NOTA : ” se l’essenza dell’essere e della realtà, la mente e gli dei, si riducono ad un movimento di collisione di atomi…per chi è così “disincantato”, c’è da ridere degli umani , e molto! A voi non pare? Quante volte, negli anni, con Donatella ci siamo seduti tranquilli nel primo banco del teatro degli uomini, e quanto bene ci ha fatto quel ridere. E ci farà, perché continueremo…Il difficile nella vita, pur ormai disincantato che tu sia, è riuscire a stare tranquilli nel primo banco e non farci “protagonisti”…Donatella direbbe che di fronte a certe cose, per es. davanti a uno che ti dice, a te e agli astanti, che “gli immigrati e ancor più i rom, vanno “respinti” da noi in ogni modo e magari anche bruciati”—non si può star zitti. / chiara non si è mai trovata personalmente in questa situazione, per cui non sa come reagirebbe—ma forse penserebbe che tanto gente così, puoi solo incattivirla ancora di più…Però chiara non la sa se rimarrebbe nel suo banco.
Ippocrate saluta Damagete.
E’ proprio come pensavamo, Damagete: lungi dall’avere la mente offesa, Democrito considerava ogni cosa con grande altezza di vedute; dava una lezione di saggezza a noi, e a tutti gli uomini attraverso noi. Ho rimandato indietro, caro amico, la tua nave veramente asclepiade. All’emblema del sole, che già reca, aggiungi il simbolo della salute: (38) ché, con l’aiuto degli dei, ha navigato a vele spiegate e ci ha sbarcati ad Abdera alla data prevista e annunciata. Abbiamo dunque trovato gli abitanti adunati alle porte della città, dove, come previsto, tutti erano convenuti ad attenderci: non soltanto gli uomini, ma anche le donne, e i vecchi e i fanciulli e i bambini, e ti assicuro, per gli dei, che erano tutti immersi nella tristezza. Il loro atteggiamento si spiegava con la presunta pazzia di Democrito, mentre questi si votava scrupolosamente a una filosofia superlativa. (39) Vedendomi, parvero riprendersi alquanto e concepire delle speranze; Filopemene insisteva perché accettassi la sua ospitalità, e gli altri condividevano il suo intendimento. Ma io: «Abderiti», dissi loro, «il mio primo pensiero è di vedere Democrito». Essi approvarono queste parole e, giubilanti, mi scortarono attraverso l’agorà, chi correndo appresso, chi dinanzi da ogni parte, esortandomi a «salvare, soccorrere, sanare». E io li invitavo a riprender coraggio, sicuro, per la stagione etesia, (40) che il male sarebbe stato ridotto a nulla, o a poca cosa, e agevolmente sanabile. Così dicendo, proseguivo per la mia strada; la casa non era lontana e la città non è molto estesa. Eccoci dunque giunti in prossimità del bastione dove si trovava la casa; mi portarono poi pian piano dietro la torre, fino a un’elevata collina ombreggiata da alti, folti pioppi. Di là si vedeva la dimora di Democrito e, ai piedi di un platano basso e tozzo, Democrito in persona, vestito di una rozza tunica, solo, bisunto, seduto su un sedile di pietra, col colorito giallastro e il corpo scarnito, il mento ricoperto da una barba troppo lunga. Accanto a lui, a destra, un filo d’acqua corrente sul declivio della collina sussurrava soavemente. Su quella collina si ergeva un tempio sacro alle ninfe, da quel che si poteva immaginare, e ricoperto di vite selvatica. (41) Sulle ginocchia Democrito aveva posato molto accuratamente un libro; qualcun altro era sparso sull’erba da una parte e dall’altra, vicino a un cumulo di animali sezionati da cima a fondo. Quanto a lui, ora si chinava per scrivere con impegno, ora rimaneva interminabilmente in sospeso, assorto nei suoi pensieri; di lì a un momento, si alzava per fare un giro, andava a esaminare le viscere degli animali, le posava di nuovo e tornava a sedersi. Immersi in una tristezza che faceva loro quasi salire le lacrime agli occhi, gli Abderiti che mi stavano intorno mi dissero allora: «Vedi, Ippocrate che cos’è la vita di Democrito, e quanto è pazzo, non sapendo né ciò che vuole né ciò che fa». Uno di loro, desiderando mettere ancor più in evidenza la sua follia, diede in un gemito acuto, come quello di una donna che pianga la morte del figlio; quindi un altro proruppe a sua volta in querimonie, mimando un viandante che avesse perduto ciò che trasportava. Udendoli, Democrito sorrise nel primo caso, scoppiò a ridere nel secondo, e smettendo di scrivere crollò ripetutamente il capo. Dissi allora agli Abderiti: «Rimanete qui, voialtri, mentre mi accosterò con la parola e col corpo al nostro uomo, per rendermi edotto con la vista e l’udito sulla verità del suo stato». Dette queste parole, scesi senza far rumore. In quel punto il pendio era ripido, sì che faticavo a non mettere un piede in fallo. Giunto alla sua altezza, stavo per rivolgermi a lui, ma lo trovai intento a scrivere con