posta lungo l’asse che convenzionalmente lega il sud-ovest iberico al nord-est russo,l’Europa si svelava ellisse. Figura che in geometria si disegna su due fuochi. Questo eravamo al tempo della guerra fredda. Abbattuto il Muro portante di Berlino, l’Europa occidentale – il semicontinente inquadrato nell’impero americano – parve potersi erigere da parte a tutto. La retorica brussellese della «riunificazione europea», evocante una mai esistita unità perduta, concepiva la riconfigurazione del nostro continente da ellisse a cerchio: spazio omogeneo in cui il centro è per definizione equidistante da tutti i punti della circonferenza. Vi si sarebbe applicato il terzo postulato di Euclide: dato un punto e una lunghezza è possibile descrivere un cerchio. Il punto (metaforico): «Bruxelles». La lunghezza (effettiva): il confine mobile dell’Unione Europea in allargamento tous azimuts. Nei primi anni Novanta, Kohl, Mitterrand e Major disputavano su fin dove aprire il braccio orientale del compasso (molto contratto nel caso francese) che ciascuno centrava su se stesso, a marcare il provvisorio limite della dilatanda comunità nell’ex antemurale sovietico. Casi di ubriacatura molesta.

A suonare la sveglia fu Clinton, avviando nel 1999 l’espansione a est della Nato.Potenzialmente illimitata. Come la napoleonica intendenza, l’Unione Europea seguì. A determinare la quasi perfetta coincidenza dell’ineguale binomio euroatlantico. Al posto di due Europe simmetriche, ne nasceva una incompleta quanto asimmetrica. Con una sempre più esigua zona grigia a separarla dai confini della Russia occidentale. Nell’incosciente autismo degli europeisti ultrà, illusi di vedere presto riunite nell’Ue pancontinentale – civilizzata dai «valori europei» (quali?) – le facoltà imperiali necessarie a reggere in pace l’indefinita «Europa».


3. Scrutando i rapporti di forza su scala paneuropea, l’europeismo a tutto tondo si mostra utopia. O distopia. Comunque paradigma di questione mal posta. Per vizio logico e geopolitico. Viviamo in un continente senza centro. Perché delle due potenze che si spartivano l’Europa, la Russia ha subìto tali amputazioni da metterne in crisi lo stigma imperiale, mentre gli Stati Uniti, primattori mondiali perciò anche europei, vinte le guerre (due calde e una fredda) per l’Europa considerano dirimente il teatro indo-sino- pacifico. E perché l’altro protagonista cui francesi, inglesi, italiani e altri veteroeuropei attribuivano non sempre sottovoce il disegno di farsi egemone continentale, la Germania riunita – il più piccolo Stato «unitario» tedesco della storia – conferma di non disporre delle risorse culturali e strategiche necessarie a tradurre la sua centralità geoeconomica in potenza a tutto tondo. Un esame sinottico delle tre varianti dimostra l’impraticabilità dell’egemonia compiuta sul nostro continente. Esclusa nel caso russo, assai improbabile in quello tedesco (se non in associazione con i russi o da junior partner degli americani), relativa sotto specie americana. Esaminiamole in quest’ordine d’improbabilità.

Ceduta per una mancia di 5 miliardi di marchi da Kohl a Gorbačëv – causa tranceecumenica dell’ultimo segretario generale del Pcus – la versione sovietica dell’impero russo, il raggio imperiale del Cremlino s’è ridotto di 1.717 chilometri. Tale la distanza ortodromica fra la Porta di Brandeburgo, cuore di Berlino presidiato dall’Armata Rossa fino al 1990, e il monumento alle Navi Affondate, simbolo di Sebastopoli ripresa a Kiev nel 2014. Ma solo dopo aver compromesso, forse per sempre, il controllo di Mosca sull’Ucraina, terra sacra al patriottismo granderusso, fonte battesimale dell’impero. La Russia è respinta ai margini dell’architettura euro-atlantica. Trattata da avversario, al più da partner tattico su fronti circoscritti – salvo il vitale quanto reciproco vincolo energetico (carta a colori 3). Mosca può esercitare pressione sulle marche orientali dell’Unione Europea e della Nato, oltre a un certo grado d’influenza sul resto della nostra penisola eurasiatica (Asia anteriore, vista da Mosca). Ma il miraggio di supremazia continentale coltivato da Stalin è evaporato. Resta da capire come una potenza in (brillante) lotta per sopravvivere sia percepita minaccia mortale da buona parte degli europei, specie se collocati a ridosso della sua mobile frontiera occidentale. Per i russofobi svedesi, polacchi e baltici la Russia più piccola sarà sempre troppo grande. Se poi sparisse, ne molesterebbero il fantasma.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Quanto alla «Grande Germania». Berlino sta tentando di riemergere da decenni di forzosadiseducazione alla strategia. Arte esercitata con suicida passione dal Secondo Reich. Poi virata in catastrofico suprematismo razzistico sotto Hitler, che individuava nell’Europa slava, liquidatone il fattore ebraico, l’India tedesca da colonizzare. Oggi il lessico della Bundesrepublik rispolvera nella retorica ufficiale lemmi come «potenza», «interesse nazionale», «guida dal Centro». Sdogana in sordina la Geopolitik, sia pure in esangue versione accademico-mediatica. Prova a dotarsi di uno strumento militare credibile, adeguato alla caratura geoeconomica – da colosso esportatore, non da aspirante egemone geopolitico. Come o più di altri omologhi europei, i dirigenti tedeschi vedono (vogliono vedere?) l’America in ritirata. Quanto meno Washington si occupa del Vecchio Continente, tanto più Berlino deve assumersene la responsabilità principale. Sempre in nome dell’Europa, per carità.

