repubblica 14 luglio 2017, pp. 1-29
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L’ANALISI
La dissipazione del centrosinistra
CLAUDIO TITO
SI TRATTA di un abbaglio che si materializza ogni volta che il fronte progressista arriva al governo. E ogni volta l’Italia si ritrova a fare i conti con un gruppo di partiti animati dal desiderio di compromettere il proprio futuro anziché costruirlo. Di tutelare le proprie riserve minoritarie anziché coltivare le aspirazioni maggioritarie.
Basta vedere quel che sta accadendo in questi giorni. Non solo il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha scritto un libro con la apparente intenzione di menare fendenti a destra e a manca anziché provare a ordinare le idee per una eventuale rivincita elettorale. Ma anche nell’altro pezzo del centrosinistra, coagulato quasi esclusivamente intorno alla nuova categoria dell’antirenzismo, riescono solo a dividersi offrendo al loro elettorato il peggio di se stessi. Giuliano Pisapia che era stato individuato come il leader della nascente formazione, dopo aver guidato la manifestazione “fondativa” del primo luglio adesso annuncia che non si candiderà alle prossime elezioni. Non si tratta di una scelta improvvisata. Il punto è molto semplice. Anche in quel soggetto la confusione è totale. La somma di sigle, partitini e movimentini blocca qualsiasi progetto. Il protagonismo di alcuni vecchi segretari non poteva che condizionarne e orientarne la crescita. Una formazione che si è candidata a rappresentare il fronte della sinistra, si scopre già fiaccata dalle liti interne. E ora anche senza un front-man in grado di offrire un volto nuovo al suo potenziale bacino elettorale. Pisapia fa un passo indietro perché non vuole farsi invischiare nelle trame di D’Alema, nei rancori di Bersani e nei negoziati infiniti tra partitini che alcune volte a stento arrivano all’1%. Certamente non si tratta di una scelta definitiva, la strada fino alle elezioni è ancora lunga. L’ex sindaco di Milano sembra essersi convinto che il percorso verso Palazzo Chigi è ormai possibile solo al di fuori dei vecchi contenitori. Magari come soluzione “esterna” alla più che probabile impasse che si realizzerà dopo le prossime elezioni in cui nessuno risulterà vincente. Ma al di là delle tattiche, l’immagine che si compone nel centrosinistra è quella di una ennesima disgregazione.
La situazione non è diversa nel Partito democratico. Si sta ritrovando a discutere solo dell’ultima opera libraria del suo leader. Come se tutto potesse o dovesse ruotare intorno alla sua figura. Renzi sembra attratto da una sorta di brama da isolamento. Assesta colpi a tutti ma non si capisce chi siano i suoi alleati: in politica e nella società. Alla ricerca di un altro referendum su se stesso. Una strategia che oltre a non indicare una finalità sta provocando una fibrillazione nel suo stesso partito. La paura non di una scissione ma di una volontaria solitudine del segretario. L’idea di sospingere tutti i non renziani verso un altro lido. Una sorta di “predellino” Democratico. Che, però, avrebbe come specchio la nascita di una sottospecie di nuovo Ulivo. Una strada che spaccherebbe e indebolirebbe ulteriormente il centrosinistra.
L’Italia non riesce dunque a uscire dalla sua atipicità. Negli ultimi 23 anni non è riuscita a diventare un Paese normale. Prima il berlusconismo e ora il populismo nelle sue varie manifestazioni la affossano in una eterna transizione. Adesso anche con la complicità inconsapevole delle forze di centrosinistra.
Eppure la storia democratica insegna che in una nazione spesso segnata dalle contrapposizioni, i partiti in grado di conquistare risultati tendenzialmente maggioritari, sono stati quelli presentatisi ai cittadini come forza unificante. Nel 2014, quando il Pd ottenne alle elezioni europee il 40,8%, si formò un nuovo blocco sociale che vide in Renzi una figura aggregante. Quel blocco sociale non esiste più, si è frammentato come il panorama politico. L’incapacità del segretario democratico di offrirsi come leader saldante e le esasperanti divisioni di quel mondo di sinistra che ruota intorno a Mdp producono allora un solo effetto: portare il centrosinistra alla sconfitta.
Questa classe dirigente sembra non rendersi conto che in una fase in cui la società vive ogni discussione sotto la forma della radicalizzazione, le forze progressiste dovrebbero assumersi il compito di governare gli estremismi. Avrebbero l’obbligo di non dissipare le ragioni del centrosinistra per arginare i populismi e — ormai è il caso di dirlo — il ritorno dei fascismi. Servirebbe una politica innovativa, europea, moderna. Che non insegua la demagogia del Movimento 5Stelle da una parte e non si abbandoni ai modelli del passato dall’altra. Servirebbe senso di responsabilità e spirito di coalizione. Due qualità al momento del tutto assenti. Due deficit che nel 2018 rischiano di trasformare l’Italia nell’unico dei grandi paesi europei in mano ai populisti.
LE FORZE del centrosinistra vivono troppo spesso di illusioni. La principale è credere di potersi spaccare, insultare, autodistruggere e pensare comunque di essere competitive alle elezioni successive.
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Certamente dissipazione c’è stata nel cosiddetto centrosinistra; mi sembra però che non si vada in profondità. Partendo da quel 40% alle elezioni europee, Renzi e la sua parte politica si è attribuita quella vittoria. Quelli di sinistra che hanno votato per l’Europa non erano tutti renziani: hanno votato l’Europa. Occorre nei partiti spirito unitario, ma con personalità invadenti e autoritarie, assetate di potere come l’attuale segretario PD, è molto difficile se non impossibile. La riflessione seria e la conseguente mobilitazione all’interno del PD andava fatta nel momento in cui è avvenuto quella specie di colpo di stato per cui Letta è stato sostituito, da un giorno all’altro con il nuovo e brillante giovane ruspante: perché i dirigenti PD non hanno chiesto spiegazioni, almeno quelli che non avevano partecipato al golpe? Sparito il brilluccichio del nuovo (?) leader, ci si ritrova con le logorate braghe di tela che stanno anche per cadere. Renzi ha avuto il pregio di far dire agli elettori di sinistra: il re è nudo. Da qui bisognerebbe ripartire ( bisognava farlo con la vittoria strepitosa al referendum, ma facciamo ora quello che è possibile). A darci una mano per l’unità potrebbe e dovrebbe essere la destra che sta montando. Pisapia secondo me ha fatto bene, almeno finora, a non volere essere il leader della coalizione, sgomberando il campo da ambizioni e rancori. Il resto non è nelle mani degli dei, ma nella testa e nel buonsenso politico, nel lavoro e nella pazienza di chi sta tessendo una tela delicatissima, che deve innanzi tutto respingere l’aggressiva aria di destra favorita dalla situazione storica che stiamo vivendo.