ardore, in un trasporto di entusiasmo. (42) Mi tenni quindi immobile lì dove mi trovavo, nell’attesa che una pausa fornisse un’occasione favorevole; di lì a poco, lasciando lo stilo, levò gli occhi verso di me che mi facevo avanti: «Ti saluto, forestiero», disse. «Anch’io ti rivolgo mille saluti, Democrito, uomo saggio tra tutti». Provando vergogna, credo, di non avermi chiamato per nome, seguitò allora: «E tu, come ti chiami? E’ perché non conoscevo il tuo nome che ti ho dato del forestiero». «Il mio nome», dissi, «è Ippocrate, il medico». Rispose egli: «La nobiltà degli asclepiadi mi è ben nota, e la tua grande fama di medico saggio è giunta fino a me. Ma quale faccenda, amico, t’ha condotto fin qui? Prima di tutto, accomodati; questo sedile di foglie ancor verdi e tenere che vedi non è spiacevole; i seggi della buona sorte, che suscitano la cupidigia, non offrono tanta dolcezza». Sedetti ed egli continuò: «Vieni per una faccenda privata o per una faccenda che interessa l’intera città? Parla senza ambagi e noi asseconderemo i tuoi sforzi, per tutto quanto ci sarà possibile». E io: «A dire il vero», risposi, «è per te che sono venuto qui, onde incontrare un uomo saggio; il pretesto mi è stato fornito dalla tua patria, di cui eseguo un’ambasceria». «Allora», disse, «comincia con l’avvalerti della nostra ospitalità». Volendo mettere alla prova l’uomo in tutti i sensi, sebbene già chiaramente persuaso che non aveva la mente offuscata, risposi: «Conosci Filopemene, uno dei vostri concittadini?». «Certamente», disse, «intendi il figlio di Damone, che abita presso la fontana di Ermes». «Proprio lui», continuai, «si dà che una comune discendenza faccia di me il suo ospite personale; ma accoglimi, Democrito, la tua ospitalità mi è più cara. E spiega, per cominciare, che cosa stai scrivendo». Indugiò alquanto prima di rispondere: «Scrivo sulla follia». (43) «Per Zeus, re degli dei», esclamai, «che tempestività, e che risposta alle accuse della città!». «Di quale città parli, Ippocrate?» chiese lui. E io: «Nulla, Democrito, una parola sfuggitami non so come. Ma che cosa scrivi sulla follia?». «Che cosa potrei scrivere», rispose, «se non che cos’è, come capita agli uomini e in che modo si può calmarla? Gli animali che vedi qui, non li seziono per odio dell’opera divina, ma bensì perché indago la natura e la sede della bile; giacché è questa, come ben sai, che offusca la mente degli uomini, quando è sovrabbondante; è vero che si trova in tutti naturalmente, ma in minor quantità negli uni, in abbondanza negli altri; se è in eccesso, sopraggiungono le malattie: è una sostanza a volte buona, a volte cattiva». (44) Allora esclamai: «Per Zeus, Democrito, tu dici il vero e parli saggiamente; ne deduco che sei felice di godere di una simile tranquillità, che a noi non è toccata in sorte». «Ma perché non vi è dato di goderne?» chiese. «Perché», risposi, «i campi, la casa, i figli, i debiti, le malattie, la morte, gli schiavi, i matrimoni e il resto ci tolgono ogni nostro momento libero». Allora il nostro uomo, ricadendo nella sua consueta disposizione di spirito, si mise a ridere fragorosamente, a farsi beffe di tutto, poi mantenne il silenzio. E io seguitai: «Perché ridi, Democrito? E’ dei beni o dei mali di cui ho parlato?». Rise ancora di più, e tra gli Abderiti che ci osservavano da lontano, chi si picchiava la testa o la fronte, chi si strappava i capelli; ché le sue risa, come dichiararono in seguito, erano state ancora più forti del solito. Ripresi allora la parola: «Democrito, migliore tra i saggi, ardo dal desiderio di sapere che cosa ti mette in questo stato, e perché ti sono parso risibile, io o quello che ho detto; è necessario che, debitamente informato, io elimini la causa dei tuoi dileggi, oppure che, convinto di aver torto, tu rinunci alle tue inopportune risate». E lui: «Per Eracle», disse, «se riesci a convincermi che ho torto, Ippocrate, praticherai una cura curativa mai praticata su nessuno». «Carissimo», continuai, «come non convincerti del tuo errore? Non pensi di sragionare quando ridi della morte di un uomo, della malattia, delle alterazioni della mente, della follia, della malinconia, dell’assassinio, e persino di cose anche peggiori? O, inversamente, dei matrimoni, delle panegirie, (45) dei parti, dei misteri, delle magistrature, degli onori, o di qualsiasi altro bene? Giacché tu ridi di ciò che bisognerebbe deplorare, deplori ciò che dovrebbe rallegrare; sì che tra il bene e il male non c’è più distinzione per te». Allora lui: «Ben detto, Ippocrate, ma tu non sai perché rido; quando lo saprai, sono sicuro che col mio riso porterai via nei tuoi bagagli, per il bene della tua patria e per il tuo, una medicina più efficace della tua ambasceria, e