Igiaba Scego (Roma, 1974) è una scrittrice italiana di origine somala.
http://www.flickr.com/photos/lettera27/2835892690/
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IL MANIFESTO DEL 17 – 12 – 2015
https://ilmanifesto.it/la-storia-tutta-in-una-biografia/
pp. 1-26 dell’inizio del romanzo, Editore Giunti
http://www.giunti.it/media/estratto-adua-7YDWJ4YS.pdf
La storia tutta in una biografia
Narrativa. Nel romanzo di Igiaba Scego dal titolo «Adua», per Giunti editore, la vicenda del colonialismo spunta anche nei luoghi scelti per il racconto: dall’elefantino del Bernini a piazza dei Cinquecento
Pubblicazione del 1903 a ricordo dei caduti italiani nella battaglia di Adua
Erano appena i primi anni ’90, e alcuni di noi si posero una domanda: ma queste persone che arrivano ora da tante altre parti del mondo, stanno raccontando, stanno inventando, stanno scrivendo? C’era stato qualche incontro, qualche segnale, e ci domandammo se, con modalità paragonabili ma con tempi molto più rapidi, come negli Stati Uniti era nata una letteratura afroamericana, non stesse nascendo qualcosa che per mancanza di un altro termine, chiamammo provvisoriamente «letteratura afroitaliana»: persone non nate in Italia, o da famiglie non native italiane, che tuttavia scrivevano in italiano e pubblicavano in Italia. Ricordo un po’ di scetticismo. Gli italianisti dell’università che rifiutarono di accettare questi scritti come letteratura italiana (al massimo, «letterature comparate»); l’industria editoriale che da questi scrittori – come per quasi un secolo era successo agli afroamericani – si aspettava solo documentazione (autobiografia) o sentimenti (poesia), ma non gli riconosceva il diritto all’immaginazione (romanzo) e la capacità di metterla in parole.
Inutile ripetere che il tempo ha dimostrato che questa scrittura non solo esiste, ma cresce e ormai è arrivata a piena maturità, a solida coscienza di sé, e occupa uno spazio tutt’altro che trascurabile nella cultura dell’Italia contemporanea. Sottolineo Italia: perché quella che con un termine non necessariamente soddisfacente oggi chiamiamo «letteratura migrante» è un’espressione imprescindibile di quello che è oggi il nostro condiviso e molteplice paese. Se la storia dell’Italia, se le radici dell’Europa sono in gran parte il colonialismo e le guerre portate nel resto del mondo, allora le memorie degli eritrei o dei curdi che oggi abitano l’Italia diventano a pieno titolo memoria di tutti.
Per esempio, è memoria dell’Italia quella dà il titolo e il nome della protagonista di Adua, il recente romanzo di Igiaba Scego (Giunti, pp.192, euro 13): la prima sconfitta militare subita da un paese europeo (1896) per mano delle forze africane. Come ha mostrato la stessa Scego in un altro utilissimo libro (Roma negata, Ediesse 2014), basterebbe guardarsi intorno per ritrovare nelle strade, sui muri, nei monumenti della capitale d’Italia i segni del passato coloniale italiano – glorificato dal nazionalismo e dal fascismo, trascurato e quindi tollerato dal paese democratico, e almeno in parte costruito proprio attorno alla non dichiarata intenzione di cancellare la memoria di quell’umiliazione originaria.
Solo che adesso Adua è presente nelle stesse strade e quartieri anche con un’altra connotazione e un altro punto di vista: quello degli italiani e dei migranti per i quali è una memoria (peraltro, come mostra il romanzo, ambigua e complessa) di dignità e orgoglio. Forse l’unico modo per elaborare davvero Adua è fare nostra Adua: riconoscerci in una memoria che, proprio perché di guerra, non può essere che divisa nel momento in cui la accogliamo come condivisa.
Come altri testi recenti (Il comandante del fiume di Cristina Ali Farah oRegina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi), Adua è il prodotto della stagione di autoconsapevolezza di questa nuova letteratura italiana. È un romanzo ambizioso. Leggendolo, mi è venuta in mente la categoria di «opera mondo» elaborata da Franco Moretti a proposito di opere canoniche della letteratura «occidentale», dal Faust a Cent’anni di solitudine: opere che cercano l’impossibile impresa di fare entrare un mondo intero in un solo testo, che naturalmente non ci riescono, ma che proprio nelle loro imperfezioni recano il segno della loro grandezza. Adua non si misura con il mondo intero, ma ha il coraggio di cercare di mettere in un solo testo tutta la storia di un pezzo di mondo, quella di un’Italia della cui «biografia» fanno parte l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia e le loro memorie.
La protagonista la racconta all’unico interlocutore in grado, anche grazie alle sue grandi orecchie, di ascoltarla: l’elefantino del Bernini in piazza della Minerva, altra presenza africana nel centro dell’Italia. La storia di Adua va da un’infanzia rimpianta nella Somalia rurale alla scoperta del cinema nelle città colonizzate dagli italiani, dall’infibulazione allo sfruttamento sessuale in certo cinema italiano erotico-esotico degli anni ’70 (con un’appendice scopertamente berlusconica un po’ tirata per i capelli ma utile a portare la storia fino a noi), all’affetto e conflitto anche generazionale fra la prima diaspora postcoloniale e l’immigrazione recente.
Questa storia si intreccia con quelle del padre della protagonista, Zoppe, e del padre di lui: il contrasto campagna-città, le relazioni generazionali (le «paternali», i monologhi in discorso indiretto libero del padre alla figlia sono le pagine meglio riuscite del libro), ma soprattutto le complicazioni di un rapporto fra colonizzati e colonizzatori in cui la rabbia e il risentimento dell’oppresso si intrecciano con la subalternità e magari anche con l’opportunismo della sopravvivenza, in cui dai a tua figlia il nome di una vittoriosa battaglia anticoloniale ma poi coi colonizzatori (e quindi con la tua coscienza) sei per forza costretto convivere, adattarti e servire.
