14:43 un essere umano, una ” persona “, ridotta a “cosa”. Dal IV capitolo del famoso ” libro che non c’è ” di chiara salvini

 

 

 

da anni tengo questa scatola vicino perché da sempre mi è sembrata la visualizzazione di una persona ridotta a “pacchetto”. E in più è bella da vedere. Come dire: ” Mi guardo in uno specchio nobile”…Nella realtà, un essere umano o animale “usato come pacchetto”, un mobiletto di casa o di ufficio, è una cosa ” ignobile” . Vorrei poter dire : ” lurida”.

 

—il quadro è di bardelli, ”  grande scatola in un interno “, 2002, olio su tela, 70×100 cm.—

 

 

 

 

capitolo 4

 

 

 

4.  1

 

 

 

 

E’ stato tutto la frazione di un secondo.

 

Sull’ambulanza mi hanno legato, gridavo di liberarmi ma non ascoltavano.

Sono rimasta legata per tre ore perché non si trovava posto in nessun ospedale di Milano.

 

Gli infermieri parlavano nel microfono dell’auto a voce alta, arrivava un’altra voce, poi i suoni striduli metallici dell’apparecchio, rimbombanti come quelli di un vecchio registratore in disuso.

 

Questi suoni si sono registrati nella mia mente insieme alla rappresentazione di esseri umani come me, lì accanto a me, alla portata del mio braccio, che non poteva raggiungerli.

 

La mia voce adesso urlava, convinta com’ero che non era possibile che non mi soccorressero, perché nel mio piccolo universo un fatto simile “non poteva accadere”.

E’ istintivo gridare per chiedere soccorso, tutti lo facciamo e tutti ci aspettiamo una risposta: è successo così da quando siamo nati, il mondo va così. E’ accertato. Mia madre una volta si è rovesciata nella vasca sotto un getto forte di acqua bollente: ha gridato e il suo grido non era un suono umano.

Se quel grido non fosse stato ascoltato, se avesse continuato così per ore e ore: solo chi non sa pensa che la pazzia che si sta approssimando quasi vicina alla tua mente, faccia meno male di un getto di acqua bollente.

 

 

 

Quando mi hanno finalmente depositato a terra, la mia testa era andata insieme come la maionese.

 

“Liberamente insieme”, dico io.

 

E spiego perché.

 

 

 

Al primo terapeuta, cui ero ricorsa nel ’75 per una depressione peggiore delle altre, aggravata da attacchi di panico, ho detto, fin dalla prima seduta, con molta angoscia, di trovarmi davanti ad un abisso pronto ad inghiottirmi.

 

Vedo ancora nitida quella voragine, un enorme buco nero che mi si parava davanti, proprio sotto i miei piedi.

 

Ho scoperto in seguito che a questa immagine, che mi accompagnava giorno e notte, avrei dovuto dare ascolto perché si trattava di un presentimento.

 

Se, allora, ne fossi stata capace.

 

Allora non potevo e non sapevo: solo dopo tanti anni di terapia psicoanalitica ho imparato a capire i segnali che il corpo e la mente ti mandano per aiutarti. E, ancora di più, ho dovuto capire che vanno ascoltati.

 

 

 

Al mio panico, lo psicologo rispondeva che se avessi avuto il coraggio di fare un salto sull’abisso:

 

/Dopo

 

sarei stata libera/

 

 

 

E libera sono arrivata all’ospedale di Parabiago:

 

libera

 

e

senza più angoscia

 

perché ormai

quell’abisso

che prima mi stava davanti

adesso

ero io.

 

 

 

Il sentimento che ti prende allora è l’orrore.

 

 

 

 

Un ragazzo che era sull’ambulanza, uno studente di medicina che faceva tirocinio, il giorno dopo è venuto a trovarmi con la sua ragazza e mi ha portato dei fiori.

 

Mi ha detto che gli facevo una gran pena, ma che non ha potuto fare niente.