potrai dar lezioni di saggezza agli altri. In cambio, forse mi insegnerai a tua volta l’arte medica, quando saprai fino a che punto gli uomini si interessano a ciò che non ha alcun interesse, rivaleggiando in sforzi per ciò che non merita alcuna fatica e sprecando tutta la vita a intraprendere cose risibili». Allora prorompo: «Spiegati, in nome degli dei! Temo che il mondo intero sia malato a sua insaputa, senza poter mandare da nessuna parte ambascerie alla ricerca di un farmaco. Giacché chi vi sarebbe fuori dal mondo?». E lui, riprendendo la parola: «Esistono, Ippocrate, molte infinità di mondi; guardati, amico mio, dal rimpicciolire la ricchezza della natura così com’è». «Questi argomenti, Democrito», dissi, «li affronterai al momento opportuno; vorrei evitare che tu ti metta a ridere persino spiegando l’infinità. Intanto, sappi che devi dare al mondo in cui vivi le ragioni del tuo riso». Dopo avermi lanciato uno sguardo penetrante, rispose: «Tu attribuisci due cause al mio riso, i beni e i mali; ma io rido di un unico oggetto, l’uomo pieno d’insensatezza, vuoto di opere rette, puerile (46) in tutti i suoi progetti, che sopporta senza alcun beneficio prove senza fine, spinto dai suoi desideri smodati ad avventurarsi fino ai confini della terra e nelle sue immense cavità, fondendo l’argento e l’oro, non smettendo mai di accumularne, affannandosi sempre per possederne di più allo scopo di non decadere. E non sente alcun rimorso a dichiararsi felice, lui che fa scavare a piene mani le profondità della terra da schiavi in catene, di cui gli uni muoiono sotto i cedimenti di un terreno friabile, mentre che interminabilmente sottomessi a quel giogo, gli altri sopravvivono nel supplizio come in una patria. (47) Si va a cercare l’oro e l’argento, si esaminano le tracce di polvere e le raschiature, si ammucchia qui la sabbia che si era estratta di là, si aprono le vene della terra, si spaccano le zolle per arricchirsi; della nostra madre terra si fa una terra nemica; essa, che resta sempre la medesima, l’ammiriamo e la calpestiamo. Che risate, quando questi innamorati di una terra estenuante e piena di segreti usano violenza a colei che hanno sotto gli occhi! Certuni comperano cani, altri, cavalli; circoscrivendo un vasto territorio, gli impongono un marchio di proprietà; e volendo diventare padroni di grandi possedimenti, non riescono a padroneggiare se stessi. Hanno fretta di sposare donne che di lì a poco ripudiano; amano, poi aborrono; hanno il desiderio di procreare, (48) poi scacciano i figli fattisi grandi. Che cos’è questa vana e irragionevole fretta, che non differisce in nulla dalla follia? Fanno la guerra ai loro, senza mai cercare di vivere in pace; alle insidie dei re rispondono con controinsidie; sono omicidi; scavando la terra, cercano argento; trovato l’argento, vogliono una terra; acquistata la terra, ne vendono i frutti; smerciati i frutti, rimettono la mano sull’argento. Quanto sono instabili, quanto sono cattivi! Se non sono ricchi, desiderano la ricchezza; venutine in possesso, la nascondono e la sottraggono agli sguardi. Io mi faccio beffe dei loro fallimenti, scoppio a ridere sui loro insuccessi, perché trasgrediscono le leggi della verità; rivaleggiando in odio, danno battaglia ai loro fratelli, ai loro genitori, ai loro concittadini, tutto questo per beni di cui nessuno morendo rimane padrone; si massacrano a vicenda; incuranti delle leggi, guardano dall’alto i loro amici o la loro patria in difficoltà; attribuiscono valore a ciò che è indegno e inanimato; dilapidano tutte le loro ricchezze nell’acquisto di statue, col pretesto che l’opera scolpita sembra parlare, ma detestano chi parla davvero. Ciò che suscita la loro bramosia è ciò che sta fuori della loro portata: quando abitano sul continente vogliono il mare; insulari, devono vivere sul continente. Deviano tutto nella direzione del loro personale desiderio. In guerra sembrano lodare la virilità, ma giorno dopo giorno si abbandonano alla dissolutezza, all’amore per il denaro, a tutte le passioni che li rendono malati. Sono tutti dei Tersiti (49) della vita. Allora perché, Ippocrate, mi hai rimproverato di ridere? Non c’è uomo che rida della propria insensatezza, non c’è scherno se non reciproco: chi ride degli ubriachi, credendosi sobrio, chi degli innamorati, mentre una malattia peggiore lo affligge; taluni si burlano dei navigatori, altri degli agricoltori; ché non sono d’accordo né sulle arti né sulle opere». In quel punto intervenni: «Queste sì, Democrito, sono grandi verità! Non potrebbe esservi linguaggio più acconcio ad esprimere la miseria dei mortali. Ma la conduzione degli affari impone necessariamente l’azione, per via dell’economia domestica, della costruzione