Sundar Pichai (Chennai, 12 luglio 1972), è un dirigente d’azienda statunitense,amministratore delegato di Google Inc. dal 2 ottobre 2015.
Pichai durante il Mobile World Congress a Barcellona, Spagna—marzo 2015
cronaca
Il personaggio.
Parla Sundar Pichai, da 9 mesi
Ceo del colosso di Mountain View “Sarà uno strumento di emancipazione”
“Microchip come neuroni l’evoluzione di Google è l’intelligenza artificiale”
JAIME D’ALESSANDRO
MOUNTAIN VIEW
UNA FOTO DI GOOGLE NELLO STESSO POSTO —
DAL NOSTRO INVIATO
MOUNTAIN VIEW (SILICON VALLEY)
Sundar Pichai si presenta in camicia scura e jeans. Esile, pacato, gentile, tutto si direbbe di lui meno che è a capo di un colosso da 75 miliardi di dollari di fatturato nel 2015. Siamo nel campus di Google, l’azienda che dirige, in piena Silicon Valley. Facebook, Apple, Tesla, Netflix, sono nelle vicinanze. Pichai è nato a Madras nel 1972 e in America è entrato dalla porta di servizio. Lavora per Google da 12 anni. Larry Page e Sergey Brin, i fondatori, nove mesi fa lo hanno scelto per trasformare l’intera compagnia, iniziando dal motore di ricerca. Che si evolverà in intelligenza artificiale pura, capace di assisterci in tutto. O almeno questo è il piano. Alla base c’è una tecnologia chiamata “apprendimento delle macchine”. È la stessa che ha permesso a DeepMind, che Google ha pagato mezzo miliardo di dollari, di battere il campione di Go, l’antico gioco da tavola cinese. Si basa su reti di microchip organizzate come fossero neuroni e sulla loro capacità di imparare attraverso gli algoritmi. In presenza di un numero significativo di dati, possono capire il senso di una frase, il contesto di una richiesta, il soggetto di una foto, tradurre in tempo reale da una lingua all’altra, archiviare automaticamente documenti. Tutte funzioni in parte già offerte da una serie di app e software, che ora Google vuole unire facendole diventare la sua nuova bandiera. Con l’ambizione di arrivare prima o poi alla predizione. L’intelligenza artificiale, studiando le abitudini, riuscirà ad anticipare i nostri bisogni: magari prenotando in automatico il taxi, inoltrando una mail ad un collega che la stava aspettando.
«Siamo ad un giro di boa», spiega Pichai. «Anche se abbiamo sempre avuto questa vocazione: usare gli algoritmi per aumentare l’efficienza di quel che offriamo al pubblico » Un’assistente personale che funziona va molto oltre.
«Si, è altra cosa. Ma il passaggio da un motore di ricerca al quale chiedere una informazione ad una intelligenza in grado di anticipare una richiesta non avverrà da un giorno all’altro. Sarà un processo graduale. Cominceremo con una app, questa estate, e via via allargheremo il campo».
Non siete soli in questa corsa. Da Amazon a Facebook, fino a Microsoft e in parte Apple, tutti stanno investendo miliardi. Si teme però che la capacità delle macchine di apprendere metterà in pericolo milioni di posti di lavoro.
«La tecnologia spesso è deflagrante, eppure i benefici sono indiscutibili. Qui stiamo parlando di sistemi in grado di imparare a leggere una radiografia e individuare un problema con una efficienza maggiore di quella di un radiologo. Non solo. Avremo una riduzione drastica degli incidenti stradali grazie ai veicoli senza pilota. Io personalmente non ho dubbi sul fatto che i vantaggi saranno molto maggiori rispetto agli svantaggi. È una rivoluzione che potrà anche aiutarci a risolvere questioni legate all’ambiente, iniziando dal riscaldamento globale. L’intelligenza artificiale potrà essere usata per analizzare certi fenomeni e capirli meglio. Per quanti posti di lavoro verranno persi, ne nasceranno altri».
H.G. Wells nel 1936 immaginò una men- te globale sintetica, un luogo raggiungibile da tutta l’umanità dove conservare il sapere. Arthur C. Clarke, nel 1962, riprese quell’idea che ora voi state mettendo in pratica.
«Non sarà un’unica entità, ma tanti assistenti che daranno una mano a milioni se non miliardi di persone. È vero però che di fondo si tratta di un progetto su scala planetaria: poter aiutare tutti, senza distinzioni fra condizione sociale, religione, colore della pelle. La tecnologia è democratizzazione, è uno strumento di emancipazione fondamentale».
Che nel caso specifico creerà non poche preoccupazioni in fatto di privacy e trattamento dei dati.
«Le persone, giustamente, tengono alla privacy. Soprattutto in Europa. Sviluppare software è complesso da questo punto di vista: più opzioni metti più finisci per realizzare prodotti troppo complicati. Ecco, con l’apprendimento delle macchine sarà molto più semplice. L’assistente capirà se una certa domanda è stata fatta in presenza di altre persone o meno, modulando la risposta in base al contesto. Anche questa è privacy. E sarà possibile con un semplice comando vocale gestire i dati sensibili: cancellare le informazioni sulla navigazione online dell’ultima settimana, eliminare certe telefonate, i movimenti registrati dal gps».