 

Non l’ho mai più rivisto

 

ma il mio cuore è ancora pieno di

gratitudine per lui

per la sua gentilezza.

 

 

 

Arrivando di notte all’ospedale non ho trovato nessuno ad aspettarmi.

 

 

Ero…

 

non lo so dire com’ero.

 

Ma

ancora lucida e calma

più probabilmente senza forze di tanto gridare.

 

La crisi è arrivata solo il mattino seguente.

 

A quell’ora di notte c’era una luce in una specie di cucinino, ma tutto il resto era buio:  un grande silenzio come solo si prova in un grande spazio addormentato.

 

Ho girato per l’ospedale, intravedevo le camerate aperte, i pazienti immobili anche quando svegli.

 

Non potevo non pensare a quello che avevo letto negli scritti di Basaglia:

 

erano donne

 

“pacchetti”

 

proprio come mi sarei sentita

io

per sempre

dopo l’esperienza di quella notte.

 

 

Una persona che grida per tre ore

un dolore che

per

tre

ore

rimane

oltre

ogni tuo limite

 

 

senza essere soccorsa

da persone che pure ti stanno accanto

 

 

succede che

 

 

tu persona

ti riduci

lentamente

istante dopo istante

ad un pacchetto

 

 

da alzare mollare spingere trasportare

come un qualunque altro oggetto.

 

 

Pensato insensibile

come qualunque altro oggetto.

 

 

Non più essere umano

 

perché

 

il tuo linguaggio

 

non serve più

 

per comunicare

 

ma

 

è solo sfogo di energie.

 

 

gli altri

sentono il bisogno di comunicare con te.

 

 

 

NON SERVE.

 

Possono usare le mani.

 

 

E le medicine.

 

 

 


4.  2

 

 

 

 

 

Al mattino tutto si è animato come per una gran festa.

 

L’ospedale mi sembrava un’enorme città chiusa da mura.

 

Un castello.

Separato dal resto del mondo.

 

Che mi isolava da quanto mi era accaduto.

 

Quasi fossi arrivata nella terra di nessuno.

 

Una terra neutra.

 

E questa sua funzione di silenzio era positiva.

 

 

Un via vai di folla andava da una parte all’altra parlando forte, parlando piano, gridando, gesticolando e animandosi; altri passavano come immagini chiuse senza fermarsi e senza parlare con nessuno.

Le infermiere, erano solo donne, stavano sedute in uno sgabbiotto ad un lato della grande stanza e ci guardavano chiacchierando tra di loro: solo a volte si alzavano per sgridare o uno o l’altro o per soccorrere, ma in generale si tenevano isolate da noi.

 

Tranquille, non interferivano.

 

La mia impressione verso di loro è stata subito benevola.

Mi hanno sempre trattato molto bene, almeno le poche volte che capitavo a tiro di qualcuna di loro.

 

Ero in mezzo ad un enorme città sconosciuta

inimmaginabile prima di averla vista

 

che fosse lì

nel cuore della città

legittima come piazza Duomo

 

tutti sapevano

tutti non sapevano

 

ma non mi sentivo persa.

 

 

Tutti mi parlavano e lo facevano con gentilezza. Un’inserviente mi sgridava perché lasciavo sempre la borsa per terra da una parte e dall’altra: mi diceva che così non si sarebbe mai riempita di soldi. Questa frase la ripeto ancora oggi a mia figlia.

 

Anche se il trapasso era stato terrificante

ero approdata in un ambiente dove potevo stare bene.

 

Così mi sembrava a tratti

anche se

il panico che mi dominava in altri

era un’angoscia annichilente

 

che

mi faceva piegare in due

rigirata nei miei stracci

 

 

per un dolore così “preciso” da non saperlo condividere in parole.

 

 

Si è fatto di nuovo vivo solo nelle altre crisi.

 

E’ il dolore caratteristico della mente

che diventa pazza.