La blanda velleità germanica di potenza è frenata dalla vocazione pacifista dell’assai introvertita opinione pubblica, indisponibile ad assumersi gli oneri connessi alla veste imperiale. Oltre che dalla memoria storica propria e di altri europei. La pedagogia delle élite più ambiziose ricorre perciò alla terapia dello shock per addestrare i tedeschi alle responsabilità che vorrebbero schivare.

Due esempi. Il rapporto semisegreto delle Forze armate tedesche tratteggia sei scenari strategici di qui al 2040, tra cui il crollo dell’Unione Europea investita da multipli conflitti3 (figura 1). E il motto «pensare l’impensabile», col quale alcuni dirigenti politici, analisti strategici e giornalisti hanno lanciato dal novembre 2016 l’ipotesi di dotare la Germania della bomba atomica – magari in condominio con la Francia, pagandone l’affitto (sic). Esercizio di maieutica popolare. Allo scopo, secondo un astuto pedagogo, di «familiarizzare i tedeschi con le questioni di politica strategica nucleare»4. Quanto basta per allarmare i germanofobi a est e a ovest di Berlino. Americani inclusi.

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Lo iato fra realtà e rappresentazione – clamoroso nel caso russo, ben visibile in quello tedesco – riguarda in minor misura anche gli Stati Uniti d’America. Ma all’inverso. Washington è percepita come superpotenza in ripiegamento, focalizzata sulla competizione con la Cina. Qualcuno se ne rallegra, specie fra gli europeisti autocentrati o nelle variegate schiere degli antiamericani ideologici, dalle destre estreme in ascesa agli epigoni dell’ultrasinistra. Altri ne sono allarmati, specie se prossimi alla faglia euro/russa, che per loro equivale alla linea del fronte dell’imminente, sperabilmente definitiva guerra al barbaro d’Oriente. Lo sguardo sobrio stabilisce che l’impegno americano in Europa è imparagonabile alla fase del contenimento antisovietico, non fosse che per la riduzione delle forze e degli assetti schierati. Ma insieme nota come dopo l’indiretta quanto vittoriosa battaglia per emancipare Kiev da Mosca, in cui la mano di Washington è stata e resta visibile, la parziale rivitalizzazione della Nato e il pur modesto rischieramento di soldati e assetti bellici statunitensi nel nostro continente siano incompatibili con la tesi del disimpegno.

Basta non perdere tempo nell’esegesi dei peraltro incoerenti tweet di Trump, nella sciarada delle esternazioni dei suoi ministri e consiglieri, per concentrarsi sui fatti. Dai quali si desume che l’America non ha intenzione di ritirarsi dall’Europa per lasciarne la cura agli inaffidabili tedeschi, ai nemici russi, agli sfidanti cinesi. O peggio alla coalizione dei tre. Può e vuole però destinarvi un’attenzione limitata. Più o meno quella che separa lo sbarco in Normandia (1944) dal «formato Normandia» (2014), che attribuisce a francesi e tedeschi un ruolo formale nell’arbitraggio del conflitto russo-ucraino, sotto la supervisione a stelle e strisce.

Certo, il controllo da remoto non è pervasivo, stante la sovraesposizione dell’impero americano, incapace di sottrarsi all’inutile anzi controproducente «guerra al terrorismo». Ma gli accenni al disimpegno dall’Europa intendono spronare «alleati e amici» a pagare una retta meno avara al protettore americano. Non significano che l’ombrello americano si stia chiudendo. Indicano però che Washington non intende consentire agli alleati – romanamente intesi clientes– di metter mano da pari ai pulsanti che ne regolano raggio di apertura e soprattutto impiego. Com’è corretto, l’America premia, respinge o trascura selettivamente gli europei in base alla propria strategia imperiale.

La dissonanza fra gli interessi nazionali dei soci atlantici esclude che l’Europa «riunificata» sia perfettamente eterodiretta dall’America. Fra egemonia e disimpegno il termometro dell’influenza d’Oltreatlantico nel Vecchio Continente marca vari gradi. Oggi la temperatura imperiale è in calo relativo, domani non sappiamo. Unica certezza: nell’eventuale guerra alla Russia gli Stati Uniti non lascerebbero alcuna autonomia ai «partner» Nato. È però scontato che molti, se non tutti, a partire da chi invoca la protezione americana contro l’orso russo, proverebbero a ritagliarsene qualche spicchio (carta a colori 4).


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Giacché nell’aria incerta del nostro tempo, l’attuale dopoguerra europeo parrebbe intridersi di toni da anteguerra. Specie dove il tricolore russo s’imbatte nell’azzurro dello stemma atlantico (Norvegia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia) e semiatlantico (Svezia, Finlandia) o nel bianco che nella cartografia strategica indica gli spazi intermedi (l’ambigua Bielorussia, il turchesco Azerbaigian), ma anche nel grigio tipico delle contese terrae nullius(dalle Ucraine alle Georgie, il plurale è dovuto alle exclavi russe o filorusse tatticamente incistate in quei paesi, per tacere della Transnistria, avamposto informale a ridosso della Moldova).

Siamo negli spazi storici dove nell’ultimo secolo e mezzo si scontrarono i variamente denominati imperi russo e germanico, con austro-ungheresi e ottomani coprotagonisti nell’area centro-meridionale. Terre segnate nell’Otto-Novecento dalle sollevazioni polacche contro gli oppressori di turno (russi, prussiani/tedeschi, austro-ungarici) dove le successive disintegrazioni imperiali hanno prodotto l’attuale pletora di Stati e staterelli. Gli strateghi tedeschi tra Secondo e Terzo Reich vollero pertinentemente battezzarle Zwischeneuropa: Europa di mezzo, o meglio in mezzo, fra russi e tedeschi (carta a colori 5). A distinguerla dalla classica Mitteleuropa (Europa centrale), giardino delle ambizioni imperiali della Germania e del suo irradiamento economico e culturale (carta 1).