delle navi, del governo della città in generale, e l’uomo non può sottrarvisi: ché la natura non l’ha messo al mondo perché stia in ozio. Detto questo, l’ambizione ha traviato molte anime rette. che si occupavano di tutto credendosi al riparo dal fallimento, e che non avevano la forza di prevedere ciò che rimaneva celato. Chi mai, Democrito, ha posto mente, sposandosi, alla separazione e alla morte? Allevando dei figli, alla loro possibile perdita? Le cose non stanno diversamente per quanto riguarda l’agricoltura, la navigazione, la sovranità, il comando, e tutto ciò che la vita comporta: nessuno ha mai supposto che avrebbe fallito; ognuno anzi nutre grandi speranze dimenticando ciò che è meno buono. Il tuo riso non è quindi sconveniente, a questo punto?». (50) Ma Democrito mi rispose: «Dai prova d’ottusità di mente, Ippocrate, e ti smarrisci lontano dal mio pensiero omettendo di esaminare, per ignoranza, i limiti della calma e dell’agitazione. Quando si concludono con buonsenso gli affari di cui parli, si superano facilmente le difficoltà, e mi si evita di dover ridere. Ma, con la mente offuscata dalle occupazioni della vita, come se queste avessero una qualche consistenza, gli uomini lasciano che il fumo dell’orgoglio annebbi la loro intelligenza irragionevole, senza lasciarsi ammaestrare dall’andamento disordinato delle cose; eppure sarebbe un avvertimento sufficiente l’universale mutazione, che impone brusche evoluzioni e inventa ogni sorta di rotazioni improvvise. (51) Ma loro, come se la vita fosse ferma e stabile, dimenticano gli eventi che interessano senza sosta le cose, in modo ogni volta diverso; desiderano ciò che affligge, perseguono ciò che non serve a nulla e precipitano in ogni sorta di disgrazie. Colui che, invece, si preoccupasse di fare tutto in funzione dei suoi propri mezzi quello proteggerebbe la sua vita dal fallimento, conoscendo perfettamente se stesso, essendo chiaramente cosciente della sua conformazione, non dispiegando all’infinito l’ardore del desiderio, contentandosi di contemplare l’opulenta natura, nutrice di ogni cosa. Come una salute troppo buona è, evidentemente, un rischio per gli obesi, così la grandezza dei successi rappresenta un grave pericolo; le persone in vista attirano l’attenzione di tutti quando la loro sorte è mutata. Altri, conoscendo male le antiche storie, sono morti vittima dei loro stessi errori, per non aver saputo prevedere le cose visibili, non più delle invisibili, mentre una lunga vita indicava loro ciò che è potuto o no accadere; a partire da lì, avrebbero dovuto riconoscere l’avvenire. Ecco quindi il bersaglio del mio riso: gli uomini insensati, che condanno a espiare la loro malvagità, avarizia, insaziabilità, il loro odio, i loro trabocchetti, i loro complotti, la loro invidia – ardua impresa passare in rassegna tutto quel che inventa l’abilità del male: anche qui si trova una specie di infinito! Rido degli uomini che rivaleggiano in perfidia nelle loro macchinazioni, e hanno pensieri tortuosi; il peggio, per loro, è una forma di virtù, ché in spregio alle leggi praticano la menzogna e vantano la ricerca del piacere. Il mio riso condanna in loro l’assenza di ogni progetto ragionato; non hanno occhi né orecchie, mentre soltanto il senno dell’uomo, illuminato da un fermo pensiero, anticipa ciò che è e ciò che sarà. Scontenti di tutto, questi individui si accostano proprio a ciò che li disgusta; quando hanno rifiutato di prendere il mare, navigano; quando hanno rinunciato all’agricoltura, ridiventano coltivatori; se hanno ripudiato la consorte, ecco che ne prendono un’altra; i figli che hanno allevato, li sotterrano; dopo averli sotterrati, ne fanno altri e li tirano su; dopo aver desiderato la vecchiaia, si lagnano quando la raggiungono, incapaci di costanza in qualsiasi situazione si trovino. I capi e i re credono felici i semplici individui; i semplici individui aspirano alla sovranità. L’uomo di stato invidia l’artigiano, che crede al riparo da ogni pericolo; l’artigiano è geloso dell’uomo politico, che presume onnipotente. Giacché gli uomini non vedono la retta via della virtù, questa via senza macchia né asperità, dove non si rischia di inciampare, ma dove nessuno vuole inoltrarsi preferiscono lanciarsi nella strada malagevole e tortuosa, dove il suolo è accidentato, dove si scivola, dove si incespica; i più cadono, ansimano come se fossero inseguiti, si accapigliano, avanzano e indietreggiano ogni momento. Gli uni, in preda a un amore insensato, si infilano come ladri nel letto altrui, fidando nella propria impudenza; altri sono consumati dall’amore per il denaro, e il loro male è insaziabile. Qui, ci si tende scambievolmente trappole; là, coloro che la vocazione per la gloria