PAOLO PELLGRIN nasce a Roma nel 1964; interrompe architettura all’ultimo anno per diventare ” fotografo di guerra “, studia all’Istituto italiano di fotografia a Roma, dal 2001 è legata all’Agenzia MAGNUM photos e dal 2005 ne è membro effettivo. Ha ricevuto molti premi famosi.
Gaza
corriere della sera, lunedi’ 11 dicembre 2017 — INTERVISTA A PAOLO PELLEGRIN
Paolo Pellegrin, reporter di Magnum:
una foto è una scintilla verso l’altro
Nel Kosovo, in Cambogia, in Iraq, a Gaza: trent’anni da testimone di guerra
e dieci premi World Press. «Ho visto il meglio e il peggio dell’uomo»
All’epoca la sua collezione di premi e riconoscimenti era già avviata: dieci World Press Photo in diciott’anni, la Robert Capa Gold Medal, la Leica Medal of Excellence, l’Olivier Rebbot for Best Feature Photography, Ambassador di Canon, per citare soltanto una parte dei trofei raccolti infilandosi fra le ruote della Storia. Quindi, appena l’ingranaggio della Terza Intifada si è messo in movimento, Pellegrin ha preparato i bagagli per Gerusalemme, anche se era atterrato pochi giorni prima da un’esplorazione ai confini della Terra del Fuoco, a Ushuaia, verso l’Antartide. Oltre un quarto di secolo sul campo, anzi sui campi più tribolati del pianeta lo hanno abituato a distinguere gli scricchiolii degli eventi umani che un testimone del tempo non può perdersi. Dal Kosovo alla Cambogia, dall’Iraq a Gaza.
Sempre sulla notizia?
«Sempre meno. In questi anni sono cresciuti, per numero e per qualità, i fotografi locali: iracheni, palestinesi, siriani. Conoscono meglio di noi il terreno, sanno muoversi perfettamente sui luoghi e, grazie alla rete, bastano a soddisfare un tipo di informazione rapida e quotidiana».
C’è però un problema di neutralità in quell’informazione.
«Forse sì. Ma in compenso non c’è il gap culturale e linguistico che incontriamo noi, arrivando da fuori. E poi, al di là dei rapporti più o meno fortunati che un fotografo intrattiene oggi con i quotidiani, credo che ormai la chiave di questa professione stia nell’approfondimento. La discriminante adesso è la qualità».
Come si capisce di essere un fotografo?
«La mia linea d’ombra è stata la guerra del Kosovo, quando stavo realizzando il secondo libro, dopo la Cambogia e un anno prima di entrare in Magnum. Fotografavo già da dieci anni, ma lì mi sono sentito un fotografo per la prima volta. Sono rimasto a lungo, perché volevo andare a fondo di quella storia, ma anche per me stesso. A metà degli anni Novanta avevo mancato la guerra in Bosnia, un conflitto europeo dietro casa. Forse per questo mi sono impegnato tanto in Kosovo. Per me è stato il punto di non ritorno. Ed è una storia ancora aperta. Meglio: sospesa. Non c’è più la guerra, in Kosovo, ma nemmeno la pace. Come quella tra israeliani e palestinesi. Credo di essere stato almeno quaranta volte a Gaza».
Quando si torna e ritorna negli stessi luoghi, si stabiliscono rapporti umani duraturi con i protagonisti delle proprie immagini?
«Idealmente sì. Ma ci sono mille casi diversi. A volte non c’è il modo né il tempo. In trent’anni di lavoro ho capito che ci sono momenti in cui ti riconosci nell’altro. Basta uno sguardo. La macchina fotografica può essere un filtro o un ostacolo, ma anche un’occasione o la scintilla. Bisogna imparare a capire se in quel momento sia più importante documentare l’avvenimento o approfondirlo. Si discute tanto di etica, soprattutto nei social network, spesso senza sapere bene di che cosa si stia parlando: l’etica è dell’uomo, non della foto. C’è un modo di porsi con il soggetto che io chiamo rispetto. Ovunque io sia, mi considero sempre un ospite e, in cambio, sono quasi sempre trattato come un ospite. La macchina fotografica diventa allora un passaporto straordinario».