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Ci troviamo qui nelle sterminate pianure incastonate fra tre esigui mediterranei – Baltico, Nero e (via Egeo e Ionio) Adriatico. Demarcate dalle Alpi, dai rilievi illirici, balcanici e carpatici, fino agli Urali, teorico confine convenzionale fra Europa e Asia, salvo spingerci più a sud, via alture del Volga, fino al Caucaso. In questi spazi mediani fra impero russo e omologhi europei o turco-ottomani, cui si è aggiunto e poi sovrapposto quello americano, si decide la pace o la guerra in Europa. Ma è nella regione centro-settentrionale di quello che nell’Europa bipolare era l’Est, fra Mar Baltico e Mar Nero, dove gli schieramenti euroamericano e russo sono in diretto contatto, che negli ultimi anni si sta accatastando materiale infiammabile: contenziosi identitario/territoriali e correlativi schieramenti militari avanzati. Basta una scintilla, pur accidentale, per reincendiare quelle praterie. Al grado potenzialmente atomico.


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4. Užhorod è capoluogo della Transcarpazia, regione dell’Ucraina, nel versante danubiano dei Carpazi. Appartiene all’area storico-geografica della Rutenia subcarpatica. La posizione dominante sulla pianura pannonica ne fa un’ambita posta geostrategica. Immaginiamo che fra i suoi oltre 110 mila abitanti sopravviva un centenario di nome Attila che non abbia mai voluto o potuto emigrare. Quando viene al mondo, nel 1918, è suddito asburgico. Dal 1919 e negli anni di formazione, fino al 1939, è cittadino cecoslovacco. Per tre giorni, dal 15 al 18 marzo 1939, partecipa all’avventura della Repubblica d’Ucraina Carpatica, presto sopraffatta dall’Ungheria. Tra primavera e autunno del 1944 soffre l’occupazione nazista. Liberato dall’Armata Rossa, torna per qualche settimana cecoslovacco, finché il 26 novembre dello stesso anno un colpo di mano orchestrato dai comunisti locali su ordine di Stalin lo installa nell’Unione Sovietica. Dove trascorre quasi metà della sua esistenza, inquadrato nella Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Fino al 24 agosto 1991, quando l’Ucraina si proclama indipendente. Grazie al sangue magiaro denunciato dal nome, oggi può ambire ad ottenere un secondo passaporto, emesso dalla Repubblica d’Ungheria. Il cui primo ministro Viktor Orbán, a caccia di voti per le elezioni del prossimo aprile, gli ha scritto una lettera per battezzarlo «parte della nazione ungherese», uguale a quella spedita agli altri 156.600 cittadini ucraini dell’eponima minoranza magiara5. Attila, cui auguriamo lunga vita, senza mai muoversi da Užhorod avrà dunque vissuto sotto ogni genere di regime codificato nei manuali di politologia: imperial-monarchico, repubblicano, nazista, comunista, neonazionalista. A seconda dell’ulteriore longevità, non è escluso che il catalogo s’arricchisca.

Tale parabola geopolitico-esistenziale è tipica dell’Europa centro-orientale. Dove nazioni medie e piccole hanno generato o subìto Stati, sdoppiando, spesso moltiplicando l’identità di chi vi abita. Stati e stati d’anima – autocertificati d’identità – non coincidono immediatamente. Più che l’analisi geopolitica valga l’immagine del poeta: «Illeggibilità di questo/ mondo: tutto doppio», verseggiava Paul Celan, richiamando insieme Ucraina e Bucovina, lui nato a Czernowitz/Cernăŭţi/Černivci6. In perenne, dolorosa ricerca topologica di «luoghi introvabili», che «non esistono»7. Come i battesimi, i toponimi funzionano bene da vincoli identitari e legature comunitarie quando somministrati una volta sola. Tra Baltico, Nero e Adriatico, dopo la seconda, terza, ennesima ridenominazione della cittadinanza e/o dell’idioma (vedi la miracolosa trasformazione dei parlanti serbo-croato in poliglotti, causa disintegrazione della Jugoslavia) al senso di spaesamento si inclina a reagire con la sdegnosa negazione del sempre mutevole altro.

In quelle marche d’Europa vige di norma un percorso che dalla comunità etno-linguisticaconduce alla nazione e di qui eventualmente allo Stato. Perfetto opposto dei classici Stati nazionali euro-occidentali, a cominciare dalla Grande Nation e non esclusa l’Italia. Lo storico polacco Tomasz Kamusella, che professa all’Università scozzese di St Andrews, ha tratto dalla diagnosi del carattere etnolinguistico dei nazionalismi nell’Europa centro-orientale la tesi dell’isomorfismo normativo di lingua, nazione e Stato. L’informano cinque postulati: tutti i cittadini devono parlare la stessa lingua nazionale (anche per dare profondità alla storia patria, ben precedente l’istituzione dello Stato); la lingua nazionale non può essere condivisa con altre nazioni; essa è la sola lingua ufficiale né può esserlo in qualsiasi altro paese; sono escluse regioni autonome con idiomi propri; per conseguenza nessuna regione autonoma di altro paese può usare la lingua ufficiale dello Stato in questione8. Di fatto, nessun paese può essere compiutamente isomorfico, ossia etnolinguisticamente omogeneo. Nemmeno i tre da Kamusella battezzati tali (Islanda, Giappone, Polonia), pure vicini a tanta utopia. E tuttavia, scaduto l’impero sovietico, questa è la direttrice esplicita o implicita lungo cui tendono a definirsi i nuovi/vecchi Stati dell’ex (?) Est. In fervente attesa che la decomposizione finale della Russia scateni il super-sabba degli etnonazionalismi eurasiatici, all’ombra di diecimila testate atomiche, che anima i sogni di alcuni baltici, gli incubi di molti altri.