ha innalzato fino al cielo vengono precipitati dal peso della loro malvagità in un abisso di perdizione. Si distrugge, poi si ricostruisce; si rendono servigi, poi lo si rimpiange; ci si allontana dai doveri dell’amicizia, ci si comporta tanto male da arrivare all’odio, si fa guerra alla famiglia, ed è l’amore per il denaro (52) che causa tutte queste assurdità. Tali uomini in che cosa sono diversi dai bambini che giocano e che, privi di discernimento, trovano in tutto ciò che accade un pretesto per divertirsi? Per quanto riguarda gli appetiti, che cosa hanno ancora da invidiare loro gli animali privi di ragione? E ancora, le bestie sanno accontentarsi di quel che dà loro soddisfazione. Giacché si è mai visto un leone che seppellisca dell’oro sottoterra? Qual è il toro che la cupidigia spinge a battersi? Quale pantera ha mostrato desideri insaziabili? Il cinghiale beve, ma non più di quanto abbia sete; il lupo, quando ha divorato una preda, si astiene dallo spingere oltre un’alimentazione necessaria; (53) ma l’uomo, per giorni e notti consecutive, non si stanca di gozzovigliare. L’ordine regolato delle stagioni pone un termine alla fregola degli animali privi di ragione; ma l’uomo è costantemente punto dal tafano della lussuria. Via, Ippocrate, non dovrei ridere dell’uomo in preda al dispiacere amoroso, col pretesto che – per buona fortuna è stato posto un limite ai suoi desideri? E soprattutto, dovrei trattenere la mia ilarità dinanzi al temerario che si lancia attraverso i precipizi o sugli abissi del mare? Non dovrei dileggiare colui che, avendo messo in mare una nave pesantemente stivata, accusa poi i flutti di averla inghiottita col suo carico? Quanto a me, non credo di ridere abbastanza, e vorrei proprio trovare qualcosa che fosse doloroso per loro; non un intruglio che li guarisca, né un Peone che appresti loro dei medicamenti. Medita la lezione del tuo antenato Asclepio, folgorato in ringraziamento delle cure che dispensava agli uomini. (54) Non ti accorgi che sono fuori strada anch’io, io che cerco la causa della follia uccidendo e sezionando animali? Era nell’uomo che bisognava cercarla. Non vedi che anche il mondo è pieno d’inimicizia per l’uomo, e che ha radunato contro di lui un’infinità di mali? (55) Dalla nascita, l’uomo nella sua totalità non è che malattia: bimbo, è inutile e supplica che lo si aiuti; crescendo, diventa presuntuoso, stolto, sotto la guida dei suoi maestri; nella maturità è arrogante; sul declino, pietoso, e raccoglie i mali che la sua stessa insensatezza ha seminato. Eccolo lì proprio tale e quale è uscito dal sangue impuro di sua madre. E’ per questo che gli irascibili, pieni di un’ira smisurata, vivono nell’infelicità e nella lotta; altri, nella corruzione e nell’adulterio; altri ancora nell’ubriachezza, chi invidioso del bene altrui, chi privato di ciò che gli appartiene. Se soltanto avessi la facoltà, scoperchiando tutte le case, di svelare ciò che contengono e osservare così quello che vi succede! Vedremmo gli uni in atto di mangiare, altri di vomitare, o di torturare le persone, o di comporre veleni, o di ordire complotti, o di dedicarsi a calcoli, o di rallegrarsi, o di lagnarsi, o di redigere l’atto d’accusa dei loro amici, o di perdersi in stolti sogni di gloria. E andando ancora più giù, si arriverebbe agli atti di coloro che dissimulano la loro anima, tutti quanti sono: i giovani, i vecchi, coloro che chiedono, coloro che rifiutano, coloro che vivono nella miseria, coloro che hanno il superfluo, coloro che sono attanagliati dalla fame, coloro che sono sprofondati nella lussuria, coloro che sono sudici, coloro che sono schiavi, coloro che traggono vanità dai loro stravizi, coloro che allevano figli, coloro che sgozzano, coloro che seppelliscono, coloro che disprezzano ciò che hanno, coloro che corrono appresso a una speranza d’arricchimento; gli impudenti, i parsimoniosi, gli insaziabili, gli assassini, coloro che vengono picchiati, gli sdegnosi, coloro che sono presi dalla passione per la gloria; coloro che hanno un debole per i cavalli, o gli uomini, o i cani, o le pietre, o gli alberi, o il bronzo, o i disegni; coloro che sono in ambasceria, o che hanno un incarico di stratego, o seguono un sacerdozio; coloro che portano corone, coloro che portano le armi, coloro che vengono messi a morte. Corrono tutti chi di qua chi di là, gli uni attirati dalle battaglie navali, gli altri dal servizio militare, o dalla vita in campagna, o dal commercio marittimo, o dall’agorà, o dall’assemblea, o dal teatro, o dall’esilio, andando ognuno dalla sua parte; spinti chi verso l’amore dei piaceri, le mollezze e l’intemperanza, chi verso la pigrizia e la noncuranza. Allora, quando si vedono tante anime indegne e