 

 

 

Una mente sospesa.

In bilico.

 

Un abisso.

 

Ti senti chiamato

e insieme proteso.

 

Nonostante l’orrore.

 

Un buio spettrale, un universo fatto di lampi, un’aria rossastra senza consistenza dove ti diluisci quasi fossi un vapore acido.

 

Ma sono sensazioni irrapresentabili.

 

 

 

Un paziente anziano, Vincenzo, aveva il nome di mio padre e di mio nonno, si era subito legato a me ed io a lui.

 

Il mio problema era vedere il terapeuta, mi ero innamorata, quei caratteristici amori delle terapie mal condotte che ti portano alla “follia d’amore”.

 

Lui era sparito e nessuno riusciva a trovarlo, la segreteria telefonica diceva che era a Londra, anche se mia sorella l’ha poi trovato a Milano. Era evidentemente spaventato dalla telefonata dell’ospedale cui avevo riferito il suo nome.

 

Vincenzo costruiva delle situazioni fantastiche, ogni giorno diverse, che rendevano imminente l’incontro.

 

Me lo prometteva

io ci credevo.

 

Ogni giorno.

 

Forse era già molto vecchio.

Forse ero giovane io.

 

Lo vedo venirmi incontro al mattino

elegante nel suo vestito nero

la camicia bianca

 

a piccoli passi leggermente saltellanti

 

“paciocco” e affettuoso.

 

Serio, scuro, e con gli occhi ridenti rivolti a me.

 

Avevo trovato tutto insieme un papà e un nonno

e mi ci aggrappavo

 

e lui a me

al mio affetto per lui

e al mio entusiasmo.

 

Ci tenevamo le mani strette strette mentre ci parlavamo.

Il nostro era ogni giorno un appuntamento d’amore.

 

 

Non potevo mangiare

quello che

 

avevo nel piatto diventava di colpo vivo.

 

Mi era successo la prima volta che sono capitata in mensa: era un pezzo di coniglio.

 

Sono scappata dall’orrore.

 

Perché, lì com’era, nel piatto, scuro di sugo, ha dato una specie di guizzo.

 

Una serie di allucinazioni, evidentemente.

 

In questo universo sottosopra

 

erano i morti a vivere.

 

 

 

Ma un giorno

per caso

 

sono scena in giardino

un giardino grande con tanti alberi e prati

 

era primavera

era maggio

 

e in quell’aria bella

ho trovato

la mia casa.

 

Un grande bar.

Il juke-box.

Un panino di mortadella

che

ascoltando la musica

potevo mangiare.

 

E una signora che me lo porgeva sempre divertita dalle mie uscite.

 

La “mia” canzone, quella del mio grande amore, era, per chi se la ricorda: “Sai che bevo, sai che fumo, sai che gioco anche con l’amor”. Non mi stancavo di ascoltarla, ogni volta erano percezioni nuove, quell’amante screanzato e arrogante ero io, era il terapeuta, eravamo noi quegli amanti che avevano tutto il mondo nelle mani; e poi, di nuovo, ero io, era lui, eravamo noi, all’infinito. Avevo uno straordinario bisogno di sognare e di ripetere il mio sogno.

 

Quella di fabbricarmi famiglie era, del resto, sempre stata la mia specialità.

 

Nella ragazza che subito mi sorrideva e mi porgeva il panino, avevo ritrovato non una mamma, ma una di quelle ragazze che lavoravano in casa e con cui stavo da bambina.

 

 

L’ospedale è una di quelle occasioni in cui, di una famiglia anche solo immaginata, hai assolutamente bisogno perché una crisi è sempre stata per me l’occasione di rivivere un abbandono antico, infinito come infinito è il nostro sentire infantile. Le emozioni, allora, sono passioni che ci travolgono e la passione dell’abbandono, se così si può chiamare, quando si prolunga nel tempo, ci rende sottili come un foglio

bianco

che non ha carne per vivere.