Quasi sempre infatti le traumatiche transizioni nelle e dalle nazioni statali (State-Nations)– chiamiamole così per distinguerle dall’altrettanto stereotipica classe degli Stati nazionali (Nation-States) – sono prodotte e riprodotte dalle conseguenze della violenta, apparentemente inesauribile decomposizione di imperi e nazioni di varia taglia osservabile ripercorrendo a ritroso (2018-1918) la curva geopolitica dell’ultimo secolo est-europeo. Ne deriva il costante, ipertrofico riferimento al passato e ai simboli etnonazionali in quanto fondamenta identitarie che animano progetti geopolitici spesso retrovertiti, talvolta fantasmagorici.

Nel secondo dopoguerra, il filosofo politico magiaro István Bibó – ministro per un giorno nel rivoluzionario governo di Imre Nagy (1956) – mentre agognava una federazione dell’Europa centro-orientale avvertiva come in vista di tale obiettivo occorresse che i popoli disposti a comporla trovassero quell’equilibrio fra realtà e norma, essere e dover (voler) essere, di cui non avevano ancora dato prova. Fin dalla tesi di laurea su Cogenza, legge, libertà9, poi nel magistrale Miseria dei piccoli Stati d’Europa dell’Est (1946) Bibó diagnosticava l’epidemia di «isteria comunitaria» fra i popoli della sua regione. Tabe collettiva che non permette di scernere il reale dall’ideale, il fattibile dal desiderabile. Generando due tipologie di intellettuali, politici e decisori: il falso realista e l’essenzialista estatico10. Ciò per effetto di fervidi nazionalismi etnolinguistici, giacché gli Stati post-imperiali «non disponevano di certi dati elementari, banali nelle nazioni occidentali, come l’esistenza di un quadro nazionale e statuale proprio, di una capitale, di una coesione politica ed economica, di una élite sociale omogenea eccetera» (tondi originali, n.d.r.). Di qui «il tratto più caratteristico dell’attitudine psichica, dello squilibrio politico dei popoli d’Europa centrale e orientale: la paura per l’esistenza della comunità»11. Suona attuale?

La psicogeopolitica di Bibó esplicita il complesso di inferiorità – compensato da esibizioni di superiorità o di offesa chiusura – che piaga parte dei popoli che in Occidente continuiamo a definire est-europei. E che spiega perché le antiche o nuove nazioni che hanno recuperato o inventato un apprezzabile grado di sovranità a spese della defunta Urss preferiscano autodefinirsi centroeuropee. Anche se ciò implica, a rigore, di concedere ai russi una patente europea – a meno che l’Europa dell’Est non occupi un altro continente. Ciò dovrebbe suonare irritante a orecchie polacche o lituane, estoni o lettoni.

Cogliamo oggi i frutti velenosi dell’orientalismo illuminista. Nel Settecento, diversi intellettuali euro-occidentali diffusero lo stereotipo negativo dell’Est. Inventarono così l’Europa orientale come opposto della civiltà. Rovesciando la prospettiva, fecero leva sull’asserita arretratezza slavo-orientale per fondare l’Occidente come superiore comunità culturale. Ne scaturì un continuum civiltà-barbarie o illuminismo-oscurantismo che da Francia e Inghilterra via Germania trascorreva per gradi negativi fino alla Russia, coinvolgendo slavi e altri popoli cristiani distribuiti fra Adriatico, Nero e Baltico – senza contare l’Oriente islamico di matrice ottomana. (Paradosso vuole che orientalista e russofobo furioso fosse il comunista – non perciò universalista – Karl Marx, che sarebbe forse morto di crepacuore alla notizia che un certo Lenin gli avrebbe cointestato la rivoluzione d’Ottobre.)

Prima fra i dissidenti antisovietici poi nell’ecumene postcomunista si è diffuso, per riflesso, il mito dell’introvabile Europa centrale, ieri «rapita» dal despotismo moscovita nella celebre immagine dello scrittore franco-ceco Milan Kundera12. Culto praticato soprattutto da cechi, slovacchi, ungheresi, polacchi, baltici – trascuriamo i balcanici.

Il centro è in sé sacro. Simmetrico, quindi trascendentale. Autorevole, perciò luogo del comando. Decine di località dell’ex Est si contendono l’onore di rappresentare il centro del continente, ciascuna con il suo monumento che rivendica il primato. I polacchi ricordano come nel 1795 il regio astronomo Szymon Antoni Sobiekrajski avesse fissato in Suchowola (oggi villaggio di settemila abitanti nel voivodato della Podlachia, Polonia orientale) il centro geografico d’Europa. Nel 1990, l’ingegnere francese Jean-Georges Affholder opta per Purnuškės, Lituania, quale «centro di gravità» continentale, mentre esperti di geodesia basati a Minsk, confortati da colleghi russi, giurano sulla centralità di Polotsk, la più antica città bielorussa. Ogni scienziato è buon patriota. Sceglie il metodo che validi il suo centro unico vero. Il ragionamento più sicuro consiste nel prestabilire che la propria nazione è centrale in Europa, dunque il suo centro è il centro del continente. A conferma che nell’universo postcomunista la nazionalizzazione dell’Europa prevale sull’europeizzazione della nazione. Con l’interessante appendice dell’Austria che, contraddicendo il suo nome (Österreich=Impero dell’Est), canta nell’inno federale: «Tu che stai al centro della Terra/come un cuore forte»13.

Ciò che vale per lo spazio si estende al tempo. Non ci riferiamo al fuso orario, pomposamente classificato Tempo dell’Europa centrale, distribuito con generosità dalla Spagna alla Polonia, dalla Norvegia all’Italia. Gli orologi mentali e strategici degli europei «centrali» sono diversi. Calendario gregoriano e tempi geopolitici non corrispondono mai. Vige il principio della soggettività del tempo, enunciato da Sant’Agostino, confermato da Kant, non smentito da Einstein né dalla fisica contemporanea. Il tempo resta mistero di cui ciascuno è ermeneuta.

