Anziani e malati terminali
Bianca
Oggi, invece di raccontarvi la mia storia di malata mentale come avevo promesso, vorrei condurvi in un altro sentiero perché mi è più facile, e vivo, parlarvi di quanto mi accade in questo periodo. Sono colpita dalla somiglianza tra la nostra situazione, quella dei malati di mente, e quella delle persone anziane in prossimità della morte, che spesso devono ricorrere al delirio per non morire di colpo “di crepacuore”, come si diceva una volta. Dovrebbero affrontare un abisso orrendo, la loro realtà attuale, luogo in cui l’essere umano non può guardare senza smarrire il senno. Per questo, la natura, in tanti casi amica, ci ha offerto la possibilità e il diritto di delirare. Che sia una necessità dell’essere umano per sopravvivere, non vuol dire che delirare possa essere compreso e accettato da chi ti sta intorno, anche il più amoroso. Se ogni tanto divaghi dal solco dritto dell’aratro, sei già una persona “fuori”, dovrei dire “scema”, tanto è vero che davanti a te si può parlare di tutto come fossi invisibile, “tanto non capisce”, “non si rende conto di niente”- dicono medici e parenti.
Assisto alcune ore al giorno una parente di quasi novant’anni che chiamerò Bianca (è bella e bianca e rosa, in verità), costretta a letto immobile mentre fino a pochi mesi fa la sua vita era andare “in giandezu”, come si dice qui, nella Liguria di Ponente, dove lei ed io siamo nate, ossia passare il tempo a divertirsi andando in giro con gli amici. Lei mi racconta quasi tutto il tempo di viaggi che ha fatto ieri o che sta facendo oggi, di gite nell’entroterra a mangiare nelle varie osterie caratteristiche e delira che con lei, che ora vive sola con le badanti, completamente isolata dall’esterno nonostante le visite costanti dei parenti, ora c’è quella persona, ora quel gruppo di amici… descrive le strade che quel mattino percorre nel sud della sua Provenza, a noi così vicina, dove aveva abitudine andare tutti i fine settimana quando era vivo il marito, oppure alla sera la sento ricevere nella sua bellissima casa un gruppo di amici, e chiedere all’aria alzando le mani verso qualcuno che le starebbe di fronte, sempre con gli occhi chiusi persa nel suo sogno: “Volete un martini? No, un porto? Sì, è meglio, lo preferisco anch’io. Prendo i salatini. Eccomi.”
Viene tutti i giorni a visitarla (sempre nel delirio) un bambino che abita vicino a lei, così mi dice, che è sempre senza soldi e che se lei non gli dà qualcosa, qualche soldino, se lo prende da solo. Questo bambino è diventato un’abitudine anche per me. Ha difficoltà a dargli un nome, ma a tutti i costi vuole darglielo: le ho suggerito “Ninetto”, come lei chiamava affettuosamente il marito, ma non va bene, “Nino era Nino”, mi dice. Così ogni giorno siamo a ricercare qualcosa adatto a quel bel visetto che le fa tanta tenerezza. C’è voluto un mese per trovarlo, ma adesso si sa ed è “Romano”.
I medici parlano genericamente di demenza senile: demenza, certo, sicuramente si tratta di un’alterazione biochimica del cervello, ma so che se lei non vaneggiasse in questo modo, la sua mente e il suo corpo non potrebbero sopportare il supplizio della malattia e dell’abbandono, della solitudine fisica in quel lettino, con le sbarre per non cadere, chiusa in casa quando lei ha sempre amato vivere nel sole e nel vento insieme agli altri. Una donna sempre allegra, piena di vita e di amore per tutti, oggi prigioniera di un letto da ospedale per poterla muoverla perché da sola non può, con una grande difficoltà a parlare con gli altri, soprattutto a farsi capire, che si accentua ogni giorno di più rendendo quasi impossibile darle ad ogni momento quanto desidera o seguirla nel suo vagabondare di pensieri irreali. Questo modo di parlare non segue una linea costante, varia non tanto da giorno a giorno, ma a periodi: magari sta due o tre giorni che si fa capire abbastanza, altre volte meno. La sua voglia di esprimersi e farsi capire è “terribile”, nel senso che si rimane stupiti ed ammirati di tanta lotta per non perdere il rapporto con gli altri, così come siamo incantati dalla sua straordinaria voglia di vivere.
