MASSIMO RECALCATI, TROPPO FAMOSO ORMAI, CI PARLA DELL’ANSIA DA CONTATTO CHE NASCONDE LA PAURA DELL’IGNOTO

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gabriella giandelli, Illustrazioni e disegni, Tricromia Galleria d’arte
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L’ansia da contatto che nasconde la paura dell’ignoto

Difficile in questa stagione non essere “toccati” da sconosciuti dove i luoghi di villeggiatura ci espongono alla frequentazione di spazi sempre più affollati. Nella prima riga di Massa e potere, Elias Canetti isola nella paura di essere toccato dall’ignoto una paura atavica dell’essere umano. «Dovunque, l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo». È qualcosa da cui può scaturire l’esperienza clinica del panico che solitamente colpisce proprio in luoghi di grande ammassamento di gente sconosciuta come sono gli aeroporti, i tunnel autostradali, le stazioni ferroviarie o i grandi centri commerciali, ovvero in tutti quei luoghi che l’antropologo Marc Augé ha definito paradossalmente “non luoghi” perché privi di identità storica, relazionale o antropologica. Se il non luogo offre il terreno più favorevole all’attacco di panico è perché il panico non è altro che la segnalazione drammatica dello smarrimento dei propri confini identitari interni e esterni. Fintanto che il confine sussiste il tabù del contatto con l’ignoto è preservato. Il problema è che il contatto con lo sconosciuto può far saltare in aria i nostri confini. In questo senso l’esperienza del panico può essere considerata come la forma più estrema di irruzione dell’ignoto e, nello stesso tempo, del tentativo impossibile di fuga dall’ignoto stesso, da tutto ciò che il soggetto non può governare, ovvero dall’incontro con l’eccesso della vita e l’imprevedibilità della morte.

Nel film di Giuseppe Tornatore La migliore offerta il protagonista, un battitore d’aste famoso e ricco collezionista d’arte, concepisce la sua vita come una sorta di ritiro da ogni forma di contatto. Oltre a collezionare opere d’arte colleziona guanti che lo proteggono dall’incontro minaccioso con l’estraneo. Canetti pensa che gli uomini abbiano creato ogni genere di distanze per esorcizzare il pericolo atavico del contatto con l’ignoto. Non è molto diverso da quello che spiega Lacan quando concepisce la vita collettiva come un insieme di barriere che ci separano dall’incontro col reale terrificante della Cosa. Anche quando camminiamo per strada l’essere toccati involontariamente da uno sconosciuto può suscitare in noi fastidio sino al limite della collera o della ripugnanza. Anche in questi contatti “ordinari” facciamo esperienza di un valicamento improprio del nostro confine: un altro corpo, estraneo, tocca il mio spazio, entra in un contatto imprevisto con la mia vita. Non è questa una motivazione che anima i progetti di chi concepisce le vacanze (o la vita) come un allontanamento da ogni forma di contatto con il genere umano? Nondimeno gli esseri umani amano stare in massa.

Esiste secondo Freud una pulsione gregaria che si soddisfa nel rinunciare alla nostra singolarità e al peso della responsabilità che comporta. Meglio affidarsi a un padrone o a un Essere collettivo che ci sollevino dalla nostra libertà. Per Canetti l’essere nella massa è il solo momento dove la vita umana ama confondersi con quella dell’altro. Il contatto non genera in questi casi un brivido di irritazione, ma è ricercato. Si tratta di una identificazione “densa” che garantisce che in uno stadio di calcio come in una chiesa si possa fare esperienza della condivisione di una “fede” comune. Perciò Freud ha insistito nel mostrare come la funzione primaria della massa sia costituirsi come rifugio nei confronti dell’angoscia. Ma la condizione affinché la massa eserciti questa funzione di riparo verso l’ignoto, è la condivisione di una identità ideale. Le masse armate degli eserciti e quelle dei fedeli erano per Freud i paradigmi di questa condizione “densa” della massa. La massa totalitaria offre l’illusione di possedere un solo corpo. I confini individuali sono però superati da altri confini che costituiscono un corpo collettivo dall’identità ancora più rigida. Tanto più saldi sono i rapporti che legano un individuo ad una massa, tanto meno si potrà trovare esposto al rischio dell’angoscia.

Ma il nostro tempo non è più il tempo della massa “densa”, ma della sua atomizzazione. Il panico è la trascrizione ipermoderna dell’atavica paura umana verso l’ignoto (la vita e la morte). L’attacco di panico trasfigura la massa da luogo di identificazione a luogo di pericolo. In questo senso il panico ipermoderno è il rovescio del fanatismo totalitario: se quest’ultimo si fonda su di un’identificazione della massa a un Ideale assoluto, il primo segnala il vacillamento o la caduta di quell’Ideale. La massa travolta dal panico è acefala, senza corpo, fluida anziché densa, smarrita anziché identificata. Accade quando un concerto o una competizione sportiva sono interrotti da un incendio o da un altro evento imprevisto.

