IL TESTO INTERO CHE SEGUE, A NOSTRO PARERE “MOLTO BUONO”, E’ TRATTO INTERAMENTE DAL BLOG DI SALVATORE LO LEGGIO DI CUI IL LINK SOTTO:
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senza-causa-nellamerica.html
9.2.13
Fu un ribelle senza causa nell’America del generale Ike
JAMES DEAN
di Gianfranco Corsini (notizie sotto)
«Vivi in fretta, muori giovane e lascia un bel cadavere» soleva dire James Dean. Era una battuta tratta da I bassifondi di San Franciscodiretto dal suo primo regista Nicholas Ray, ed ha rispettato almeno le due prime regole della formula quando è andato a schiacciarsi, con la sua Porsche Spyder, contro una Ford Sedan dopo avere appena pagato una contravvenzione per eccesso di velocità. Aveva ventiquattro anni.
E tuttavia in meno di un lustro questo ragazzo del Middle West, approdato giovanissimo all’Actor’s Studio di New York, aveva conquistato di colpo Broadway e Hollywood fino a diventare oggetto di culto per una intera generazione. Chi è nato dopo il 1940 probabilmente ha difficoltà a comprendere il mito di James Dean poiché per una serie di curiose circostanze questo giovane attore si è trovato ad impersonare contemporaneamente, sullo schermo e nella vita, la crisi della gioventù americana nel problematico decennio della cosiddetta «era di Eisenhower».
Erano gli anni in cui il maccartismo sparava le sue ultime salve mentre il cannone sparava in Corea; erano gli anni del «benessere» e della «generazione silenziosa» in un mondo che usciva dal secondo conflitto mondiale e già era piombato nella guerra fredda. Gli Stati Uniti uscivano dalla lunga stagione del New Deal per entrare in una terra ancora incognita alla quale Kennedy – sei anni dopo la morte di Dean – avrebbe cercato di indicare l’obiettivo di una «nuova frontiera».
Il sociologo David Riesman aveva radiografato la nazione all’inizio del decennio scrivendo La folla solitaria e gli americani, ancora paralizzati dalla grande paura della caccia alle streghe, stentavano a riconoscere la loro identità. Di questa crisi di coscienza portava il peso la prima generazione maturata nel dopoguerra che James Dean aveva rappresentato a Broadway, nel suo esordio, impersonando un adolescente che entra in conflitto con i valori della famiglia.
Per nascita e formazione l’attore apparteneva a quella categoria di giovani che più tardi lo psicologo Kenneth Keniston ha definito gliuncommitted, i disimpegnati, ma nel suo secondo film aveva spostato l’accento sulla frangia estrema dei «ribelli senza una causa» o, come vuole il titolo italiano, sulla «gioventà bruciata». È questo ruolo che, più di ogni altro, ha portato una parte del suo pubblico giovane a identificarsi con lui così come, due anni prima, si era identificato con Il selvaggio di Marion Brando. Quest’ultimo, molti anni dopo, avrebbe contemplato l’idea di fare da narratore in un documentario su James Dean «magari come forma di espiazione» per il suo peccato cinematografico del 1953.
Si direbbe che l’esperienza di Rebels Without a Cause abbia modellato, in un certo senso, i comportamenti privati di James Dean nel breve e intenso periodo nel quale sembrava continuamente imitare la spericolata esperienza del «Chickie run», la corsa pazza delle macchine sul ciglio di un abisso che nel film ha una tragica conclusione. I motori, la velocità e il rischio costituiscono infatti una delle costanti della vita di Dean nei brevi anni in cui dalla Mg e dalla Porsche era passato alle macchine da corsa sui circuiti di gara, si faceva fotografare in una bara, teneva una Colt nel suo camerino, un modellino di forca nella camera d’albergo e indulgeva nelle più stravaganti esperienze sessuali, secondo la rievocazione di Kenneth Anger. Oggi, retrospettivamente, i personaggi e la vita di James Dean ci appaiono non solo emblematici di quell’epoca ma anche premonitori di ciò che sarebbe avvenuto in altre forme negli anni Sessanta. Nasceva una controcultura che si esprimeva attraverso varie forme di contrapposizione al conformismo degli «squares» – i benpensanti uomini d’ordine – e se da un lato c’erano i «ribelli» dall’altro c’erano i «beats» che sarebbero confluiti poi nel «movimento» animato più tardi dalla guerra del Vietnam e dalle lotte per i diritti civili, ma da queste anche frantumato in mille spezzoni.
Nei tre film di Dean sono presenti tutti i temi del suo tempo ed oggi, ad esempio, Il gigante può essere visto anche come l’antenato di Dallas, così come il cow-boy su quattro ruote in mezzo ai pozzi di petrolio appare sempre più chiaramente come la metafora del cambiamento che stava avvenendo in America e, al tempo stesso, il simbolo dell’americano che continua a dominare il suo ambiente come l’uomo di Marlboro.
Per qualche anno il culto dell’attore scomparso è stato celebrato nei «club della morte James Dean» al lume di candela con musica di Wagner, ma gli uomini con i quali ha lavorato e che avevano scritto e diretto i suoi film appartenevano ancora alla generazione rooseveltiana e a loro modo hanno dato anche una forte carica critica a queste storie di ribelli in un’epoca di conformismo e di acquiescenza. Se cerchiamo di rivederli nel contesto del loro tempo i film e la figura di James Dean possono dunque aiutarci anche a capire meglio lo spirito di quegli anni, le ansie della nazione e, soprattutto, i turbamenti di quella generazione.
