IL FATTO QUOTIDIANO DEL 21-12-2017 PAG. 11
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La Guerra legale per il manoscritto di Mosè maimonide
Messo in castigo dalla stanca retorica delle privatizzazioni e da riforme a ripetizione, con tanta burocrazia e poco cervello, in zona Beni culturali lo Stato langue. Ma dà segni di vita. Pronta ed efficace è stata, infatti, la reazione degli organi di tutela (la direzione generale degli Archivi) non appena si è saputo che rischiava di lasciare l’Italia uno dei più preziosi manoscritti ebraici del Medio Evo, conservato a Mantova sin dal 1516.
Si tratta della Guida dei perplessi di Mosè Maimonide, un testo del XII secolo, scritto in arabo nella Spagna musulmana e subito tradotto in ebraico. In quel 1516 il manoscritto, che era stato redatto e ampiamente illustrato nel 1349 in un’area dell’Europa centrale, fu acquistato da Mosè ben Nathaniel Norsa, membro della stessa famiglia a cui appartenne Daniel Norsa figlio di Leone, che vent’anni prima (nel 1495) era stato protagonista involontario di una controversia mantovana. Accusato di aver cancellato dal muro esterno di casa un’immagine cristiana, Daniel Norsa fu costretto dal marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, a compiere a caro prezzo un gesto riparatore, pagando fino all’ultimo centesimo Andrea Mantegna per un quadro che ricordava la battaglia di Fornovo (6 luglio di quel 1495), che il Gonzaga si vantava di aver vinto. È la famosa Madonna della Vittoria, portata a Parigi dalle armate francesi in età napoleonica, e da allora al Louvre.
La famiglia Norsa, incardinata a Mantova dal Quattrocento, vi ha ancora i suoi discendenti, che hanno ereditato, generazione dopo generazione, il manoscritto di Maimonide. Esso contiene, gelosamente tramandato, anche l’atto di acquisto, datato 10 gennaio 1516. Con questa secolare storia alle spalle, nessun dubbio che il manoscritto appartenga a pieno titolo a quel “patrimonio storico e artistico della Nazione” che l’articolo 9 della Costituzione impone di tutelare. Eppure, quando gli eredi Norsa pensarono di venderlo, emersero come potenziali acquirenti prima un collezionista americano e poi una fondazione austriaca, che tentò un’impossibile mediazione fra le leggi italiane di tutela (il cui rango costituzionale non lascia spazio a compromessi) e la voglia di esportare il manoscritto.
secondo un primo accordo, a cui si prestò il segretariato generale del ministero dei Beni culturali, l’acquirente austriaco avrebbe avuto mano libera nel restauro e digitalizzazione del manoscritto a cura di “soggetti di proprio gradimento”, conservandolo temporaneamente in private residenze o depositi bancari austriaci e israeliani, e infine avviando un percorso di cosiddetta “valorizzazione”: in sostanza, mettendo in mostra il manoscritto in giro per il mondo (anche, bontà loro, in Italia). Nulla come quest’ultimo proposito dimostra l’intento sotteso alla proposta di acquisto: non la ricerca, non la conservazione di un bene di straordinario valore culturale, bensì il suo sfruttamento economico, onde garantire nel più breve tempo il “rientro” della cifra spesa per l’acquisto (due milioni di dollari). Per dirlo in breve: l’esatto opposto dello spirito che anima l’articolo 9 della Costituzione e l’intera tradizione italiana della tutela.
Giulio Busi ha commentato sul Sole 24 Ore (6 agosto): “Dei circa 35 mila manoscritti ebraici del Medio Evo e Rinascimento compresi nella raccolta di microfilm della Biblioteca Nazionale Ebraica di Gerusalemme quasi la metà provengono dall’Italia: qui sono stati copiati, o comunque conservati per molti secoli, prima di esser venduti a partire dall’Ottocento. (…) L’emorragia del patrimonio ebraico italiano verso l’estero è stata impressionante, e si può dire che sia continuata, con esportazioni più o meno illegali, fino a ieri. A questo punto, conservare e valorizzare ogni volume è importante, ed è fondamentale che non vada persa la continuità di questi beni con il loro contesto storico”. In questo spirito (ben colto anche da Francesca Sironi sull’Espresso del 16 luglio e da Ariela Piattelli sulla Stampa del 24 ottobre), il direttore generale agli Archivi Gino Famiglietti ha fermato la vendita, garantendo il restauro del manoscritto in Italia (dove le competenze in merito sono di primissimo ordine), nonché il suo acquisto alle collezioni pubbliche, per la conservazione in perpetuo nell’Archivio di Stato di Mantova.
Non è possibile ripercorrere qui l’intricatissimo iter dei due tentati acquisti, che avrebbero impoverito il patrimonio nazionale, e dei fondatissimi argomenti giuridico-istituzionali che hanno assicurato la permanenza del volume nella stessa città dove si trova da cinquecento anni. Ma vale la pena di ricordare che il potenziale acquirente austriaco ha fatto ricorso al Tar, con alcuni argomenti-boomerang che galleggiano nel vuoto: come non esistesse né la storia, né la storia culturale, né tanto meno il diritto. Si sostiene infatti che lo Stato avrebbe “cambiato idea”, prima inclinando verso il consenso all’acquisto da parte di una fondazione straniera e poi negandolo, quando invece il primo accordo si basava su un’istruttoria insufficiente e superficiale. Si dice che l’atto di acquisto del manoscritto nel 1516, in quanto privato, non sarebbe sottoposto a tutela, e potrebbe anche esser venduto separatamente: bestemmia contro il diritto e le buone pratiche di conservazione bibliotecaria e archivistica. Si lascia intendere che il manoscritto, in quanto di cultura ebraica e scritto fuori d’Italia, non farebbe parte integrante del patrimonio storico e artistico del Paese. Si propugna dunque una sorta di “pulizia etnica”, come se nulla contassero i 500 anni trascorsi a Mantova.
Di fronte a un’argomentazione tanto debole, una sola domanda: ma sarà vero che lo studio legale Bonelli Erede, che rappresenta la fondazione austriaca nella causa contro il ministero dei Beni Culturali per l’affaire Maimonide, è lo stesso che assiste il medesimo ministero nella messa a punto di un “Piano strategico di sviluppo della fotografia”? E come mai, per tale compito, non si è ricorso all’Avvocatura dello Stato?