Se non fosse così, se non delirasse di svaghi e gite, di tanti amici che vengono a visitarla, morirebbe di ” crepacuore “, di qualcosa che chiamo così, e che non so descrivere, ma è una cosa terribile: l’ultima volta che ho avuto il delirio temevo ad ogni istante che mi venisse un infarto, tanto era il dolore, anche fisico, che mi dava lo stato in cui mi trovavo. Ecco, forse, senza il delirio Bianca morirebbe all’istante sentendo un dolore impossibile da vivere.
A riprova di quanto racconto, come se dovesse mai essercene bisogno per fare due parole tra di noi,, in un giorno di lucidà mi ha detto con grande chiarezza, quasi vedesse qualcosa a me ancora preclusa:
” Chiara, la vita è proprio una grande fregatura.”
A mio parere, in quei momenti, che a volte sono lunghi periodi, la paura e il panico sono altissimi. E’ il buio che ci sta davanti, lo sconosciuto per eccellenza che solo può essere, dopo la nascita, la morte. E’ questo è stato così per lei, anche se sempre pregava Gesù, o meglio, come diceva lei, ” gli parlava “, come solo si fa ad un amico intimo.
Oso dire che, nel suo stato di salute, sono questi vaneggiamenti che le hanno permesso di aspettare che l’organismo si deteriori fino al punto di morire. Se il cuore non si ferma non possiamo morire, ma come fare ad aspettare fin là? Sono convinta che la natura ci viene incontro con questa precisa risorsa che è il delirio.
Il clinico che la segue parla di mancanza della micro-circolazione cerebrale e certamente è così, come così era per me: infatti, un’alterazione biochimica ha certamente accompagnato le mie crisi (altrimenti nessuna medicina avrebbe potuta fare effetto), ma la specifica forma che prende il delirio di Bianca “ha un senso solo per lei”, nasce in lei dalla sua storia come, dalla mia storia, nasceva il bisogno di una ricerca di cura più efficace per gli psicotici. Sulla mia pelle avevo verificato nella prima crisi che quel beneficio, poco o tanto, che ottenevo con le cure farmacologiche, mi costava sofferenze tali che mai potrò descrivere. Da ragazzina avevo osservato il delirare di mia nonna Chiara, meno costante di quello di mia zia Bianca, e meno solido, perché lei dopo pochi minuti se ne accorgeva subito e ci diceva in dialetto: “Ah, mi sò andaita pi gevi”, per caso traducendo in dialetto l’origine della parola “delirio” che significa “allontanarsi dal solco” o, come diciamo oggi “andare fuori strada”.
una nuova edizione, guardate se vi piace…
Carolina- Chico Buarque
Carolina, nos seus olhos fundos
Guarda tanta dor, a dor de todo esse mundo
Eu já lhe expliquei que não vai dar
Seu pranto não vai nada ajudar
Eu já convidei para dançar
É hora, já sei, de aproveitar
Lá fora, amor, uma rosa nasceu
Todo mundo sambou, uma estrela caiu
Eu bem que mostrei sorrindo
Pela janela, ói que lindo
Mas Carolina não viu
Carolina, nos teus olhos tristes
Guarda tanto amor, o amor que já não existe
Eu bem que avisei vai acabar
De tudo lhe dei para aceitar
Mil versos cantei pra lhe agradar
Agora não sei como explicar
Lá fora, amor, uma rosa morreu
Uma festa acabou, nosso barco partiu
Eu bem que mostrei a ela
O tempo passou na janela
Só Carolina não viu
Eu bem que mostrei a ela
O tempo passou na janela
Só Carolina não viu
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Una risposta a Anziani e malati terminali
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Antonio scrive:
19 giugno 2014 alle 22:40 (Modifica)
Mi piacerebbe avere la traduzione di “Carolina” in lingua italiana, ma in metrica , affinchè io possa cantarla, anche con un’ altra musica da me composta.
Sul “diritto di delirare”: io penso che per tutti (forse per gli anziani in particolari condizioni di fragilità) questo diritto corrisponda a “fantasticare”, “creare poeticamente”, avere visioni, ma anche a replicare e fissare ricordi, memorie e immagini di un tempo reale e felice.
I miei nonni materni sono morti quando ero bambino, i miei nonni paterni sono morti quando erano giovani: di loro non so nulla.
Mia madre è morta a 90 anni: per anni ha sofferto di una sindrome allucinatoria paranoide, che la costringeva in un continuo infelice delirio; con il Serenase finalmente era cambiata, uscendo dal suo isolamento. Negli ultimi anni riconosceva e accettava figlie, figli, nipoti, mangiava, ascoltava, rideva.