H. Bosch, Il giardino delle delizie—dettaglio
I ricordi entrano dagli occhi.
Alcuni si nascondono nelle pieghe del viso, si accumulano fino a scavare solchi intorno alla bocca o in mezzo alla fronte, altri si perdono in qualche tornante del cervello oppure scivolano fino al ventre e là si insediano, gonfiando il fegato e l’intestino.
Altri ancora si fermano sugli occhi, intorno alle ciglia, nell’iride ed è sufficiente sbattere le palpebre per rivederli intatti, per entrare nella stanza del passato, ora, e dire «sono qui, mi aspettavate, lo so».
«Sono qui » e tutto si delinea intorno a me adolescente. Un fuoco nella memoria, una luce violenta che riempiva la casa come se nessuno fosse stato capace di tenerla fuori, di contenerla, di impedirle di entrare così a raffiche in ogni stanza. Tutte le cose parevano restare ferme al loro posto in attesa che il raggio passasse di lì per accarezzarle. La luce e la voce di mia madre si univano in un unico colore verde-azzurro che girava per la casa portando ordine e impegno. «La vasca è pronta» diceva, mentre ancora si sentiva scorrere l’acqua del bagno.
Non mi decidevo ad alzarmi, forse erano i primi giorni delle vacanze estive e potevo stare a letto più a lungo per recuperare le fatiche scolastiche. La vasca era per mia nonna che faceva il bagno per la prima volta dopo la sua lunga malattia. C’era un gran via vai di asciugamani, di finestre e porte chiuse e un’aria tesa come se dovesse accadere qualcosa di straordinario. Poi l’acqua si fermò, le voci tacquero e io mi alzai.
Avvicinandomi alla porta del bagno mi accorsi che era solo accostata, la spinsi un po’ e guardai.
Mia madre si era spostata dalla parte più lunga della vasca, teneva la nonna per le braccia e piano piano la lasciava cadere nell’acqua. Era tutta rosa con le pieghe sode a gnocchetti sulle cosce. Era grande e grossa, a onde gonfie, con due fossette alte prima delle grandi rotondità.
Fece tre urletti, prima dell’atterraggio finale, finché un sussulto generale accompagnò il corpo e la vasca intera. Era riuscita a sedersi nell’acqua.
Si copriva con la mano le punte dei seni e mia madre per allontanare l’imbarazzo le parlava del giardino, dell’erba da tagliare nel prato del melograno, della duconda da stendere e intanto la insaponava. Era bianca e pudica come una bambina o di più, perché a me piaceva mostrare le punte che crescevano, lei invece ero vergognosa di tutto, del suo corpo e del bisogno di farsi lavare.
« Sei ingrassata Ma, ti sei ripresa bene, devi sempre mangiare così. Sembri una ragazza ».
Sorrideva come per dire “Lascia stare che è meglio, quando era una ragazza era un’altra cosa”. La mano era sempre schiacciata sul seno finché cominciò a lavarsi un po’ da sola e dimenticandosene scoprì i capezzoli chiari e piccoli, ma non piccolissimi. Vergini, così parevano.
Mia madre la guardò come incantata, sospese il movimento delle mani sul corpo e smise di parlare. Il mio sguardo si fermò su di lei e poi ancora su quella parte proibita.
Subito mi venne alla mente il latte, l’odore dei neonati e la dolcezza dell’allattamento. Non era rimasta alcuna traccia di tutto il resto. Di tutti quei figli, dell’animalità della cosa, della fatica, della voglia di scappare. Nulla. Solo due agnellini attaccati al seno materno.
Il lavaggio si concluse in fretta, ma l’uscita dalla vasca fu una vera scalata. Fecero molte prove prima di decidere la posizione migliore.
Non riusciva a sollevarsi neppure un po’ per quanto puntasse i piedi sull’asciugamano steso sul fondo della vasca. Allora mia madre la prese sotto le ascelle e spingendo le ginocchia contro il bordo la fece ruotare di fianco e riuscì a metterla sui piedi, e poi piano con molti sospiri le raddrizzò le gambe e infine il corpo.
Ad un tratto sentii qualcuno che saliva per le scale, corsi in camera, mi infilai nel letto e finsi di dormire.
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