IL FATTO QUOTIDIANO DEL 15 LUGLIO 2017
La madre, le piume e i segreti del gentleman di Hollywood – Come essere Cary Grant
Hollywood, 1936. Cary Grant riceve una cartolina da Bristol indirizzata a “A. A. Leach, Cary Grant, Actor, Paramount Studios, Hollywood, California”. La chiave è in quell’Archibald Alexander Leach, il nome di nascita del divo, che all’epoca pochi ricordano. A scrivere quella cartolina infatti non è una delle sue fans. È sua madre. La madre che Cary Grant credeva scomparsa da quando aveva 11 anni e che ha ritrovato in un manicomio appena un anno prima, nel 1935, dopo la morte del padre, che l’aveva ricoverata senza mai dire nulla al figlio.
La cartolina e poi le foto di quella madre adorante, scarmigliata e irriconoscibile dopo il suo ritrovamento, sono tra i pezzi forti di un documentario sul geniale divo inglese visto al Cinema Ritrovato di Bologna (e presto su SkyArte), Becoming Cary Grant di Mark Kidel. Uno di quei lavori che promettono la verità sul protagonista, aggiungendo dettagli poco noti come la lunga psicoterapia a base di Lsd intrapresa negli Anni 50, quando il divo è in piena crisi (“Passi la vita a diventare un attore di Hollywood, ok. E poi?”). Ma finiscono solo per aggiungere un nuovo tassello alla sua leggenda.
The Lady Vanishes dunque, per dirla con il titolo quasi coevo di uno degli ultimi film inglesi di Hitchcock, uno dei registi che in futuro scolpirà il destino di Cary Grant. La signora scompare e il piccolo Archie porterà le tracce di quel trauma per tutta la vita. Anche se dopo aver creato un fondo per mantenere quella madre che lo soffocava di attenzioni per lenire i sensi di colpa dovuti alla morte precoce di suo fratello, e dopo essere andato tante volte a trovarla, si guarderà bene dall’invitarla negli Usa. Per ragioni che il film di Kidal, realizzato in evidente accordo con gli eredi Grant (ci sono foto inedite, filmini girati dal divo, frammenti di un’autobiografia mai pubblicata), lascia solo intuire.
Perché Archibald Leach/Cary Grant non voleva tra i piedi quella figura così ingombrante? Troppa distanza ormai tra la sua infanzia povera a Bristol e la vita scintillante che si era saputo inventare nel Nuovo Mondo?
Questo e molto altro, a cominciare dalla lunga coabitazione con il cowboy di Hollywood, Randolph Scott, di cui in Becoming Cary Grant stranamente non c’è traccia, anche se sul web circolano foto così esplicite dei due amici tra casa, piscina e palestra, che ci si chiede se i divi non si stessero facendo beffe dei loro fan forzando i limiti della censura (mai visto foto simili su Clooney, ad esempio. Forse gli Anni 30, specie prima dell’avvento del famigerato Hays Code, erano davvero più liberi del nostro presente).
E qui tocchiamo altri due punti fondamentali nella vicenda di questo divo sempre più moderno, anche se morto ormai da più di trent’anni (1986). Il primo è l’indipendenza economica, ottenuta dal 1936, quando l’attore lascia la Paramount per decidere da solo che film fare. Il secondo è l’ambiguità sessuale. Non tanto vissuta in privato, quanto coltivata e messa in scena, con i suoi migliori registi, in film che hanno ancor oggi l’argento vivo addosso. Come Sylvia Scarlett – Il diavolo è femmina di George Cukor, 1936, suo primo titolo da indipendente guardacaso, oltre che uno dei pochi in cui quell’inglese simbolo di eleganza sfoggia il rude accento cockney delle origini, sia pure per innamorarsi di una Katharine Hepburn a sua volta assai ambigua perché travestita da ragazzo. Inaugurando una “linea” sofisticata quanto allusiva destinata ad arricchirsi nel tempo in film che fanno di Cary Grant una figura unica nello star system.
Pensiamo ai titoli in cui il grande attore recita accanto alla Hepburn, dal Diavolo è femmina, appunto, a Susanna! di Howard Hawks, per proseguire con Incantesimo e Scandalo a Filadelfia, di nuovo di Cukor. Ma anche l’irresistibile Ero uno sposo di guerra (ancora Hawks), in cui Cary Grant si traveste per salire sulla nave che trasporta sua moglie, ci riporta al gusto del divo per gesti e mise femminili. Vestaglie bordate di piume di struzzo, sottovesti leopardate, colletti di pizzo, parrucche fabbricate tagliando la coda di un cavallo: non si contano le volte in cui quell’europeo che aveva modernizzato la figura del gentleman, spogliandola di ogni rigidezza aristocratica, si sarebbe calato in pose e vesti femminili. Con disinvoltura pari solo alla leggerezza delle sue interpretazioni. E con una finezza che si sposava alla mancanza di aggressività di un maschio abituato a essere preda più che predatore (rivedere per credere la scena sublime in cui l’elegantissima Eva Marie Saint lo seduce al vagone ristorante in Intrigo internazionale di Hitchcock, un capolavoro di erotismo subliminale che vola alto sopra tutte le apparizioni di Grace Kelly, detto per inciso).
Per questo, come avrebbe detto lui stesso, “Oggi tutti vogliono essere Cary Grant. Anche a me piacerebbe essere Cary Grant”. Curioso che nessuno gli abbia ancora dedicato un biopic, ma forse è meglio così. In fondo i segreti di Cary Grant sono tutti ben visibili dentro ai suoi film (in Il ribelle di Clifford Odets, il più autobiografico, fortemente voluto dal divo, la foto del padre del protagonista è quella del suo vero padre). Basta guardarseli. O leggere 54, il romanzo pubblicato nel 2002 dai Wu Ming, in cui il divo, già usato dai servizi segreti inglesi per indagare su simpatizzanti nazisti a Hollywood (questa è storia), compare impegnato in una fantasiosa ma non così inverosimile missione segreta in Jugoslavia.
Bello questo articolo, brillante, sostanzioso e agile come un film di Cary Grant. Peccato che non citi “Arsenico e vecchi merletti”, dove si possono vedere in controluce, ma ridendo, alcune ossessioni del grande attore.