O impedire ad alcune app di raccogliere dati tout court.
«Ognuno di noi interpreta la privacy in maniera diversa. È un concetto che evolve, cambia».
E per quanto riguarda le tasse?
«Siamo una multinazionale e ci piacerebbe che ci fosse una regolamentazione internazionale in questa materia. Rispettiamo le leggi dei vari paesi e stiamo investendo moltissimo in Europa».
Oggi la maggior parte delle vostre entrate vengono dalla pubblicità. Sarà lo stesso anche in futuro?
«Ad esser sincero non ne ho idea. Non sapevamo come avremmo guadagnato nemmeno quando abbiamo costruito il motore di ricerca. Partiamo dallo stesso principio: aiuteremo miliardi di persone nella loro quotidianità e nel farlo creeremo un valore. Vedremo poi in quali termini. La missione alla fine è la medesima: dare alle persone accesso alle informazioni e permettere loro di organizzarle».
Sembra che la Commissione europea muoverà a Google l’accusa di abuso di posizione dominante nel mercato pubblicitario. Non è il primo incidente di percorso del genere e non sarà l’ultimo. Basti pensare al sospetto di concorrenza sleale perché pre-installate i vostri servizi su Android, il sistema operativo per smartphone più diffuso che è sempre vostro.
«Abbiamo un ruolo importante nella vita delle persone. Capisco che si voglia fare chiarezza. Android però è il sistema operativo più aperto mai realizzato. Ed è gratuito e modificabile. Quelle app pre-installate sono funzioni base, come le mappe, le mail o il browser. La Apple fa la stessa cosa sull’iPhone. Ma si possono scaricare quelle di altre compagnie, la libertà è assoluta. Lo è a tal punto che Amazon, un nostro concorrente, ha appena presentato due nuovi smartphone. Usano entrambi Android».
Quanto teme i concorrenti?
«Moltissimo. Nessuno qui — ma direi che vale per tutti qui nella Silicon Valley — sente di aver raggiunto l’obiettivo. Fuori ci sono tante aziende di successo e ogni anno ne arrivano di nuove».
Nel vostro campus si respira un’aria singolare: Google è un’azienda da 60mila persone, 20mila qui a Mountain View, che vuole avere i modi e la velocità di una startup. Non le sembra un miraggio?
«Dobbiamo pensare a lungo termine in quanto azienda da 60mila persone ma lo facciamo in modo diverso. Ogni mattina mi alzo e mi chiedo cosa sentono tutti coloro che lavorano a Google. È un aspetto fondamentale. Fuori ci sono aziende giovani, agili, frugali. A volte fanno le cose meglio, più rapidamente e con meno soldi. Ed è quello spirito che dobbiamo avere. Cerchiamo di essere le due cose assieme: una grande azienda ma fatta da tante piccole startup che lavorano con determinazione. Perché quando inizi a pensare di essere grande e bravo, è lì che comincia il declino».
Restando in tema di cultura aziendale.
Qui fuori, sul palazzo di fronte, l’insegna Google ha i colori dell’arcobaleno per celebrare il gay pride. Avete fatto della diversità culturale dei vostri impiegati un manifesto e lei stesso è immigrato qui dall’India. Non sembra un’azienda compatibile con l’agenda di Donald Trump.
«Non prendiamo mai parte al confronto politico fra due candidati».
Eppure investite in lobbying milioni di dollari a Washington.
«Siamo pronti a schierarci su temi specifici con grande decisione, dalla parità dei diritti all’educazione per tutti. Siamo per il multiculturalismo. Ma non possiamo appoggiare un candidato anche se crediamo in dei valori molto precisi come lei ha ricordato».
Visto che è un appassionato di calcio, però può dirci per chi tiferà oggi?
«La Germania forse ha più talento. Ma l’Italia da sempre sa come batterla. Quindi punto sull’Italia, è una squadra che statisticamente è capace di gestire questi momenti. Però lo confesso: è l’Islanda che mi ha davvero colpito».
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GLI SCOPI
Studiamo sistemi in grado di leggere una radiografia, prevedere comportamenti, risolvere questioni sul riscaldamento globale
LA PRIVACY
È un problema molto sentito da voi in Europa. Sarà possibile gestire i dati sensibili con un semplice comando vocale
LE TASSE
Ci piacerebbe una regolamentazione internazionale su questa materia. Noi rispettiamo le leggi dei vari paesi
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CEO DI GOOGLE
Sundar Pichai, classe 1972, è l’amministratore delegato di Google dall’ottobre 2015 Si è laureato in ingegneria dei metalli in India Sopra, la sede di Google a Mountain View
FOTO: © RAMAK FAZEL
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La tecnica andrebbe sempre governata dalla politica, quella buona, che si preoccupa del benessere degli individui. La tecnica, lasciata a se stessa, ha sì procurato dei miglioramenti innegabili per la vita di tutti i giorni, ma ha anche dato a milioni di uomini incertezza per il domani, povertà, sradicamento dal proprio lavoro che, quando c’è, è in forme assolutamente precarie, disperazione, assoluta incertezza per il futuro.
Più che mai questi colossi, che hanno poteri enormi , dovrebbero essere guidati o controllati da una politica mondiale all’altezza della situazione, che abbia il mandato e il fine del benessere di ogni uomo e di ogni paese.