Una volta di più, è la letteratura a svelarsi geopolitica. Scriveva il poeta polacco Czesław Miłosz, ancora nel 1986: «L’aspetto che più colpisce della letteratura centro-europea è la sua coscienza della storia, passata e presente. (…) Personae e caratteri che appaiono in queste opere vivono in un genere di tempo modulato in modo diverso da quello delle loro controparti occidentali. (…) [In Europa centrale] il tempo è intenso, spasmodico, pieno di sorprese, anzi in pratica partecipa attivamente al racconto. Questo perché il tempo è associato con un pericolo che minaccia l’esistenza della comunità nazionale cui lo scrittore appartiene»14.

Lo spaziotempo dell’ex Oltrecortina inclina alla storia come legittimazione della presente identità e misura delle ambizioni geopolitiche nazionali. Idea connessa all’isomorfismo teorizzato da Kamusella. Qui la storia è sempre contemporanea, il presente sempre storico. I leader etnonazionali scelgono nella storia patria l’eroe che proietti la sua luce protettrice sulla loro autorità, sui loro progetti. Eroe che spesso è il villano della nazione confinante. Ciascun paese postcomunista ha la sua narrazione, spesso conflittuale con l’altrui, specie se vicino. O se viene da molto lontano, come il migrante, respinto perché incompatibile con l’identità etnica dello Stato, che si pretende omogenea.

Non è troppo tardi per ammettere che l’arroganza neo-orientalista dell’Europa occidentale, che s’illudeva di omologare ai suoi canoni culturali, politici e istituzionali l’Est liberato dal crollo dell’Urss senza aver mosso un dito per aiutarlo – anzi, tifando fino all’ultimo per Gorbačëv quale riformatore/preservatore dell’impero di Mosca, se non per i golpisti che nell’agosto 1991 miravano allo stesso scopo mossi da ideali più concreti – ha prodotto il contrario di quanto intendesse. Dimenticando che i processi storici non sono lineari né unilaterali, «Bruxelles» ha trascurato che nell’incontro delle due Europe ciascuna avrebbe contaminato l’altra. Gli economicisti affermano, con ragione, che abbiamo conquistato al capitalismo l’anima dell’Est. Storici, geopolitici e antropologi hanno però diritto di chiedersi se non si sia diventati noi più orientali di quanto i «fratelli» scampati alla prigionia di Mosca si siano occidentalizzati. Anche perché in genere costoro conoscono la nostra storia meglio di quanto noi la loro.

Forse qualcuno tra gli euroccidentali ha preso troppo alla lettera il titolo del libro di Bibósui «piccoli paesi dell’Est». Primo, perché se anche lo sono, non hanno perso la speranza di (ri)diventare grandi. Come l’Ungheria di Orbán, che tratta da provvisorio incidente le amputazioni del Trianon (1920), mobilita la sua diaspora in Slovacchia, Romania, Ucraina e Serbia, intitola a Sándor Wekerle, primo ministro magiaro tra fine Ottocento e primo Novecento, un piano apparentemente infrastrutturale volto ad affermare l’egemonia di Budapest sull’intero bacino carpatico. Secondo, perché non tutti i paesi dell’ex Est sono specialmente piccoli, se raffrontati a tre fra i cofondatori dell’Europa occidentale (Lussemburgo, Belgio, Olanda), per tacere di soci più recenti quali Cipro o Malta. Terzo, e decisivo, nella «Nuova Europa» – per ricorrere all’elogiativo coronimo americano – spicca un paese che non è né si sente medio-piccolo. E che nel passato non troppo remoto fu impero sotto forma di Confederazione polacco-lituana (1569-1795), spingendosi per un paio d’anni fino a Mosca (1610-12). I russi non lo dimenticano, visto che ogni 4 novembre celebrano il Giorno dell’Unità Popolare, in memoria della cacciata dei polacchi invasori. La Polonia, oggi retta da un governo orgogliosamente nazionalista, cattolico-tradizionalista ma soprattutto russofobo e germanofobo – dunque geopoliticamente filo-americano – rivendica il suo grande passato. A suo modo, ambisce a rinverdirlo per quanto possibile nel contesto vigente.

Per esempio attraverso il progetto Trimarium (carta a colori 6). All’apparenza, lasca cornice geoeconomica intestata ai tre Mari – Baltico, Nero e Adriatico – che bagnano le coste dell’Europa settentrionale e centro-orientale. Entro cui dodici paesi – i Quattro del gruppo di Visegrád (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria), i tre baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) più Austria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria – intendono disegnare ferrovie, autostrade, vie d’acqua, soprattutto gasdotti, oleodotti e altre connessioni energetiche, lungo un asse intracomunitario nord-sud. Nella sostanza, progetto geopolitico a base economica, benedetto e supportato dagli Stati Uniti d’America e da loro subappaltato a Polonia e Croazia quali suffraganei regionali, volto a strutturare l’Europa in mezzo sotto forma antirussa (e, soprattutto per la parte polacca, insieme antitedesca). Sul contenimento della percepita aggressività della Federazione Russa, il generale James L. Jones Jr., già comandante delle forze statunitensi e Nato in Europa – oggi copresidente dell’Atlantic Council, think tank assai attivo nel progetto – è stato esplicito. Denunciando al vertice Trimarium di Dubrovnik del 2016 la «strategia “dividi e conquista”» con cui la Russia, forte delle sue leve energetiche, mina la coesione atlantica, ha stabilito: «Potete pensare che questa è la nostra guerra ibrida!»15.

Il Trimarium non è improvvisazione. Alle spalle ha una lunga storia. Molto polacca.