Molto tempo dopo Easy Rider ha chiuso con ironia l’epoca di The Wild One e di Rebels Without a Cause ma non bisogna dimenticare che James Dean aveva esordito anche con East of Eden, tratto dal romanzo di Steinbeck, e che proprio per questo ruolo era stato nominato per l’Oscar. Giudicarlo dall’uso che si è fatto della sua vita e dal culto che si è creato attorno alla sua figura, soprattutto dopo la sua morte, non renderebbe giustizia alle sue qualità di attore che restano affidate anche ai numerosi drammi televisivi, in diretta, da lui interpretati insieme ai più grandi attori del teatro e del cinema americano dell’ultimo mezzo secolo.
Nota biografica
James Byron Dean era nato a Fairmount, nell’Indiana, l’8 febbraio del 1931, figlio unico di Winton Dean e di Mil-dread Wilson, la madre poi morta di cancro quando James aveva appena nove anni. A18 anni, seguendo il padre a Los Angeles, il giovane Dean cercò inutilmente di intraprendere la carriera di attore a Hollywood, quindi lasciò la California per New York. Qui fu ammesso all’Actor’s Studio, diretta da Lee Strasberg, con Elia Kazan fra i suoi professori. Fu proprio Kazan a spianargli la strada di Hollywood preferendolo a Paul Newman come protagonista di La valle dell’Eden (1954). Un anno più tardi Dean, ormai conteso da registi e produttori, interpretò a fianco di Nathalie WoodGioventù Bruciata di Nicholas Ray. All’epoca si era già chiusa la sua love-story con l’attrice italiana Annamaria Pierangeli. Dean si sarebbe innamorato ancora, di Liz Taylor, una storia nata sul set de Il gigante, diretto da George Stevens. Ma l’attore non sarebbe riuscito a terminare il film. Il 30 settembre del ’55, mentre guidava la sua Porsche argentata, all’incrocio fra la «highway» 466 e la 41 una Ford gli tagliò la strada. Dean andava a 160 all’ora, frenare fu inutile; lo schianto lo uccise sul colpo.
“l’Unità”, 30 settembre 1990
Pubblicato da Salvatore Lo Leggio a 22:22
Gianfranco Corsini ( 1921 – 2010) —interpreta il ruolo del partigiano Marco nel film “Paisà”; ha insegnato letteratura nordamericana all’Università di Salerno; nel ’65 si trasferisce in America come corrispondente di Rinascita. Successivamente è stato corrispondente estero di Paese sera, l’Unità e il Manifesto.
- America allo specchio, Bari, Laterza, 1960
- La grande crisi americana: dalla guerra del Vietnam allo scandalo Watergate, prefazione di Franco Ferrarotti, Roma, Il rinnovamento, 1974
- L’ istituzione letteraria, Napoli, Liguori, 1974
- America, duecento anni dopo, prefazione di Gore Vidal, Roma, Editori Riuniti, 1975
Per il capitolo ” Non c’entra niente”: la poesia di mio fratello, quella su quei due poveri e drammatici personaggi morti per droga, è stata fatta tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Uno dei due mio papà lo conosceva: era stato un croupier eccezionale ( non è per niente facile fare quel mestiere, perché occorre una prontezza e una lucidità straordinaria nell’immediato), si era ammalato non so di che cosa e la morfina che gli somministravano in clinica lo aveva assuefatto. Aveva ripreso a lavorare ma ormai era “drogato”. I suoi colleghi di lavoro, che lo stimavano molto, avevano fatto una colletta per una cura disintossicante. Non so quali fossero allora i mezzi di cura, ma sicuramente se ne parlava in modo impressionante: il malato veniva rinchiuso in una stanza dove, prevedendo le sue crisi di astinenza, le pareti erano imbottite per attenuare il male che si poteva procurare sbattendo contro di esse. Uscito da questa terribile esperienza ma abbandonato dalla famiglia ( aveva moglie e figli), purtroppo non si riprese più. Viveva vendendo tutto quello che poteva racimolare. Al mattino presto veniva nella bottega di mio papà con un rotocalco un po’ stropicciato che prendeva chissà dove, mio papà gli dava 50 lire e lui metteva sul banco il giornale. Il rotocalco e lui erano spiegazzati allo stesso modo. Mio papà dovette sopportare per tutto il tempo che durò questo scambio le ironie dei negozianti vicini e, se ricordo bene, anche quelle di mia mamma. La tragedia si concluse in tono minore: l’ex-croupier e un altro drogato ( due barboni che, si fa per dire, avevano fatto sodalizio in quel deserto umano di sofferenza) furono trovati morti non so da chi nella stamberga che occupavano nella città vecchia ( avevano venduto anche le grondaie della casa per racimolare qualcosa) riversi su un pagliericcio, già freddi e immersi in una morte che forse era stata l’unica loro amica. Quella fine orribile per solitudine, miseria, sofferenza, degrado e ipocrisia del mondo, fece molto effetto, anche se era stata annunciata da mesi, se non da anni. La droga era apparsa a tutta la città nel suo aspetto orribile di alienazione e di morte. In seguito sarebbe diventata piano piano uno spettacolo quasi normale nei vicoli degradati della città vecchia, dove si sopravviveva in qualche modo alla miseria, all’abbandono, al freddo dell’inverno, al male della vita per gli esclusi. Nel sonetto mio fratello tratta e sintetizza delicatamente il dolore di quei poveri esseri umani, indifesi dal gelo, dall’indifferenza, dalla disumanità mettendolo a confronto con la sfrontatezza e la bestialità dello spacciatore, che può rientrare a testa alta nella società “perbene”, simboleggiata dalla città nuova.
sarebbe bella una tua rubrica : per il capitolo “non c’entra niente”, o anche da solo…mi piacerebbe intero anche “aggiustandolo”, proprio come hai scritto tu, verrebbe benissimo per come sei curiosa di tutto…ciao, sono la chiara