miserabili, come non dileggiare l’intemperanza della loro vita? La tua stessa medicina, ho tutti i motivi di credere, non incontrerebbe il loro gradimento: tutto rende bisbetici questi intemperanti, ed essi considerano la saggezza una follia. Del resto la tua scienza – ne ho nettamente il sospetto – deve in larga misura scontrarsi con l’ingratitudine e l’invidia: appena salvi, i malati attribuiscono la loro salvezza agli dei, o alla sorte; molti la ascrivono alla natura e detestano il loro benefattore (poco ci manca che non si irritino, se si pensa che gli debbano qualcosa!). I più non hanno di per sé alcuna nozione dell’arte, e nella loro ignoranza condannano ciò che gioverebbe loro di più: il voto è nelle mani degli uomini che hanno il minor buonsenso. E come i malati non vogliono riconoscere il loro debito così i compagni si rifiutano di testimoniare, perché l’invidia glielo impedisce. Tu stesso hai sperimentato tutte le stoltezze che qui menziono: spesso, lo so, ti è stato giocoforza affrontare trattamenti indegni, senza che il denaro o la gelosia ti abbiano portato a biasimare gli altri. L’esatta verità nessuno la conosce, nessuno la testimonia». Sorrideva nel dirmi questo; ai miei occhi, Damagete, aveva l’aria di un dio, e dimenticavo il suo aspetto precedente. «Illustre Democrito», gli dissi, «riporterò a Cos preziosi doni d’ospitalità: ché mi hai colmato di una grande ammirazione per la tua saggezza; tornando in patria, proclamerò che tu hai esplorato e scoperto la verità della natura umana. Mi hai dato di che curare il mio pensiero. Me ne vado, dunque, giacché l’ora lo impone, così come le cure che si devono al corpo; ma ci ritroveremo domani e i giorni seguenti». A queste parole mi alzai; egli si dispose a seguirmi e consegnò i suoi libri a un nuovo venuto, uscito da non si sa dove. Affrettando allora il passo, mi volsi verso gli Abderiti purosangue che mi aspettavano sull’altura: «Amici», dissi loro, «vi sono veramente grato di avermi chiamato presso di voi in ambasceria: perché ho veduto Democrito, il saggio tra i saggi, l’unico capace di rendere savi gli uomini». Ecco, Damagete, quello che con vivo piacere volevo dirti di Democrito. Salve.
NOTA 1: Sono state qui tradotte solo le lettere dalla 10 alla 17 della raccolta pubblicata da E. Littré in edizione bilingue, nel tomo nono delle “Oeuvres complètes” di Ippocrate col titolo generale “Lettres, Décret et Harangues (Lettere, Decreto e Arringhe)”. Questi testi, che formano un insieme coerente, sono preceduti da un altro piccolo romanzo epistolare (sulla peste che infuria nell’esercito di Artaserse); esse sono seguite in particolare, da un trattato sulla “manìa” e da un altro sull’elleborismo, alcuni estratti del quale figurano qui in nota. In mancanza di un’edizione critica più recente (non essendo ancora uscita quella annunciata in Gran Bretagna), ho seguito il testo greco edito da Littré, facendo mie le sue congetture. NOTA 2: Come osserva dal canto suo Diogene Laerzio, che dopo lo pseudo-Ippocrate ha contribuito in maniera decisiva a fondare la leggenda del filosofo, «Democrito non voleva dover la propria gloria a un luogo, ma preferiva essere egli stesso a conferire al luogo la sua gloria» (“Vite”, nono, 34-35). Come complemento a queste “Lettere”, è interessante consultare l’abbondante documentazione dossografica, illuminante circa la celebrità e l’importanza di Democrito nell’antichità, una cui versione francese è presentata da J.-P. Dumont, D. Delattre e J.-L. Poirier ne “Les Présocratiques” (Parigi, Gallimard, La Pléiade, 1988) con il seguente commento: «Se il corpus di Aristotele non avesse avuto, com’è noto, la fortuna di essere ripubblicato nel primo secolo avanti Cristo da Andronico di Rodi, Democrito sarebbe sicuramente considerato il più fecondo e universale maestro di saggezza dell’antichità». NOTA 3: Oblio, riso, insonnia, spregio della vita: con apparente abilità, gli Abderiti ricorrono ad argomenti ippocratici per convincere Ippocrate della malattia del loro filosofo (sull’oblio, vedi ad esempio “Epìdemie”, terzo, 17, 15; sull’insonnia, “Ep”. primo, 1O; sul riso, “Af”. sesto, 53). Ma questi semi-abili, fraintendendo sintomi che credono univoci, e tratteggiando a loro insaputa il ritratto di un saggio, dimenticano in particolare che l’oblio è fondatore; è perdendo la memoria di sé che Democrito accede all’«iperfilosofia». NOTA 4: Il passo ha suggerito a D. Bompart (nel 1632) curiose speculazioni: col “Salmo” 138 alla mano, interpreta le «cose dell’Inferno» come un’allusione incontestabile alla matrice della donna. Probabilmente ignorava che “Delle cose dell’Ade” è il titolo di un’opera perduta di Democrito; Trasillo l’ha annoverata tra i libri di etica del filosofo (vedi il