Carta di Laura Canali - 2017

Carta di Laura Canali – 2017


5. Nella tarda primavera del 1904, poco dopo lo scoppio della guerra russo-giapponese,Roman Dmowski e Józef Piłsudski, assai diversi campioni della liberazione della Polonia dal giogo di San Pietroburgo, s’incrociarono con reciproca sorpresa nelle vie di TōkyōDmowski, cofondatore e capo della Lega nazionale, sognava una Polonia etnica e vedeva nella Germania il nemico principale, richiamandosi alla tradizione etno-territoriale della dinastia medievale dei Piasti. Piłsudski, rivoluzionario socialista, s’ispirava piuttosto alla geopolitica multietnica degli Jagelloni, dinastia di origine lituana che aprì la strada alla gloriosa Confederazione con la Corona polacca, e preconizzava una Grande Polonia neoimperiale. Con l’obiettivo finale di scardinare dall’interno la Russia frazionandola lungo linee etniche (progetto Prometeo). Socialista sui generis, per sua successiva ammissione: «Compagni, ho preso il tram rosso del socialismo fino alla fermata dell’indipendenza e lì sono sceso»16.

Entrambi avevano preso separatamente contatto con i servizi segreti nipponici. In particolare con il colonnello Akashi Motojiro, che li sollecitava a favorire la diserzione dei soldati polacchi dall’esercito zarista, spingendoli a insorgere contro San Pietroburgo. Dmowski si mostrò scettico, sostenendo che i russi avrebbero represso nel sangue qualsiasi rivolta polacca per poi trasferire sul fronte asiatico le truppe stanziate attorno a Varsavia. Piłsudski invece consegnò allo Stato maggiore giapponese un memorandum nel quale proponeva di formare una Legione polacca da schierare in Manciuria al fianco del Sol Levante, accennava a fomentare le defezioni di truppe polacche fra le file zariste e offriva i suoi servizi all’intelligence nipponica in vista della prossima decomposizione del troppo eterogeneo colosso russo. Gli ufficiali giapponesi trattarono con sufficienza i due patrioti polacchi, limitandosi poi a sporadiche forniture di armamenti (30 mila rubli a Piłsudski per gli acquisti) e scambi di informazioni. Convinti di vincere la guerra, erano restii a finir coinvolti nelle complesse trame degli indipendentisti di Varsavia17.

I due protagonisti dell’avventura a Tōkyō rimarranno fieri rivali per il resto delle loro vite.Piłsudski come capo della Polonia risorta dalle ceneri della triplice catastrofe tedesco-guglielmina, austro-ungherese e russo-zarista nella Grande Guerra. Dmowski, firmatario del Trattato di Versailles, cercò vanamente di minare la leadership di Piłsudski, che da maresciallo fermò nel 1920 l’Armata Rossa alle porte di Varsavia («miracolo della Vistola») e sei anni dopo assunse piglio dittatoriale. Le visioni geopolitiche e ideologiche di Dmowski e Piłsudski continueranno a informare le dispute intorno alla migliore strategia polacca fino ai giorni nostri. Quasi si fossero spartiti i campi: l’interno, ossia la cura dell’identità polacca, soprattutto a Dmowski; la proiezione esterna, nel segno prevalente di Piłsudski.

Così l’ultranazionalismo illiberale, cattolico-clericale e antisemita di Dmowski,fondamentalmente germanofobo (i russi essendo troppo inferiori per compararli alla minaccia tedesca), si traduce oggi in chiusura eurofobica. Visibile nella marcia dei 60 mila a Varsavia, il 12 novembre scorso. Singolare festeggiamento dei novantanove anni d’indipendenza – il biennio Molotov-Ribbentrop, il successivo quadriennio della seconda guerra mondiale e il quasi mezzo secolo di Repubblica Popolare provincia di Mosca non rientrano in questo calendario – che ha richiamato esponenti dell’estrema destra di mezza Europa. Ma l’orizzonte degli epigoni di Dmowski è stretto nello Stato nazionale, da preservare immacolato. Bianco e cristiano. L’impero, sotto qualsiasi forma, non attrae. In quanto multietnico risulterebbe incompatibile con la purezza della razza, a meno di non attribuire ai polacchi formidabili virtù assimilative.

Jarosław Kaczyński, capo effettivo della Polonia da leader del Partito giustizia e diritto,come pure il poco più che figurativo presidente della Repubblica Andrzej Duda, tingono il loro nazionalismo tradizionalista di colori neojagellonici. Russofobi con semitoni germanofobi. Il loro Trimarium s’inscrive nella tradizione imperiale dell’Intermarium (Mie¸dzymorze), la federazione fra Polonia, Finlandia, Lituania, Lettonia, Estonia, Bielorussia, Cecoslovacchia, Ungheria, Ucraina, Jugoslavia e Romania vanamente proposta nei primi anni Venti da Piłsudski. A sua volta ispirato all’analogo progetto concepito negli anni Trenta dell’Ottocento dal principe Adam Czartoryski, riferimento degli emigrati polacchi che si riunivano nei saloni del parigino Hôtel Lambert. L’evocazione marittima nel maccheronico latino pilsudskiano, l’anelito alla «Polska od morza do morza» («Polonia dal mare al mare») di jagellonica memoria, non deve ingannare. Nel Trimarium il mare vale da cornice di una geopolitica prettamente terrestre. Obiettivo: costruire un contrappeso multinazionale imperniato su Varsavia per allargare al massimo lo spazio fra Berlino e Mosca. E accelerare il collasso definitivo della Russia, scomponibile nei suoi molteplici fattori etnici in quanto anello debole del cerchio che nella storia ha stretto, fino a ripetutamente annientarla, l’intermittente sovranità polacca. Pur se a Varsavia non tutti amano esplicitare tale sfortunato precedente, non v’ha dubbio che sia antenato e modello del moderno Trimarium, prefigurato nella struttura corrente dal professor Krzysztof Szczerski, capo di gabinetto di Duda (si veda la carta a colori a p. I, in coda al volume). Non senza remore, visto che per alcuni la sua implicita inclinazione securitaria rischia di creare sovrapposizioni in ambito Nato. Ciò non sembra preoccupare Donald Trump, che ha voluto esaltare con la sua partecipazione al vertice Trimarium di Varsavia, il 6 luglio scorso, questo «incredibile successo»18.

