LE SCIENZE 01 MARZO 2017
http://www.lescienze.it/edicola/2017/03/01/news/erba_volant-3442224/
Renato Bruni, Erba volant, Codice Edizioni
A richiesta con «Le Scienze» di marzo di Renato Bruni
L’umanità è affamata di innovazione. È una delle conseguenze del nostro impatto di specie sull’ambiente in cui viviamo e che modifichiamo senza sosta da tempo lasciando tracce ben riconoscibili, al punto da segnare l’inizio di una nuova era geologica che porta il nostro nome: l’Antropocene. Per risolvere le sfide poste da questa nuova era, un aiuto insospettabile potrebbe giungere da quella natura che proprio nell’Antropocene rischia di essere travolta e che invece è sempre più fonte di ispirazione per scienziati e innovatori in generale. Lo dimostra il crescente successo della biomimetica, una disciplina recente che volge lo sguardo alle soluzioni escogitate dalla natura in quasi quattro miliardi di evoluzione sulla Terra per usarle come basi di idee innovative utili agli esseri umani e allo stesso tempo rispettose dell’ambiente.
A ben vedere non è proprio una novità, considerato che perlomeno in ambito farmaceutico l’ispirazione alla natura è vecchia di secoli, se non di millenni, grazie al riconoscimento e allo sfruttamento del potenziale terapeutico di molecole vegetali. In effetti le piante sono protagoniste della biomimetica, ma potrebbero esserlo ancora di più perché il loro catalogo di soluzioni è smisurato e sorprendente, come illustra Renato Bruni in Erba volant, libro in edicola con «Le Scienze» di marzo e in vendita nelle librerie per Codice Edizioni.
L’autore è un esperto del settore. Insegna botanica e biologia farmaceutica al Dipartimento di scienze degli alimenti dell’Università di Parma e in laboratorio si occupa dei metaboliti secondari delle piante e dei loro impieghi; in più è autore dell’omonimo blog sullo studio delle piante e dei loro effetti. Nel libro Bruni immagina di lavorare in un’azienda di consulenza particolare, da cui è assunto affinché trovi soluzioni innovative e inedite a problemi posti di volta in volta dai clienti, e particolare è anche una caratteristica del protagonista: è in grado di parlare con le piante.
Così in nove capitoli si dipana un mondo ignoto ai più, in cui conoscere membri del regno vegetale che si propongono come potenziali colonizzatori di esopianeti, con piante in grado di ridurre l’inquinamento degli ambienti domestici e di lavoro o di fornire soluzioni innovative in ambito militare (ma se pensate ad armi biologiche siete fuori strada) o del marketing, capaci di suggerire approcci per la fotosintesi artificiale.
Il motivo di tanta versatilità va cercato nella storia evolutiva delle piante. Per esempio, la colonizzazione della terraferma fu possibile solo grazie alla sottile modulazione di nuove strategie, spiega Bruni, che permisero alle piante di cavarsela sia nelle aree più fertili sia in quelle più inospitali della Terra dei primordi, caratterizzate da scarsità di acqua, di illuminazione, da temperature non adatte alle nuove arrivate. Quanto ai conflitti che ogni essere vivente si trova ad affrontare nel corso dell’esistenza, le piante non hanno muscoli, non hanno voce eppure hanno affrontato la competizione tra propri membri e con altri organismi, ed è impossibile vincere le guerre senza coordinazione e comunicazione delle forze in campo. Tutto questo è stato ottenuto sfruttando solo aria, acqua e qualche sale minerale, instaurando sistemi chiusi di riciclo da fare invidia ai massimi esperti umani del settore.
Alla fine del libro il vostro sguardo sulle piante sarà cambiato. Non più semplici soggetti per fotogallerie dall’indiscutibile valore estetico o per domande da quiz televisivi, ma depositari di soluzioni già impostate ai problemi dei nostri tempi.
Ieri ho visto “La corazzata Potemkin” in versione restaurata, molto vicina all’originale, che fu realizzato da Sergej Ejzenstejn nel 1925 per celebrare la rivolta dei marinai e della città di Odessa avvenuta nel 1905, anno in cui vi furono i primi tentativi rivoluzionari contro il governo zarista in Russia. Le condizioni disastrose delle campagne e delle fabbriche, l’andamento fallimentare della guerra russo-giapponese furono alla base di una serie di manifestazioni popolari contro il governo dispotico dello zar. Il 22 gennaio del 1905 un corteo di manifestanti si era radunato pacificamente di fronte al Palazzo d’Inverno, residenza dello zar, per richiedere l’attuazione di riforme economiche e politiche. Le truppe dello zar provocarono un eccidio tra i manifestanti, rimasto famoso col nome di ” La domenica di sangue”. La notizia della repressione sanguinosa si diffuse e gli episodi di rivolta si moltiplicarono nelle città dell’impero, tra queste Odessa. città portuale in quell’anno teatro di violenti scontri tra scioperanti e cosacchi. proprio al largo delle coste della città, a bordo della nave da guerra Potemkin, si verificò l’ammutinamento dei marinai, provocato dalle difficili condizioni di lavoro e dal tentativo da parte del primo ufficiale di somministrare all’equipaggio del cibo avariato. I disordini che seguirono coinvolsero la città di Odessa e le truppe dello zar, soprattutto i cosacchi, repressero nel sangue la rivolta.
Nel film la ricostruzione degli avvenimenti non è totalmente fedele alla storia: Ejsenstejn voleva realizzare un film lirico-epico piuttosto che documentario. ” La Corazzata” è divisa in cinque atti, secondo il modello della tragedia classica; ad ogni atto è assegnato un vero e proprio titolo: Uomini e vermi ;Dramma sul ponte di poppa; Il sangue grida vendetta; La scalinata di Odessa; Il passaggio attraverso la squadra. Il film, che dura soltanto un’ora e otto minuti ( a differenza della vulgata dovuta a Paolo Villaggio), riesce a concentrare nei visi, nei gesti dei vari personaggi la tensione, il dolore, la volontà di ribellione e la felicità liberatoria di una vittoria contro la violenza e i soprusi.
Ci sono i sottotitoli in russo e in italiano, ma dall’espressività dei volti si possono capire gli avvenimenti che si susseguono. In Italia il film venne visto per la prima volta dal pubblico solo nel 1960. Alcune scene non c’erano ( ad esempio la morte del bambino e della madre, alcune bandiere rosse colorate personalmente dal regista sulla pellicola in bianco e nero erano sparite); invece dei sottotitoli in italiano c’era il commento, un po’ retorico e ridondante, con la bellissima voce di Arnoldo Foà. Realismo e simbolismo si intrecciano e la tensione crescente è data dall’avvicinarsi progressivo delle inquadrature, come nella famosa scena della scalinata, dove l’avvicinarsi della tragedia è resa, in contrappunto con la fuga della gente, con la visione sempre più ravvicinata degli stivali e dei fucili dei soldati, fino all’inesorabile strage. Il simbolismo appare ad esempio nella sequenza del risveglio del leone di pietra (secondo me anche divertente, perché in mezzo a quella tensione terribile la bestia sussiegosa e feroce simbolo del potere assoluto sembra stiracchiarsi e dire: finalmente qualcuno mi ha svegliato). Sono un’ora e otto minuti di tensione e di felicità: l’arte vince sulla realtà, ma ne vale la pena. La musica, composta per il film da Edmund Meisel, costituisce un elemento indivisibile dal capolavoro del grande regista russo. Tutto questo lo dobbiamo anche al laboratorio di Bologna che ha ricostruito la versione originale del film.