suo catalogo ne “Les Présocratiques”, cit., pagine 762 seguenti). Secondo Proclo, essa raccoglieva gli elementi di un’inchiesta «intorno alle persone credute morte e poi risuscitate» (Commento alla «Repubblica» di Platone, secondo, 113, 6). NOTA 5: La teoria atomistica di Democrito, parzialmente ripresa dal suo maestro Leucippo, include due teorie della sensazione: da tutti gli oggetti visibili si staccano pellicole superficiali, sottili strati di atomi chiamati “èidola” (termine latinizzato più tardi in “simulacra”), che attraversano l’aria intermedia serbando la forma dell’oggetto emittente e la imprimono in noi sull’organo dei sensi oppure, ipotesi materialista più raffinata, lo stesso occhio proietta dei raggi in direzione degli oggetti, la cui immagine si forma nel punto d’incontro del simulacro e del flusso visivo. In entrambi i casi, «l’aria è piena di simulacri». E’ la seconda teoria che Teofrasto ci ha trasmesso (“Sulla sensazione”, 50): «La vista è prodotta secondo Democrito dall’immagine riflessa. Egli lo spiega in un modo che gli è affatto peculiare, ché l’immagine non si produce direttamente nella pupilla, ma l’aria situata nell’intervallo tra la vista e l’oggetto veduto viene compressa e colpita dall’oggetto visibile e dall’occhio che vede, datosi che ogni cosa emette sempre qualche effluvio. Quindi quest’aria, che è un solido di colore diverso, produce un’immagine che si riflette negli occhi umidi. Il compatto non può ricevere l’immagine, ma l’umido la lascia passare, è per questo che gli occhi umidi vedono meglio degli occhi asciutti…». Ma i simulacri hanno fors’anche un significato «teologico», stando a una citazione di Ermippo: «Non sarebbe onesto passare sotto silenzio le parole di Democrito che, chiamando le divinità col nome di simulacri, dice che l’aria ne è piena» (cfr. “Les Présocratiques”, cit., fr. A 78). NOTA 6: Per Democrito e Leucippo i mondi sono in numero illimitato, e soggetti a generazione e corruzione. Alla sostanza eterna degli Eleati, l’uno e l’altro sostituiscono un’infinità dinamica: contrariamente ai filosofi che pongono un Tutto uno e immutabile, in cui il vuoto non esiste, partono dalla varietà dei fenomeni e degli esseri per arrivare alla conclusione che esiste una molteplicità infinita di corpuscoli, che implica a sua volta un vuoto infinitamente esteso (vedi Aristotele, “De gener. et corr. primo, 8, 325 a, e Simplicio, “Commento alla «Fisica» di Aristotele”, 28, 15). Nella loro lettera a Ippocrate, gli Abderiti danno di queste tesi una versione popolare, di cui s’è ricordato La Fontaine (“Favole”, ottavo, 26): “Nessun numero, disse, i mondi limita: fors’anche son riempiti di Democriti infiniti.” NOTA 7: Si potrebbe anche intendere, con Littré: «Pensiamo che le nostre leggi (“nòmous”) siano malate, pensiamo che delirino». Da Democrito all’intera città, il contagio minerebbe così l’essenza stessa del politico; l’idea sarà oggetto di variazioni nelle “Lettere” successive (agli Abderiti, a Dionigi, a Damagete). Il verbo “parakòptein”, spesso usato in questi testi, significa letteralmente che la mente è turbata da uno choc, colpita da un influsso maligno. NOTA 8: Non v’è alcuna ragione di sostituire in questa frase come proponeva Bompart nel diciassettesimo secolo, “sòma” («corpo») con “sèma” («segno»), ma si tratta proprio di un corpo significante, la cui apparente malattia designa in maniera ambivalente una sofferenza e una saggezza. NOTA 9: Secondo una versione più diffusa Abdero era figlio di Ermes e amante di Eracle. Questi gli affidò le cavalle di Diomede, che lo uccisero; dopo essersi vendicato di Diomede, fu in omaggio al suo compagno che Eracle fondò Abdera. NOTA 10: Epione è anche la sposa di Asclepio e la madre delle sue figlie (tra cui Panacea); i loro fratelli Macaone e Podalirio sono spesso citati nell'”Iliade”. Omero racconta anche come Peone, medico degli dei, guarisce Ade (quinto, 401-404) e Ares (quinto, 899-906). NOTA 11: Questa «presa della bacchetta», festeggiata annualmente con panegiria e processione, sembra segnare l’entrata in carica del sacerdote di Asclepio. A Epidauro, le Asclepeia venivano festeggiate ogni cinque anni e si accompagnavano a gare musicali e ginniche. NOTA 12: Il “thòrybos” degli Abderiti, lo scompiglio e il tumulto che s’impadroniscono della loro città, mette Ippocrate sulla buona strada: non soltanto perché una simile agitazione è il sintomo di un male collettivo, che dal solo “sòma” di Democrito avrebbe raggiunto per contagio l’insieme del corpo sociale, ma soprattutto perché è l’indizio di un possibile errore di diagnosi. E’ lo stupore di Ippocrate dinanzi al “thòrybos” abderita che lo porta alla vera domanda: chi è malato? NOTA 13: Allo stesso modo si può