Con il consenso degli apparati strategici statunitensi, dove alcuni immaginano di chiudere il cerchio del Mar Nero, includendo nel blocco deputato ad allargare la distanza fra Mosca e Berlino persino ciò che resta di Moldova, Ucraina e Georgia, così conferendo al Trimarium un retrosapore antiturco. In simbiosi militare con il Gruppo dei Nove di Bucarest (i trimariani meno Austria, Croazia e Slovenia). Nei laboratori dell’intelligence statunitense circola il possente volume dello storico polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz sull’Intermarium. Per l’autore, concezione di origini medievali, quando lo spazio dei Tre Mari «era solido difensore della civiltà occidentale» contro i mongoli. Oggi «culturalmente e ideologicamente più che compatibile con gli interessi nazionali americani». Non basta: Chodakiewicz designa la «cultura politica americana erede della libertà e dei diritti derivati dalla tradizione del Commonwealth Polacco-Lituano Ruteno»19. E invita gli Stati Uniti a usare l’Intermarium/Trimarium da «trampolino» per «trattare» tutti i paesi ex sovietici, «Federazione Russa inclusa»20. L’«impero» polacco come devastante braccio regionale della potenza a stelle e strisce? La prosa dei fatti non conforta, per ora, tanta poesia.


6. Il prisma del Trimarium ci aiuta a scandagliare i rapporti di forza nel triangolo Usa-Russia-Germania entro lo spazio evacuato nello scorso secolo dagli imperi territoriali sconfitti o annientati. Dal Baltico al Nero, più la direttrice nord-adriatica, che esclude l’Italia, di cui si sconta l’intelligenza con il nemico moscovita. Attribuendoci talenti strategici ormai trascorsi, di cui restano riflessi pavloviani o astuzie levantine a sfondo commerciale.

La fascia del Trimarium marca la frontiera orientale della penetrazione atlantico/americana, tracciando il limes fra impero a stelle e strisce e impero russo. Due soli rilevanti paesi, di taglia medio-grande per i parametri europei, assicurano notevole discontinuità nel segmento di diretto contatto Nato/Russia. E discreta profondità all’area grigia che nel fronte centrale interrompe l’impatto diretto fra il preponderante schieramento guidato da Washington e il «pericoloso rivale» russo – definizione dell’ultimo documento di strategia nazionale degli Stati Uniti 21. Sono Ucraina e Bielorussia. Il primo amputato della Crimea e di Sebastopoli (carta 2), minato dal conflitto a non così bassa intensità nel Donbas, infestato dalle dispute fra gli oligarchi che continuano a spolparne le residue risorse, eppure consolidato nella sua identità dalla minaccia di Mosca. La cui linea rossa, finora preservata, è di impedire che questo tronco d’Ucraina scivoli nel campo atlantico, magari insieme a Moldova e Georgia. Anch’esse, come Kiev, hanno dovuto subire la chirurgia preventiva del Cremlino in Transnistria, Abkhazia e Ossezia del Sud. Quanto alla Bielorussia, ambiguo cuscinetto a est del Bug retto dall’«ultimo dittatore d’Europa», è meno dipendente dal Cremlino di quanto pretenda la vulgata – lo conferma la lite sull’elettricità che Minsk oggi rifiuta di importare ai prezzi di Mosca – e sanciscano i vincoli dell’Unione Economica Eurasiatica promossa da Putin. Il quale comunque non la lascerà slittare per nessuna ragione verso la casa atlantica. Quanto ai vicini Nato, Varsavia in testa, non sembrano turbati dal carattere autoritario del regime bielorusso, perché una «rivoluzione colorata» azzardata a Minsk spingerebbe la Russia a invadere il paese (non proprio) fratello, portandosi alla frontiera polacca. In Bielorussia si convive con il detto per cui «in ogni polacco vive un moscovita, che può essere risvegliato con una dovuta dose di vodka»22.


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A sguardo ravvicinato, la «Nato dell’Est» a forte impronta baltica (carta a colori 7),schierata oltre la riva destra dell’Oder-Neiße – lungo la fascia del Trimarium – cui nelle equazioni strategiche è d’obbligo sommare i partner di fatto finlandese e svedese (carta a colori 8), è meno compatta di quanto pretenda la lirica polacco-americana.

Quattro fattori rilevanti.


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Primo: le faglie interne al Gruppo di Visegrád, con la Cechia e la Slovacchia robustamente connesse alla sfera geoeconomica tedesca e piuttosto sensibili alle ragioni della Russia; l’Ungheria che nei suoi sogni di grandezza inquieta tutti i vicini mentre Orbán coltiva relazioni particolari con Putin; la Polonia a inseguire i fantasmi del passato imperiale e a marcare le rinnovate vocazioni autoritarie, fino a rischiare sanzioni Ue (leggi: tedesche). I leader di Varsavia restano convinti di dover redimere noi europei occidentali, troppo tolleranti verso «altri» e «diversi», per riportarci sulla retta via tracciata da religione e tradizione. Si veda in proposito l’ultimo libro di Krzystof Szczerski, dall’eloquente titolo Utopia europea. La crisi dell’integrazione e l’iniziativa polacca di riparazione23. In termini di architettura europea, ciò significa rifiuto delle «due velocità» – di fatto 27-28 – à la Merkel e riaffermazione del proprio rango di grande paese comunitario.

