NADIA ZOCCHI, REPUBBLICA DI APRILE 2014::: ” MONI OVADIA, PERCHE’ ODESSA?

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MONI OVADIA

 

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LA REPUBBLICA DEL 26 APRILE 2014

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/04/26/risate-cultura-e-criminali-vi-racconto-la-mia-odessaFirenze13.html

“Risate, cultura e criminali Vi racconto la mia Odessa”

ALL’INCONTRO hanno partecipato Rita Baiamonte, Cristina Barbagli, Alessandro Campagni, Daniela Cortigiani, Vincenzella D’Arienzo, Aurelio Davì, Rossella Dini, Alice Parente, Lucia Rossi,

Nadia Zocchi.

Ovadia, perché Odessa?

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«Perché conosciamo in modo schematico la storia e la cultura dell’Unione Sovietica: Comunismo, Stalin, Gulag. Ma non c’è stato solo quello. La gente ha vissuto, amato, ha costruito cultura; è un mondo che ha avuto sofferenze inenarrabili e ci vorrebbero anni – e molta, molta voglia – per capirlo. Ma a chi importa di far conoscere la realtà sovietica come è stata, quella raccontata Evtushenko nelle sue poesie? La resistenza di Leningrado fu qualcosa che andò al di là di ogni più fervida immaginazione, 900 giorni di assedio, 11 mila persone morte di fame al giorno, i bambini – e il poeta era tra quelli – costretti a grattar via sangue e fango dalle divise dei morti perché poi venissero riutilizzate. Ancora nei primi anni del Novecento metà della popolazione di Odessa era composta da ebrei, ed ebraica era la picaresca malavita che aveva il suo quartier generale nella Moldavanka. Gente dura, si dice che quando s’insediava un nuovo commissario, loro facevano capire di che pasta erano fatti incendiando il commissariato. Quelli odessiti, tra l’altro, erano gli unici ebrei “del sole “: invece di vedere cieli plumbei, bassi, come i napoletani hanno visto il sole da subito. Non a caso, “O sole mio” è stata scritta a Odessa».

In questa città, raccontata da Isaac Babel nientemeno che come “schifosa”, si muoveva Leonid Utiosov, una specie di Buscaglione.

«Utiosov era il grande interprete delle canzoni della malavita ebraica, incentrate perlopiù sulle vicende di un bandito leggendario, “Michelino il Giapponesino”, chiamato così forse per i tratti, forse perché per spiegarsi faceva sempre riferimento alla Yakuza giapponese. Le canzoni “del foglio”, così chiamate alludendo al lasciapassare con cui si accedeva alle colonie penali, lo descrivono come un bandito mercenario amante dell’arte: combatte con le brigate bolsceviche, entra vittorioso a Odessa, chiede che la città gli venga consegnata per qualche giorno per fare un “saccheggio gentile”. Ma il commissario gli fa tendere un agguato e lo uccide. A soli solo 27 anni. Le canzoni che raccontano le gesta di Michelino venivano intonate nelle feste ebraiche, e raccontano un mondo di cui non sappiamo niente. Per capirlo, quel mondo, nello spettacolo inseguiamo le tracce di Utiosov, ma anche di Babel stesso: è stato lui a farmi conoscere Odessa con il romanzo L’armata a cavallo. Quando poi quella città l’ho vista dal vivo, è stata una grande delusione: la comunità ebraica è stata cancellata, assassinata e deportata dai fascisti romeni di Antonescu, deportata in Transnistria, impiccata, lasciata morire di fame. Pavel Vernikov è nato a Odessa e ha fatto parte della seconda generazione; ha studiato nella stessa scuola di Oistrakh».

Anche se immersi nella Storia, i suoi spettacoli non sono mai didattici, didascalici.

«E’ mia profonda convinzione che lo strumento artistico permetta di conoscere la Storia e i suoi fenomeni meglio di qualsiasi saggio. Non a caso Primo Levi sceglie la pietas narrativa per raccontare l’universo concentrazionario. Solo i saggi che contengono poesia ti restituiscono l’umore e la verità di un’epoca, come Danubiodi Claudio Magris che fa capire la relazione tra carnefice e vittima nel nazismo descrivendo la scalinata di Dachau, e a un certo parla di quella dittatura come di un “Reich millenario durato meno della giacca a vento che porto nelle mie gite in montagna”: così capisci che quella immensa pagliacciata sanguinaria era fatta da cialtroni, furfanti, delinquenti, miserabili. Come posso raccontare il mondo yiddish e l’irredimibile cancellazione di quell’umanità se non con la poesia? Come si può raccontare Milano meglio di una canzone di Jannacci? Come spiegare la guerra se non con il tragico euripideo o con la forza iconoclasta di Guernica di Picasso? L’arte sollecita domande, non dà risposte. La gente poi viene da te e ti chiede dove trovare la soluzione. Io mi intrattengo molto in camerino con il mio pubblico perché ho una responsabilità nei confronti di quelle domande. E dico: la risposta a quelle domande la trovi solo in te. Io do indizi. L’essere umano conosce non solo col cervello, la mente, le categorie concettuali ma anche con le emozioni, i sentimenti, l’erotismo. L’operare artistico rifiuta le codificazioni delle grammatiche: Kantor fece teatro senza gli attori, Mejerch’old distrusse il metodo Stanislavskij. L’arte ha una libertà che la cultura accademica non potrà avere. In questo senso è bassa. E sublime ».