Il padre di Adua nel romanzo si chiama Zoppe. Anche nella forma «Zoope» è un nome abbastanza diffuso in Somalia. Ma una volta che entra nel discorso italiano, le connotazioni diventano altre: suggerisce irresistibilmente il più famoso zoppo della cultura euro-africo-asiatica – Edipo. Come ha mostrato Carlo Ginzburg in Storia notturna, da Edipo a Cenerentola la zoppia – rottura della simmetria costitutiva del corpo umano – è il segno di uno squilibrio profondo, di un disordine cosmico; ma proprio per questo è anche il segno di una posizione intermedia fra mondi diversi e in comunicanti (sono zoppi il coyote e la iena, mediatori fra mondo dei vivi e mondo dei morti in molte mitologie native americane). Ora, Zoppe è appunto questo: come Edipo, è indovino, mediatore fra mondi visibili e invisibili, capace di evocare persone lontane e pre-vedere tempi futuri, cosa che aiuta Scego a far entrare nel libro anche tempi e luoghi che sarebbero fuori del suo orizzonte. Grazie alla sua capacità visionaria, e all’incontro con una bambina e una famiglia ebrea, Zoppe pre-vede anche la Shoah: qui, un po’ forzato, ma utile a ricordarci che antisemitismo fascista e razzismo coloniale sono legati a doppio filo; e funzionale all’ambizione di opera-mondo del libro. E di mestiere fa il traduttore, la più complicata di tutte le figure di mediatore in un mondo in cui le lingue non si capiscono fra loro. Traduttore traditore, dice il proverbio: Zoppe dà ai colonizzatori accesso alle parole dei colonizzati e, in gran parte, rinuncia alla propria – non racconterà mai a nessuno la sua storia, e il silenzio lo avvelena.
Il romanzo si conclude in piazza dei Cinquecento. Proprio Igiaba Scego ha ricordato che prende il nome dei «cinquecento» italiani periti in un altro disastro coloniale, la battaglia di Dogali in Eritrea, nel 1897. Se uno la guarda su Wikipedia, ci trova un racconto «eroico» dei prodi italiani che soccombono a soverchianti forze africane – armate peraltro, sempre stando a Wikipedia, solo di lance. Se uno la pensa dentro la memoria di quelli che difendevano il loro paese da un’arrogante invasione straniera, è impossibile non stare dalla loro parte.
Non è un caso che nessuno ricordi perché quella piazza si chiami così, e ne commemori la memoria: è una memoria vergognosa da due lati, da quello eroico-guerresco perché è una sconfitta (non di tutti, peraltro: solo degli invasori e dei loro eredi), e da quello civile perché è parte di un’incivile storia di aggressione coloniale. In questo luogo simbolico, Adua si separa da Ahmed, il giovane immigrato con cui ha scambiato protezione, calore e affetto al di là delle differenze di età. Per la prima volta, lei si toglie lo «strano turbante» fatto con la stoffa blu ereditata da suo padre, e scopre che può liberarsi del peso e del marchio della sua memoria. Come dono d’addio Ahmed le regala una cinepresa: dopo essere stata filmata come oggetto da sfruttare, adesso finalmente potrà dare forma all’immagine che ha di se stessa. Per chi si libera dell’oppressivo turbante blu di una storia che ti grava addosso, piazza dei Cinquecento a Roma è soltanto la piazza della stazione: luogo multiculturale di incontri, di arrivi, di partenze, e di nuovi inizi.
Alessandro Portelli (Roma, 21 marzo 1942) è uno storico, critico musicale ed anglista italiano. Attualmente è professore ordinario di letteratura angloamericanaall’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
È uno dei principali teorici della storia orale [1][2], ha pubblicato testi tradotti in varie lingue (il più importante è The Death of Luigi Trastulli and other stories[3]) e ha pubblicato un saggio di storia orale sull’eccidio delle Fosse Ardeatine[4] che ha ottenuto il premio Viareggio nel 1999.
Ha raccolto poesie e canzoni popolari statunitensi e diversi saggi sulla letteratura afroamericana.[5] Ha collaborato con l’Istituto Ernesto De Martino, per il quale ha effettuato ricerche sulla musica popolare, curando diverse registrazioni per I Dischi del Sole.[5]
molto interessante
Da ” Generali”, di Domenico Quirico, Mondadori, 2006, a proposito di Adua e del generale Baratieri che condusse l’esercito italiano alla sconfitta nella sanguinosissima battaglia di Adua: “…Al calore della battaglia il suo esercito si fuse come cera. Adua fu una sconfitta talmente colossale, così impreziosita da errori, inefficienze e incapacità, da risultare, nonostante l’affannarsi di documenti analisti, ancora oscura. Senza dimenticare che per compilare una versione ufficiale di meno di ventiquattr’ore di cannonate ci sono voluti quarant’anni, per una spiegazione che non va oltre un prudente omaggio ai luoghi comuni nazionali, che “alla fede non corrispondevano i mezzi. E fede e valori prodigati generosamente non bastarono a compensare”.. .Baratieri, che dalla mischia riemerse vivo al contrario di migliaia di suoi soldati, per giustificarsi scelse un’altra strada. Quella di imputare proprio alla vigliaccheria dei suoi fanti una catastrofe firmata dall’incapacità del generale. ( pagg. 225-226 di “Generali”.