L’emergere del panico comporta la rapida disgregazione della massa. È allora – nell’onda del panico – che la massa rivela di nuovo la sua faccia minacciosa: il carattere anonimo della folla non rafforza più l’identità ma contribuisce a sgretolarla. Nella vertigine del panico non avverto più la presenza confortante dell’altro, come accade al credente che, nella liturgia cattolica, scambia il segno della pace col proprio “fratello”, ma come lo straniero assoluto, l’intrattabile, la fonte più grande del pericolo. Il panico spezza l’identificazione verticale della massa frammentando l’illusione del suo corpo unico in una miriade impazzita di schegge. Avrebbe forse ragione il collezionista di guanti di Tornatore a tenersi lontano dal contatto, a sottrarsi all’angoscia nei confronti dell’ignoto?

 

Per Elias Canetti gli uomini hanno creato ogni genere di distanze per esorcizzare il pericolo derivante da ciò che non conoscono ed evitare un’esperienza che spaventa

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1 risposta a MASSIMO RECALCATI, TROPPO FAMOSO ORMAI, CI PARLA DELL’ANSIA DA CONTATTO CHE NASCONDE LA PAURA DELL’IGNOTO

  1. Chiara Salvini scrive:

    CHIARA: la fama deve dare una sensazione piacevole di potere e di autorità, ma purtroppo porta i più a semplificare eccessivamente i temi della mente che purtroppo semplici non sono, anche perché vogliono farsi capire da tutti, possibilmente. Per mia esperienza, non propria in questo caso, ma di mia figlia, l’origine più profonda dell’attacco di panico è sempre il pericolo o addirittura lo sfaldarsi del nostro proprio perimetro che ci identifica e ci separa dagli altri, proprio come dice con molta semplicità l’autore. La persona arriva addirittura a non sapere più chi è, a voler chiedere aiuto ai genitori (una ragazza di 20 anni), ma non sa se ha genitori e dove potrebbero trovarsi. Forse non riesco neanche ad immaginare cosa sia vivere questo, anche se la persona che pian piano, almeno nel mio caso, fa spazio dentro di sé al delirio, ci crede non ci crede ecc. si trova a vivere un sentimento così grave che viene chiamato ” panico organismico” ( anche se non mi è mai riuscito di capire bene cosa volesse dire) perché, semplicemente, lei stessa, per salvarsi, si è tolta la terra da sotto i piedi e vagola nell’etere. Il delirio, come ho già scritto, è una reazione sana del nostro organismo per curarci, dovrebbero essere contenuto dai farmaci per evitare traumi ecc., ma bisognerebbe avere il coraggio di lasciargli svolgere il suo lavoro, o ” lavoro del delirio” che, se non vaneggio, è un’espressione di Freud. Ma pazienza!. Quando sono stata ricoverata in una clinica la prima volta, dopo che i miei non hanno voluto lasciarmi nel manicomio di Parabiago, lo psichiatra si è messo di punta con i farmaci per debellare questo mio pensare ” senza realtà”. Ho sofferto moltissimo di questa azione di repressione (potrebbero farlo con la febbre, è la stessa cosa) e ho lottato molto contro. L’abbandono ai farmaci è una delle mie esperienze più…” devastanti “, vi piace abbastanza? Tanto non ce l’ho una parola giusta, potrei solo descrivere l’accaduto. Quando sono stata meglio, mia madre – da sempre appassionata dei consulti, eredità della sua famiglia- ha voluto che mi vedessero altri medici, tra cui un neurologo. Come ho già raccontato, il ’76 è stato l’anno di una legge che ha obbligato questi professionisti a fare una scelta: o psichiatri o neurologi. Questa persona mi ha fatto un lungo colloquio lasciandomi esprimere ” senza remore ” da parte mia. Alla fine del colloquio allo psichiatra: ” questa ragazza si riprenderà, ci metterà più di un altro perché è intelligente e vuole capire cosa le sta succedendo.” Mia mamma è stata contenta perché l’uscita dalla malattia l’aveva data come sicura. Certamente io l’avrò messo a parte delle varie spiegazioni che cercavo di darmi, o meglio, annaspavo per darmi. E’ stato così per tutta la cura (40 anni, almeno+ oggi) : il mio corpo ha sofferto moltissimo ( si è consumato) proprio perché dannatamente ad ogni minuscolo passo, sia per farlo che dopo, avevo necessità, non di dico di capire, ché non capisco granché neanche oggi, ma diciamo ” accompagnare con la ragione che rischiara “, tutti i movimenti passionali di certe nostre pressioni inconsce. Ho scritto” tutti”, per stupidaggine, quando arrivavo ad afferrarne uno che sfuggiva di corsa nella tempesta delle emozioni, me lo facevo durare come fa uno, un bambino e un vecchio che hanno bisogno di zuccheri, con una caramella. ciao, grazie, notte da chiara

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