E il teatro?

«La verità del teatro è la più lancinante, ti permette di vedere il volto di Medusa senza rimanerne pietrificato. Gli Stati Uniti sono diventati egemoni in questo mondo soprattutto grazie a Hollywood: quello che ha fatto Hollywood non ha paragoni, non ci sono armi che tengano davanti alla costruzione di modelli di vita di immensa seduzione ».

I suoi spettacoli fanno conoscere l’umorismo ad un Paese come il nostro che lo ha praticato molto poco, preferendo satira e comicità. Se dovesse definire l’umorismo ebraico?

«L’Italia ha compiuto uno dei grandi capolavori della cultura che è la Commedia dell’arte, di cui l’ultimo maestro è stato Dario Fo: e che Fo non abbia un suo teatro a Milano è uno scandalo. La Commedia dell’arte è legata alla fame, quando scompare l’una scompare anche l’altra. E la comicità demenziale diventa standard: grande catastrofe, perché dovrebbe essere l’eccezione, non la norma. Gli ebrei sono gli inventori della comicità demenziale, l’assurdo è profondamente radicato nell’ebraismo perché l’avventura ebraica si sostanzia sempre per paradosso, per presa di distanza dall’evidenza, dalla norma. Gli ebrei sono gli unici che partono dall’edificazione di un cammino uscendo da un luogo, e non entrando. E spesso non è un’uscita sensata. Abramo per esempio sta benone, è un fabbricante di idoli che, per cercare Dio, invece di stare dove c’è la forza, i quattrini, va nel deserto, in mezzo agli scorpioni. Ma il suo uscire dalla logica dell’evidenza e del potere è l’inizio della grande epopea ebraica. Lo humour ebraico non fa ridere ma fa pensare, allarga le sinapsi, smonta la realtà rivelando le sue debolezze: la risata è un effetto collaterale. Fa saltare i codici dell’evidenza e illumina possibilità impreviste, come faceva Einstein. Nelmondoebraicol’umorismoèlarisposta all’inesorabilità della violenza. E’ la capacità di spiazzare l’ottusità di un’evidenza che si pretende certa, mentre certa è solo la morte: ma anche quella può essere in qualche modo sconfitta con il bagliore umoristico. E’ dalla fragilità che dobbiamo partire per redimere il mondo. Se parti dalla forza, non hai capito niente. L’umorismo ebraico è l’irruzione di un pensiero femminile che mira a introdurre dolcezza nella forza, a sconfiggere il totem maschilista della violenza. E’ una richiesta di resa senza condizioni, disarmata: ti dico arrenditi perché sei troppo cretino mentre tutto il mondo dice “noi siamo i più forti perché siamo eletti”. Gli ebrei, questa banda sconnessa di meticci, male in arnese, delinquenti, il mucchio selvaggio degli ultimi della terra, inventano l’elezione dal basso, siamo i più sfigati e quindi siamo eletti. E rovesciano tutto. Per questo Hitler li odia. Ci sono storie paradigmatiche, come quella classica del nazista che dice “se il mondo va in rovina è tutta colpa degli ebrei”, e l’ebreo “hai ragione, la colpa è degli ebrei e dei ciclisti”. “Perché dei ciclisti?” chiede il nazista. L’altro: “E perché degli ebrei?”» (testo raccolto da roberto incerti, fulvio paloscia e gaia rau) © RIPRODUZIONE RISERVATA

La verità del teatro è la più lancinante. Ti permette di vedere il volto di Medusa senza restare pietrificato

Noi ebrei, banda sconnessa di meticci male in arnese delinquenti, mucchio selvaggio degli ultimi della terra

PIÙ IN FORMA CHE MAI

Salomone “Moni” Ovadia è nato a Plovdiv, in Bulgaria, nel 1946 Il suo spettacolo più famoso è “Oylem Goylem”

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2 risposte a NADIA ZOCCHI, REPUBBLICA DI APRILE 2014::: ” MONI OVADIA, PERCHE’ ODESSA?

  1. Donatella scrive:

    Bellissima questa intervista e ancora più bella la battuta finale , ebrei e ciclisti incolpevoli!

  2. Donatella scrive:

    Ti scrivo i pochi nomi che ho racimolato dal libro “Odessa”:
    grandi odessiti: Kandinskij; il violinista David Ojstrah; lo scrittore Isaak Babel ( “L’armata a cavallo”, “. Racconti di Odessa”).
    Compositore Josefh Rumshinsky, nato a Vilnius in Lituania, considerato l’Irving Berlin del teatro Yddish.
    Irving Berlin, compositore statunitense originario della Bielorussia, tra i più importanti del ‘900 americano.
    Jacob Adler: famoso attore originario di Odessa, fece carriera negli USA.
    David Kessler, Jennie Goldstein, attori, che si esibirono nel vecchio Music Hall di Bringhton Beach, dedicato originariamente al vaudeville e che divenne un teatro specializzato in lingua yiddish. Il teatro si trovava tra Coney Island e Manhattan Beach. Neil Simon scrisse una commedia “Brighton Beach Memoirs” che è ambientata in quel particolare mondo culturale. Il nome Brighton fu preso per ricordare la famosa località balneare inglese. Altri protagonisti della cultura americana provenienti da quel particolare milieu di Brihton Beach: Arthur Miller, Joseph Heller, Neil Diamond, Mel Brooks.

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