ANTONELLO GUERRERA
“OGNI STORIA FAMILIARE è la decalcomania privata della storia contemporanea”. Herta Müller è tornata. In libreria, con un confessionale aspro e implacabile.
La mia patria era un seme di mela (Feltrinelli) è l’ultima, incantevole opera della sessantaduenne scrittrice premio Nobel per la letteratura. Un dialogo intimo, che intaglia le meste orme della sua vita antica, spremuta dalla feroce dittatura di Ceausescu, dalle tenebre del padre nazista, dai rimbombi del gulag sovietico che segregò per anni la madre. La quale, da allora, non ebbe più il coraggio di portare i capelli lunghi. Ma oggi Herta Müller torna anche in Italia, per la rassegna BookCity. Prima di arrivare a Milano però, dalla sua casa berlinese, concede a Repubblica una rara intervista. Dal dramma dei migranti all’egoismo dei paesi dell’Est, fino alla minaccia di Putin. La grande autrice rumeno-tedesca sinora non si era mai espressa su temi di più stringente e drammatica attualità. Questa volta vuole sfogare tutta la sua amarezza. Dopo una vita sfregiata dalla brutalità totalitarista del rosso e del nero, per Herta
Müller l’Europa non ha ancora imparato dai propri errori letali.
Signora Müller, “La mia patria era un seme di mela” è un commovente viaggio nel suo tormentato passato. Cosa ha provato nello scrivere questo libro? Forse un senso di liberazione?
«Assolutamente no. La libertà non è mai un mero sentimento, bensì un’esperienza quotidiana. Sicuramente, sotto la dittatura rumena, solo la scrittura mi ha dato sicurezza, stabilità. Perché, a differenza della vita di tutti i giorni in cui il regime ci annichiliva e riduceva a oggetti, lasciandoci la sessualità come unica libertà personale, io avevo a disposizione le parole. Ma scrivendo i dialoghi di questo libro, ho sentito ricrescere vigorosamente nel mio corpo quel passato agghiacciante. E non è stata affatto una bella esperienza. Per nulla liberatoria».
Lei scrive che la libertà in Occidente distrae i cittadini, i quali non la comprendono a pieno. Perché?
«La libertà, alla quale gli occidentali sono abituati da tempo, provoca una certa spensieratezza, in quanto molte cose diventano sempre più ovvie. Nella maggioranza dei paesi europei la libertà nasce dall’indipendenza dello Stato dalle pressioni politiche e dalla corruzione. Forse in Italia le cose sono un po’ diverse, ma così è in Germania. In Romania, invece, in ospedale non ti curavano se non corrompevi qualcuno. E questo è solo un piccolo esempio dell’impotenza, delle costrizioni e del terrore che bisogna subire ogni giorno nelle dittature e nelle società corrotte. Chi, come in Occidente, non ha mai vissuto queste cose, probabilmente dimentica anche l’immenso valore della libertà. L’unica che può garantire la dignità umana».
Nel 2009 ha vinto il Nobel “dipingendo il paesaggio degli spodestati”, il cui sostantivo in tedesco è “Heimatlosigkeit”, ossia “senza patria”. Nel suo libro la patria originaria, che sia la Romania o la minoranza tedesca del Banato dove è nata, viene descritta come un concetto molto negativo. Perché?
«Perché “la patria è il tempo che abbiamo perduto”, direbbe lo scrittore iraniano Said, per decenni in esilio in Germania. Una persona si lacera dentro quando è costretta a fuggire dal suo paese. Ma a me non serve la parola “patria”. Mi basta vivere a Berlino, una città dove mi trovo a meraviglia, che accoglie così tanti stranieri. A Berlino mi sento “a casa”, non “in patria”. E questo per me è sufficiente».
E che cosa pensa della tragedia di altri “spodestati”, ossia quei profughi che premono ai nostri confini? Come si dovrebbe comportare l’Europa?
«L’Occidente ancora non si è chiesto che cosa fare per fronteggiare davvero quest’emergenza. Ed è palese che l’Europa non abbia una politica chiara sui profughi. Sinora ogni Paese si è mosso indipendentemente, sperando che stati come la Germania o la Svezia potessero risolvere il problema. All’inizio, invece, sono state Italia e Grecia a essere lasciate sole. Ma, allo stesso tempo, non hanno rispettato le regole di Dublino, lasciando andare i migranti verso il Nord. Intanto, la situazione in Siria e nei campi profughi in Libano ha raggiunto livelli aberranti. Eppure, l’Europa tutta, dopo l’orrore nazista, dovrebbe comprendere il dramma di chi fugge dalla guerra e dalle persecuzioni. Dovremmo aiutarli, tutti. Non solo la Germania e la Svezia. E invece no. Questa per me è una disillusione tremenda. E dimostra come l’identità e la cultura comune europea siano concetti che, per ora, non si vedono nemmeno all’orizzonte ».
In questo, l’Europa dell’Est ha forse dato il peggio di sé: dall’Ungheria di Orbán alle repubbliche baltiche, tutti i paesi orientali si sono barricati dietro una granitica insensibilità, rifiutandosi più volte di accogliere anche un numero esiguo di profughi. Lei, che viene dall’Est e che è fuggita dalla Cortina di ferro come tanti suoi connazionali, come giudica questo atteggiamento?
«Per me questa è un’altra enorme delusione. Migliaia e migliaia di persone sono fuggite dalle dittature sovietiche nei decenni scorsi. Hanno rischiato la vita per la libertà. È la Storia dell’Est. E, per lo stesso sogno, molte altre migliaia di persone sono morte: freddate al confine, divorate dai cani, maciullate dalle eliche delle navi militari. Eppure, nonostante tutto questo, l’Est Europa serra i suoi confini, ha paura dello straniero. È assolutamente inaccettabile».