Però i fotografi sono generalmente dei solitari, non è così?
«Si parte da soli. Quando ci fu l’invasione americana dell’Iraq, nel 2003, avevo affittato un auto a Kuwait City e l’avevo riempita di viveri, acqua, ruote di scorta, batterie di ricambio. Dopo aver attraversato il deserto ed essere arrivato nella terra di nessuno mi sono nascosto in una fattoria al confine. Pensavo di essere solo, invece è arrivata un’auto carica di giornalisti italiani. Quando loro hanno cercato di entrare a Bassora e sono stati sequestrati, io ero rimasto indietro a fare foto. Alla fine sei solo perché con la tua storia hai una relazione personale, diretta».
Dunque, non per assicurarsi in esclusiva «la» foto da premio?
«È una questione più complessa della gelosia per una foto. Io lavoro su un insieme di immagini per costruire un racconto. Anche se, è vero, a volte può bastare un’immagine sola. La foto ha molti limiti: non si muove, non c’è il suono, figuriamoci quando si lavora in bianco e nero. Ma poi la ricerca si concentra sulla foto che ha la capacità di esistere da sola».
Un bravo fotografo è sempre un fotografo di guerra?
«Io non sono nato con l’idea di fare il fotografo di guerra, ma le situazioni estreme ti spingono in un territorio dove incontri il meglio e il peggio dell’uomo: lo spirito di resistenza, di sopravvivenza, il coraggio».
L’incontro che vale una carriera?
«Kathy Ryan, storica photo editor del “New York Times Magazine”. Ha creduto in me e mi ha affidato una storia in Albania, in coppia con il giornalista Scott Anderson. Era il 1997 e fu la mia prima storia di copertina. Con Scott abbiamo formato una squadra che dura da vent’anni. Ma Kathy mi ha spinto a esplorare anche altri campi della fotografia: lo sport, con le immagini di atleti potenziali vincitori di medaglie d’oro alle Olimpiadi. Per rappresentarli mi sono ispirato alle foto degli anni Trenta, privilegiandone la silhouette. Poi mi ha chiesto di fotografare gli attori. Non mi sentivo adatto per quell’incarico, ma lei ha il genio di chi vede in te qualcosa che ancora non sai».
È più facile fotografare Penelope Cruz o un rom?
«Non ho il culto dei personaggi famosi, a parte Stanley Kubrick o Andrej Tarkovskij, ma ho scoperto che gli attori possono essere persone interessanti e socialmente impegnate, come Brad Pitt e Sean Penn. Ho cercato di coglierli nei momenti meno formali. Davanti all’obiettivo, però, tratto Penelope Cruz e un rom allo stesso modo: con rispetto e attenzione».
Un Programma per i migliori al mondo
Paolo Pellegrin è uno dei 60 fra i migliori fotografi e videomaker al mondo riuniti nel Programma Ambassador di Canon, nominati dalle strutture Canon europee e da un panel indipendente. Nel 2018 il Programma sarà ulteriormente esteso al Medio Oriente e all’Africa e prevede l’ammissione di ulteriori giovani talenti. Obiettivo è creare una connessione fra il brand e le comunità, sia di professionisti sia di appassionati, studenti, utenti evoluti. Così da affrontare insieme le sfide del mercato e cogliere le opportunità dell’evoluzione tecnologica. E così che i grandi professionisti ispirino chi fa della narrazione visiva il suo sogno. Gli Ambassador, tra cui 15 donne, hanno specializzazioni e stili diversi ma in comune: dinamicità, senso artistico, capacità di raccontare storie con le immagini. Tra loro, Simona Ghizzoni, Daniel Etter, Hilary Roberts, Magnus Wennman.