CULTURA
NEGLI ANNI SETTANTA, A VENEZIA
lo saprete, chiara no, ma Mariangela è milanese!
Nata a Milano nel 1941, figlia di un vigile urbano e di una sarta. Sorella dell’attrice e cantautrice Anna Melato, e del fisarmonicista Ermanno Melato (il più anziano dei 3 fratelli). Ha quattro nipoti: Giacomo Tini, Federico Tini, Paola Melato, Gerald Melato. Da giovanissima studiò pittura all’Accademia di Brera, disegnando manifesti e lavorando come vetrinista a La Rinascente per pagarsi i corsi di recitazione di Esperia Sperani.[1][2] Nel 1960, non ancora ventenne, entrò nella compagnia di Fantasio Piccoli, esordendo come attrice in Binario cieco di Carlo Terron, rappresentato al Teatro Stabile di Bolzano.[3]
1941-2013
L’autoritratto di Mariangela Melato lo conserva in camera da letto: grandi occhi magnetici, un ciuffo di capelli, il berretto di lana indossato in “La classe operaia va in paradiso”. Tutt’intorno è un trionfo di memorabilia, che solo in parte sono andate in mostra a Roma con l’invito simildantesco “Lasciate ogni tristezza voi che entrate”. Ma nella grande casa di Renzo Arbore è difficile contenere un dolore ancora vivo, ancora più lacerante in una Wunderkammer che riflette cinquant’anni di divertimento. Non c’è ricordo, anche il più minuto, che non solleciti un pianto impetuoso di chi ancora non è riuscito a dare un senso alla perdita. «Non è facile raccontare Mariangela.
Era una persona speciale. E non lo dico perché l’ho amata fino all’ultimo».
su rai uno, Rebecca la prima moglie
Cosa la rendeva speciale?
«Era ricca di grazia, come seppe cogliere Alda Merini. Con la grazia faceva tutto: lavorava, amava, imparava, ballava. Ha saputo perfino morire con grazia».
«Grazia» è la stessa parola che Mariangela Melato ha usato per lei, Arbore.
«Eravamo come due anime sintonizzate sulla stessa lunghezza d’onda. E anche nel lungo periodo della separazione non è venuto meno un legame magico. Io giravo per il mondo e dicevo: questo piacerebbe a Mariangela, lo compro per lei. E Mariangela faceva lo stesso con me. Una complicità inimmaginabile. Poi ci siamo ritrovati».
Come cominciò?
«Una serata al teatro Sistina, al principio degli anni Settanta. Tra tante signore cotonate, spuntò un ciuffo di capelli bicolore, un volto bistrato e due occhi grandi come fari. Il suo tratto esistenzialista mi colpì così tanto che riuscii a vincere la mia naturale timidezza e la invitai a una festa musicale a casa mia».
Lei era già l’attrice impegnata del cinema di Petri.
«E io ero un disk-jockey emergente, ancora molto foggiano e molto meridionale. Bastarono i primi passi di danza accennati da Mariangela per rimanere stregato: ballava come una nera. Non era l’attrice: era l’altra attrice. E io sono sempre stato curioso di tutto ciò che è “altro”. Così nacque un amore formidabile che si suggellò qualche giorno dopo».
Cosa accadde?
«Una serata molto tranquilla a casa di Agostina Belli, alla fine della quale ci ritrovammo seduti a terra: io impunemente misi una chitarra nelle mani di Lucio Battisti, che cantò un brano ancora inedito: Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi. Sembrava scritta per noi. Ci guardammo a lungo, poi una stretta di mano che diceva tutto. Cominciò così».
Una storia che durò dieci anni.
«Andavamo in giro sulla mia Cinquecento malandata e lei era contentissima, nessuna velleità divistica.
Eravamo due esploratori della vita, onnivori, tra i localini off di Trastevere e il teatro polveroso della compagnia D’Origlia Palmi».
Ma non andaste a vivere insieme.
«Sì invece, anche se i primi tempi ero restio a restare a dormire a casa sua. Ma lei rideva moltissimo, rendeva tutto lieve. Abbiamo riso tutta la vita. Ridevamo delle cose serie e delle cose importanti. E perciò una volta ci dicemmo: quando smettiamo di ridere, è meglio lasciarsi».
Quel giorno sarebbe arrivato.
«Nell’81 Mariangela partì per lavoro per gli Stati Uniti. Restammo lontani per un anno e mezzo. E pian piano vennero meno la complicità, il divertimento. Forse sentivamo anche di avere la vita davanti, il grande successo doveva ancora arrivare. E stupidamente decidemmo di lasciarci. Sempre con il sorriso».
Si è mai chiesto se il sorriso di Mariangela fosse il suo modo aggraziato di non farle pesare il dolore?