Lei come se lo spiega?
«Con il nazionalismo e l’isolamento delle vecchie dittature. All’epoca, gli stranieri, e in particolar modo gli occidentali, venivano considerati una minaccia. Perché, con loro, la miseria quotidiana della vita sovietica sarebbe stata ancor più evidente. Così, oggi, i paesi dell’Est non solo hanno paura che l’accoglienza possa pregiudicare la lenta espansione del proprio benessere, ma c’è chi, come la Polonia, si appella addirittura alla religione o alla Volksgesundheit , la “salute pubblica”. Siamo di fronte a un brutale egoismo, che si avvicina al razzismo».
Lei è riuscita a fuggire ed è diventata famosa in tutto il mondo. Come è cambiata la sua vita sei anni dopo il Nobel?
«Io la mia vita non l’ho cambiata. È cambiata la considerazione degli altri nei confronti della mia persona e dei miei libri. Il che è molto diverso. Quando scrivo, il Nobel per me non conta niente. Davanti ho le stesse sfide di sempre. Poi, certo, un premio simile ti brucia un sacco di tempo a causa della notorietà, delle lettere che ricevi, delle traduzioni dei tuoi libri, delle interviste, come questa».
Quest’anno invece il Nobel è andato alla bielorussa Svetlana Aleksievic.
«La conosco».
E che cosa ne pensa?
«Sono molto felice per lei e credo sia stata un’ottima scelta. Le sue opere sono decisamente particolari. Svetlana ha dato voce ai “perdenti” e sa stringere i fili dei dialoghi in reti così spesse che intrappolano e conquistano il lettore. Senza i suoi libri, oggi sapremmo molto meno dell’Unione sovietica, del suo agghiacciante potere dispotico, del sistematico annichilimento dell’individuo. Ciononostante, ancora oggi in Occidente ci sono tanti nostalgici di quell’illusione. Illusione che la Aleksievic smantella, descrivendo come pochi ciò che davvero accadeva nella Russia comunista. E che purtroppo persiste ancora oggi».
Si riferisce al presidente Vladimir Putin? Qual è la sua opinione di lui? È davvero una minaccia per l’Europa?
«La nuova politica del potere di Putin è più di una minaccia per l’Europa. Ha destabilizzato l’Ucraina con l’annessione della Crimea e l’intervento nelle province dell’Est. I paesi baltici temono un’aggressione simile dietro il pretesto di difendere le minoranze russe dai cosiddetti “fascisti”. E vogliamo parlare della Siria? Mentre Obama indietreggia sempre più e ritira la potenza militare americana dalle zone di conflitto, Putin avanza. E così ci dice: “Attenti, posso colpire ovunque. E, se voglio, uccido”. Mi terrorizza un mondo che avrà come “polizia internazionale” la Russia e la Cina».
In Romania la terrorizzavano invece anche i silenzi, soprattutto quelli interminabili degli interrogatori della Securitate. Ma anche nella sua famiglia regnava il non detto. La sua letteratura nasce dal silenzio?
«Forse è cominciato tutto in quelle valli dove da bambina dovevo portare le mucche al pascolo e io giocavo e parlavo con le piante, visto che ero sola tutto il giorno. Oggi come allora, le piante mi aiutano a combattere la tristezza, la paura, la solitudine. Ma ha ragione, anche in famiglia non si parlava mai. E nemmeno in città o nella fabbrica dove ho lavorato da giovane. Non è un caso che il mio primo libro, Bassure , sia una sorta di dialogo interiore, in cui mi chiedo chi sono, da dove vengo e come si può sopravvivere in una dittatura senza rinunciare mai ai propri principi».
Lei scrive che non voleva fare letteratura, ma solo “trovare un punto di appoggio”. In che senso?
«Che per ottenere un sostegno interiore, per avere coscienza di me stessa, avevo bisogno delle metafore, della precisione delle parole. Non ho mai scritto per la letteratura in sé».
È per questo che lei, ancora oggi, ritaglia lettere e parole da giornali e riviste per i suoi “collage” disseminati ovunque a casa sua?
«Non ho mai smesso. Ho pubblicato diversi libri di queste mie creazioni, in Italia ne è stato tradotto uno, Essere o non essere Ion (Transeuropa edizioni, ndr ). Quando ho soggiornato a Roma, all’inizio degli anni Novanta, ne ho realizzati molti. Ma in realtà avevo cominciato molto tempo prima, in viaggio, quando si poteva ancora portare un paio di forbici in aereo. Ritagliavo di tutto: articoli, titoli, foto. Ognuna di quelle parole sminuzzate aveva un carattere, una grandezza, un colore diverso, a differenza di quelle dattiloscritte, che sono sempre le stesse. Solo così ho capito quanto potente e decisiva può essere una singola, apparentemente semplice, parola».
Il dramma dei migranti, gli egoismi dell’Europa, il pericolo Putin
Raramente la scrittrice e premio Nobel affronta temi non letterari
Lo fa, alla vigilia del suo viaggio in Italia per presentare l’ultimo libro, in questa intervista: “Il Novecento non ci ha insegnato niente”
ANTONELLO GUERRERA ( è su Facebook…è dappertutto, immaginiamo! complimenti, ciao)
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La Feltrinelli viene fondata da Gian Giacomo Feltrinelli nel 1955 — chi fosse interessato all’evoluzione della casa editrice…