Secondo: la latente tentazione tedesca di elevare a geopolitica la propria centralità geoeconomica, strutturando la Kerneuropa (Euronucleo, carta 3), rafforzando la Bundeswehr per proporla come esercito-àncora della Mitteleuropa, debitamente vestito dei colori euroatlantici, e offrendosi garante dei valori liberaldemocratici minacciati dagli etnonazionalismi dilaganti tra area ex asburgica e fronte baltico. Quando un commentatore della Süddeutsche Zeitung bolla Trimarium e dintorni «Internazionale degli autocrati», esprime un’opinione diffusa nell’establishment tedesco24. Merkel teme inoltre che Trump incentivi la germanofobia polacca. Gli strateghi del Pentagono fomentano infatti i paesi della Zwischeneuropa non solo in chiave anti-russa, ma anche per contenere le velleità geopolitiche della Bundesrepublik. Forse su ispirazione dei colleghi di Washington, un drappello di influenti analisti e consiglieri tedeschi d’inconcussa fede filo-atlantica ha lanciato un manifesto di denuncia del rinascente «nazionalismo tedesco», reazione al «nazionalismo americano» (leggi: trumpiano). Tanto germanocentrismo, denunciano i firmatari, giunge a suggerire «coalizioni ad hoc» o addirittura «equidistanza fra Russia e America». Così Berlino finirà per «rivolgersi alla Russia o alla Cina»25.


Carta di Laura Canali

Terzo: l’incursione cinese in Europa centro-orientale, rafforzata con l’iniziativa 16+1,ennesimo capitolo delle nuove vie della seta. Geopolitica mascherata da economia. Sottotraccia, modesta nelle risorse finora investite, ma insistente come la goccia sulla pietra.

Quarto: l’incertezza sull’«America di Trump». Le virgolette a segnalare insieme una percezione diffusa e un’illusione ottica. La prima, specialmente acuta nella regione di nostro interesse, confonde retorica e fatti, dipingendo la superpotenza certo indebolita come fosse allo sbando. La seconda scambia una molto visibile ma altrettanto relativa parte dei poteri americani, incarnata dal presidente, per l’insieme della potenza imperiale. Nell’enfasi comunicativa – ufficiale, giornalistica e (a)sociale, quasi sempre stenografica (twitter) – le percezioni possono produrre effetti non voluti quanto devastanti.

Questa sommaria perlustrazione dell’Europa in mezzo, epicentro delle guerre mondiali, non ci rassicura. Troppo passato che non passa in troppo poco spazio. Churchill stabilì che «i Balcani producono più storia di quanta ne possano digerire». Immaginiamo che oggi amplierebbe la sua geografia.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Note:

1. G.H.W. Bush, «Chicken Kiev Speech», en.wikisource.org/wiki/Chicken_Kiev_speech

2. Cfr. J.M. Markham, «A Lot better than a War», The New York Times, 8.2.1987.

3. Cfr. K. von Hammerstein, «Militärplaner halten Zerfall der EU für denkbar», Der Spiegel Online, 4/11/2017.

4. T. Volpe, U. Kühn, «Germany’s Nuclear Education: Why a Few Elites Are Testing a Taboo», The Washington Quarterly, Fall 2017, pp. 7-27.

5. Cfr. L. Bayer, «Viktor Orbán Courts Voters beyond Fortress Hungary», Politico, 22/8/2017.

6. Cfr. P. Celan, Gesammelte Werke in sieben Bänden, a cura di B. Allemann, Frankfurt am Main, Suhrkamp, vol. II, p. 338, cit. in C. Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Macerata 2005, Quodlibet, p. 32.

7. P. Celan, La verità della poesia. Il «meridiano» e altre prose, a cura di G. Bevilacqua, Torino 2008, Einaudi, p. 20.

8. T. Kamusella, «The Normative Isomorphism of Language, Nation and State», in M. Moskalewicz, W. Przybylski (a cura di), Understanding Central Europe, New York, NY 2018, Routledge, pp. 144-145.

9. I. Bibó, Kényszer, jog, szabadság, in Id. (a cura di), Válogatott tanulmányok, vol. 1, Budapest 1986, Magvető Kiadó, pp. 5-149.

10. Cfr. Z. Bretter, «No Federation without Separation. István Bibó about the Prerequisites of Regional and European Integration», in M. Moskalewicz, W. Przybylsky (a cura di), op. cit., pp. 231-238.

11. I. Bibó, Misère des petits Etats d’Europe de l’Est, Paris 1986, l’Harmattan, pp. 161-162. Il volume è stato tradotto dal Mulino (Bologna 1994), nell’edizione curata da Federigo Argentieri.

12. Cfr. M. Kundera, «The Tragedy of Central Europe», The New York Review of Books, n. 7, 1984.

13. Cfr. «Österreichische Bundeshymne», goo.gl/vwYBwo

14. C. Miłosz, «Central European Attitudes», Cross Currents, n. 5, 1986, pp. 101-102.

15. Cfr. «Remarks by General James L. Jones, Jr. at the Dubrovnik Three Seas Initiative Presidential Roundtable», Atlantic Council Publications, 25/8/2016.

16. A. Pedersen, The World Island, Santa Barbara (California) 2011, Praeger, p. 63.

17. Cfr. P.S. Wandycz, The Lands of Partitioned Poland, 1795-1918, Seattle-London 1996, University of Washington Press, pp. 308-311.

18. «Three Seas Initiative: Trump in Warsaw Supports the Project», Visegrad Post, 7.8.2007.

19. M.J. Chodakiewicz, Intermarium. The Land between the Black and Baltic Seas, New Brunswick (U.S.A.)-London (U.K.) 2016, Transaction Publishers, p. 2.

20. Ivi.

21. «National Security Strategy of the United States of America», December 2017, The White House, www.whitehouse.gov

22. A. Kazharski, «On “East”, “Central”, and “Eastern” Europe. Belarus and Central European politics of identity», in M. Moskalewicz, W. Przybylski (a cura di), op. cit., p. 93.

23. K. Szczerski, Utopia Europejska. Kryzys integracij i polska inicjativa naprawy, Kraków 2107, Biały Kruk.

24. S. Kornelius, «Ein Sturm, den die alte G-20-Ordnung kaum überleben wird», Süddeutsche Zeitung, 25/6/2017.

25. «Trotz alledem: Amerika. Ein transatlantisches Manifest in Zeiten von Donald Trump», trotzdem-Amerika.de

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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