 

Anche adesso, dopo tanti anni, quando giro per Sanremo da sola per un certo tempo, mi prende una leggera forma d’angoscia, un senso di tristezza, un bisogno di piangere per qualcosa lontano  che ancora grida dalle parti inaccessibili della mente. Quello che mi arriva alla coscienza, in verità, ha un nome preciso: ” Desolazione “.

 


4.  3

 

 

La mia festa di nozze l’ho vissuta, anticipatamente, lì, in ospedale a Parabiago. Quando mi sono sposata, infatti (era il 1980, allora abitavo in Brasile, a San Paulo), ho preso un tailleur scuro dall’armadio e siamo andati in Comune.

 

Ma il delirio mi ha regalato un giorno da sposa, che forse si nascondeva tra i miei desideri più inconsci.

Nei miei come in quelli di tutte le ragazze dagli inizi del mondo, ma oggi penso che fosse nel cuore anche di quelle ragazze che, come me, avevano votato la loro vita al sogno di una società più giusta. Anche se ostentavamo la più assoluta insofferenza per questi “fronzoli borghesi”, una traccia vivida rimaneva.

 

Mia figlia Francesca, all’asilo, eravamo in Brasile, non aveva ancora tre anni, ha fatto la sposina campagnola nella festa di fine anno. Era una minutina cosa tutta veli e pizzi e ricami e incanto di fiori bianchi e scarpette di cristallo.

 

All’epoca della prima crisi, nel ’76, non sapevo ancora che un giorno avrei tenuto in braccio una tale felicità splendente come era lei quel giorno, ma il vestito che avevo in mente in ospedale per la mia festa di nozze era esattamente quello che lei portava con tanta grazia quel giorno di fine anno.

Non a caso l’avevo scelto io.

Per lei.

 

Quello che ho vissuto della cerimonia di nozze, a maggio, sui prati dell’ospedale, è stata solo l’attesa della cerimonia: la felicità di sposarmi con lo psicologo era imminente e la lunga preparazione della festa mi distraeva dal delirio scuro e mi rendeva felice.

Quello era un delirio luminoso come era il sole nel cielo, quel pomeriggio.

 

Ero in giardino e vedevo tanta gente salire verso un pianoro. Andavano a piccoli gruppi in una lenta processione. Tutte le immagini avevano un ritmo molto lento, quasi la mia nozione di tempo fosse solo emotiva, quello stato d’animo sospeso delle grandi attese. La sequenza dei colori era vari toni di rosa, quel rosa che, illuminato dal sole, diventa quasi bianco.

 

Forse qualcuno aveva colto dei fiori in giardino, erano così belli, ma io, come in sogno, un chiarore un po’ sfocato, vedevo i gruppetti portare su delle ghirlande, dei cerchi di bambù intrecciati di rose chiare, delle bacchette con dei nastri colorati che scivolavano quasi a terra. Non so perché, ma, nella mia ignoranza, mi sentivo partecipe di uno sposalizio nell’antica Creta. Avevo letto “Sinuhe l’egiziano” e, forse, la descrizione delle feste, che così tanto mi aveva colpito, mi forniva le immagini per questo momento del delirio, così come avviene dei sogni quando riviviamo pezzi di realtà che non ricordavamo più.

 

Era venuta a trovarmi una coppia di amici, era domenica, giorno di visita, forse per questo le persone ricoverate andavano per i prati a piccoli gruppi, insieme a parenti o amici. Forse qualcuno aveva portato dei fiori, ma questa realtà si trasfigurava in me per rappresentare quell’unione (con lo psicologo) che, in mancanza di parole appropriate, chiamerei “esperienza del divino”. Così nei sogni, i nostri desideri fabbricano infinite immagini che ci permettono di vivere una pienezza di felicità assoluta.