«So bene che ha sofferto senza farmelo pesare. Così come non è mai venuta da lei una parola sgradevole nei miei confronti. La verità è che Mariangela era una persona superiore, nobile nel senso vero del termine. Una qualità che avrei messo a fuoco soltanto più tardi: una nobiltà d’animo che le impediva di cedere ai compromessi, di ossequiare i potenti, di rubare i primi piani come facevano tutti al cinema, di essere libera dal danaro. Senza Mariangela sarei stato un uomo diverso».
In che senso?
«Mi ha fatto crescere, insegnandomi il rigore e la fatica. Se ho fatto cose buone nella vita, se mi sono comportato in un certo modo, lo devo al codice morale di Mariangela. Si deve studiare tanto, si deve lavorare moltissimo per migliorare, per sprovincializzarsi, per essere bravi. E lei era bravissima».
È riuscito a dirglielo?
«Sì, una sera a Monza, davanti a una platea affollata. Non stavamo più insieme, lei venne al mio concerto. Ne fu felice».
Un regista ha detto di lei che scendeva nel proscenio come una guerriera, sempre vincente ma sempre stupita di avercela fatta. Era così anche nella vita?
«Sì era timida, non voleva sopraffare la personalità degli altri, compresa la mia. Mi chiedeva sempre tutto con estremo garbo: ti andrebbe? Con me non ha mai sguainato la spada. In tanti anni non abbiamo mai litigato, mai alzato la voce. Un altro aspetto che mi incantava era il suo restare bambina. Era una combattente, ma bastava un niente, una piccola sorpresa per suscitare il suo entusiasmo».
Rivendicava la sua solitudine sentimentale con grande orgoglio. Pensa che questo abbia avuto dei costi?
«Sotto sotto Mariangela avrebbe voluto una vita normale, un amore solido, un matrimonio, ma lei l’ha negato fino alla fine. Un’ amica ci provocava anche nell’ultimo periodo. Renzo sposeresti Mariangela? Subito!, dicevo io. E lei: noo, mai…».
Da giovani ci eravate andati vicini.
«Giravo con la lista dei documenti preparata da mia madre. Ricordo la gioia di Mariangela quando le regalai il bracciale di mamma a forma di vipera. Lei mi ripagava con regali straordinari come la panchina verde da giardino con su scritto Renzo e Mariangela e un cuoricino. Di recente ce lo siamo domandati: se ci fossimo sposati…? La vita è andata in un altro modo».
Però dopo tanti anni vi siete ritrovati.
«È avvenuto in modo naturale, sempre con il sorriso. È stato come ritrovare la propria giovinezza, l’intimità dei primi tempi. Purtroppo poi è arrivata la malattia, un castigo che non si può giustificare. Mariangela aveva avuto una vita non facile, conquistata a bracciate faticosissime».
Come ha affrontato il tumore?
«Come un’eroina classica, sottoponendosi a ogni genere di tortura. E continuando a lavorare, anche in modo terapeutico. Mi fece male vederla sul palco del Valle dove prima di morire travasò i suoi tormenti nel Dolore di Marguerite Duras. Il mio sogno è che quel teatro sia intestato a lei».
Proteggeva anche lei, Arbore, dal dolore?
«Sì, è così. E io ho cercato di trasmetterle positività fino alla fine. Fino a all’ultimo giorno, quando ci mettemmo a cantare una vecchia canzone “Americano non posso cantar/ o miei signori mi dovete scusar/ questa sera canto in italian”. Non mi ricordavo le parole e lei mi prendeva in giro, come sempre».
Qual è il rimpianto più grande?
«Ho trovato talmente ingiusta la sua malattia che mi sento colpevole di stare bene. E oggi che faccio teatro anche io con l’Orchestra Italiana, di fronte agli applausi penso che sia Mariangela a proteggermi da lassù».
NEL 1981
Per rimanere in un clima malgrado tutto di leggerezza trascrivo due storie dei famas e dei cronopios ( da Cortazar,” I racconti “, Einaudi.
Il fiore e il cronopio
Il cronopio si imbatte in un fiore che se ne stava solo nei prati. Sta per coglierlo brutalmente, ma pensa che è un’inutile crudeltà e si mette in ginocchio accanto a lui e gioca allegramente con il fiore, ecco; gli accarezza i petali, gli soffia sopra perché balli, ronza come un’ape, ne aspira il profumo e infine si corica sotto il fiore e si addormenta immerso in una grande pace. Il fiore pensa: ” E’ come un fiore”.
Tartarughe e cronopios
Che le tartarughe siano grandi ammiratrici della velocità è cosa del tutto naturale.
Le speranze lo sanno, e se ne infischiano.
I famas lo sanno, e ne ridono.
I cronopios lo sanno e ogni volta che incontrano una tartaruga tirano fuori i gessetti colorati e sulla curva lavagna della tartaruga disegnano una rondine.