Terremoto: da Pantelleria al Friuli, la memoria corta del sottosuolo
NON SO quanto ci vorrà perché noi si prenda seriamente atto di appartenere a un Paese sismico. Eppure basta un’occhiata. Soprattutto in Appennino, nei giorni chiari o nelle notti di luna, capita di sentirla respirare, la dea degli Abissi. Succede quando ti si apre a perdita d’occhio una processione inconfondibile di alture arcigne, inquiete e irregolari. Alture simili al mare quando il vento cambia direzione. E’ lì che si intuisce di appartenere a un Paese speciale, dove la lettura di superficie non basta, e si ha bisogno di sapere cosa c’è sotto. Anche senza conoscere la sequenza delle catastrofi, ci si accorge che lì si cela la chiave di tutto. Forse l’anima stessa dell’Italia. Qualcosa che parte dal profondo. Proviamo a sorvolarla, la schiena del Paese, dalle porte dell’Africa alla fine della Alpi.
C’è Pantelleria, che fuma e sfiata dalle fessure, relitto contorto di un cratere esploso come l’isola di Santorini, nel quale poco più di un secolo fa il mare ribollì e sputò luminarie come di fuochi artificiali, per vomitare un’escrescenza incendiaria vista fino in Tunisia. La Sicilia, segnata di cicatrici, con Persefone che ti dà il benvenuto dalle rovine ciclopiche di Selinunte, i templi greci squassati dai terremoti davanti a un mare blu cobalto. Il Belice, con i branchi di cani che, decenni dopo il disastro, popolano i paesi abbandonati dagli umani, forse per dirti che il peggio deve ancora venire, verso Ragusa, dove le meraviglie del barocco siciliano nascono dal sisma che nel 1693 – in una notte di pioggia, folgori e maremoti – fece cinquantamila morti nell’isola sud-orientale.
E da lì continui, di monte in monte, come sulla cresta di un drago, verso il cono fumante dell’Etna, con gli sterminati campi di lava coperti di pistacchio, con la vista che si apre sull’intero Sud dall’orlo della voragine di fuoco che per millenni ha indicato alle navi la rotta degli Stretti. Poi ancora, verso Taormina, storte rocce rossastre emerse da profondità spaventose, baricentro di un gorgo di forze plutoniche che, ruotando, spingono il Tirreno a espandersi, mentre lo Jonio si accartoccia e l’Adriatico spinge a Nordovest con tutta la Puglia e la Dalmazia e la pianura Padana verso la cordigliera alpina.
E avanti ancora, verso Messina, dove lo tsunami d’inizio Novecento fu tale da spingere le barche sui tetti delle case crollate. Calabria, regione di cui nessuno parla ma che resta la capitale sismica d’Italia, con un pedigree da far paura e un territorio segnato da una teoria infinita di abbandoni, crolli e smottamenti. Dall’alto dell’Aspromonte, un’altra pazzesca visione totale. Scilla, dove nel 1783 (anno segnati da cinque terremoti), crollò la montagna costiera per una fascia di oltre due chilometri. Al largo, le lingue infernali di Stromboli e Vulcano. Dall’altra parte, verso Nicastro e su tutta la costa grecanica, l’epopea dei paesi di montagna abbandonati e ricostruiti sul mare, con lo stesso nome. Visto da lassù, nemmeno il profondo del Tirreno dà segni di tregua, con le topografia sconosciuta dei grandi vulcani sottomarini, uno dei quali – il Marsilli – grande come due volte l’Etna, dà allarmanti segni di risveglio dopo millenni di letargo.
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