 

Questa mia carissima amica, la vedo come fosse oggi, soffriva talmente di sapermi così fuori dalla realtà che tutto il tempo ha tenuto un viso serissimo. Di angoscia, immagino.

E questo suo bel viso lo ricordo sia come una stonatura alla mia allegria sia come un richiamo alla realtà “fuori di me”, un dato forte che in quel momento rimaneva però fuori dalla mia portata.

 

Quel pomeriggio ha significato prendere contatto con una realtà ferma e decisa come è la mia amica, molto diversa dalla mia, troppo diversa dalla mia per avere un reale impatto su di me, ma  che, ciò nonostante, ha dato un leggero tintinnio alla mia mente richiamandomi al risveglio dal sogno.

Vorrei dire meglio : mi è arrivato un allarme, anche se lontanissimo, quasi inudibile.

 

E’ stato come dirmi: ” Tu gioisci tanto, ma questa in verità è una tragedia!”.

 

Questo messaggio per me, in pieno deliro, persa in un sogno (era il secondo giorno del ricovero), era troppo violento in quanto portatore di una realtà senza veli.

C’è voluto tempo.

 

La persona in delirio, infatti, ha estremamente bisogno di una realtà cui appigliarsi o, meglio, a cui agganciare la sua parte sana e darle forza, ma il dosaggio di questo messaggio deve essere altamente oculato.

Anzi, a volte, non deve proprio esserci per non procurare un trauma che porta la persona  indietro invece che avanti.

 

E’ difficile per un professionista, ma ancora più difficile per un famigliare, in genere senza strumenti, e che, inoltre, è naturalmente alterato emotivamente, perché ogni tuo familiare che si ammala mentalmente, in quanto “famigliare”, ti chiama direttamente in causa nella tua identità più profonda.

 

 

Ti chiedi insistentemente senza saperlo:

” Ma, tu, tu fratello, sei sano

o sei pazzo come lui?

Tu che hai i suoi stessi genitori.”

 

 

 

E tu

una risposta, sei obbligato a dartela perché il dubbio adesso è tuo.

 

Ma, nella realtà, questa esperienza del dubbio, può sfogarsi benissimo in agitazione, ansie varie, provvedimenti di tipo disciplinare, tipo ricovero coatto, oppure farmaci ad alto dosaggio, di cui il malato farebbe volentieri a meno perché, per lui, svegliarsi, dopo “la botta chimica”, diciamo così, vuol dire impiegare molto molto più tempo per avvicinarsi alla sua parte sana.

 

 

Mario, mio marito, che mi è stato accanto nelle crisi successive a questa, mi è stato enormemente utile perché quasi sempre, si limitava a dire, ascoltando i mie racconti in delirio:

 

“Ma sarà così?”.

 

All’inizio anche questo semplice dubbio, pur espresso molto pacatamente, mi infastidiva, mi urtava profondamente, ma piano piano questa frase è entrata nella mia testa perché

 

mi suggeriva:

 

“Quella che vedi forse non è l’unica realtà che esiste”.

 

 

In questo modo, oltre a starmi vicino in una maniera non ostile, apriva minuscoli spiragli nella graniticità tipica del delirio, fornendo un appoggio alla parte sana che, sempre, rimane in misure varie legata alla realtà. Questa parte osserva la parte malata con occhi dubbiosi perché la realtà, cui è ancora stretta, le impedisce di credere alla pazzia che è proprio lo stravolgimento di quei canoni comuni che chiamiamo “realtà” quando vogliamo separarla dalla fantasia.

 

Questi dubbi vanno approfonditi, i legami con la realtà rafforzati, procedendo però a minuscole gocce perché camminiamo in un terreno minato, totalmente sconosciuto anche al più esperto terapeuta, perché le variabili individuali sono infinite e ad ogni crisi diverse anche per la stessa persona. Il sangue e l’ossigeno che circolano nei nostri tessuti mentali infatti non è mai lo stesso.

 

 

 

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