leggere, in un testo tardo del “Corpus ippocratico”: «Se cominciate col pensare ai vostri onorari, farete nascere nel malato il pensiero che ve ne andrete e l’abbandonerete se non vi accordate su questo… Non vi curerete quindi di fissare il salario; riteniamo infatti che questo pensiero sia nocivo al paziente, e soprattutto in una malattia acuta» (“Precetti”, 4). Nelle “Lettere”, l’atteggiamento di Ippocrate riguardo al denaro obbedisce a una duplice preoccupazione, scientifica e politica: il medico deve essere guidato soltanto dalla “physis” e dall’interesse della “patrìs”. Se Ippocrate rifiuta qui di percepire onorari, non è per le stesse ragioni che l’hanno portato a declinare le offerte di Artaserse, ma egli sottolinea fortemente, in entrambi i casi l’esigenza deontologica. Probabilmente il presente offriva all’autore delle “Lettere” buone ragioni per richiamarla. NOTA 14: Il termine “manìa” dev’essere inteso qui nel senso generale di «pazzia», e non in quello specialistico che ha acquisito presso i medici, verso il secondo secolo avanti Cristo, di «turbamento del pensiero e mutamento negli usi e nelle abitudini di salute, con febbre» (vedi a questo proposito il rigoroso studio di J. Pigeaud, “Folie et cures de la folie”, cit.). Si osserverà che Ippocrate, rifiutando di attribuire alla “manìa” il comportamento dell’Abderita, ne appare ancora più perplesso: lungi dal fare una diagnosi, la “Lettera a Filopemene” esprime una serie di dubbi, o di «ipotesi di lavoro». Se la ragione non manca a Democrito, non è forse spinto a qualche eccesso da un’anima troppo vigorosa (“psychès tinà rhòsis hyperbàllousa”)? Presenta l’apparenza della follia perché vive come un solitario, o cerca la solitudine perché agisce da filosofo? Da una frase all’altra, in tutto il passo, si rovesciano le prospettive, e rimane un’unica certezza: l’ambivalenza del comportamento che saggi e pazzi hanno in comune. NOTA 15: Fa così la sua apparizione il tema di una malinconia pastorale, destinato a innumerevoli variazioni. Diogene Laerzio, dal canto suo, adotta un registro più funebre: «Si esercitava, stando ad Antistene, a mettere variamente alla prova le impressioni della sua immaginazione ritirandosi di quando in quando in solitudine e indugiando nei cimiteri» (Vite, nono, 37). NOTA 16: Come l’Ippocrate degli “Aforismi” («Se tristezza e paura durano a lungo, un simile stato dipende dalla bile nera», sesto, 23), lo pseudo-Ippocrate delle Lettere mette in stretta relazione uno stato affettivo e uno stato fisiologico, un comportamento e un umore: la bile nera coesiste con sentimenti particolari, di cui qui è la causa ma di cui può essere anche l’effetto. E’ nota l’importanza di questa correlazione dell’anima e del corpo nella cultura occidentale. NOTA 17: Oltre che alla tradizione propriamente ippocratica, ricordata nella nota precedente, è alla tradizione derivata da Aristotele che il testo fa riferimento. Non soltanto perché a proposito di Democrito egli collega la misantropia alla bile nera, come fa il “Problema XXX” a proposito di Bellerofonte («Cercava i luoghi reconditi, per questo Omero dice di lui nei suoi versi: ” ma quando fu in preda all’odio di tutti i numi, allora per la pianura Alea solingo errava, divorandosi il cuore, fuggendo l’orma degli umani”», ed. J. Pigeaud, p. 85); ma, soprattutto, perché tra il malinconico e il saggio istituisce una relazione di quasi identità. Perdere i contatti col mondo può essere una caratteristica tanto dei malinconici quanto degli studiosi, tutta la “paidèia” dei quali si sforza di giungere alla “sophìa”; da questi atteggiamenti analoghi non si può forse inferire un’identica causa? Così saggezza e malinconia sono riferite a una stessa «disposizione», la “Lettera a Filopemene” descrive una “diàthesis” del saggio, come il “Problema XXX” analizza la “diàthesis” della bile nera (vedi un’interessante occorrenza di questa parola a p. 106 dell’edizione Pigeaud). NOTA 18: Il saggio qui descritto è in cerca di “hesychìa” (di un ambiente tranquillo), che acquietando il corpo porti a una “ataraxìa” (a un’assenza di turbamento nell’anima). Così affiora in questo passo una terza tradizione, questa volta democritea, che numerose testimonianze e citazioni hanno trasmesso fino a noi. Vedi per esempio Diogene Laerzio: per Democrito, «il fine della vita morale è la gioia, che non è la stessa cosa del piacere, come taluni hanno frainteso, ma la serenità e l’equilibrio che conosce durevolmente l’anima non turbata da alcuna paura, superstizione o passione. Egli dà a questo stato il nome di benessere, e molti altri nomi ancora» (“Vite” nono, 45). Questo «benessere» dell’anima traduce “euthymìa”, parola che Ippocrate qui non usa, ma tutto si svolge, in questa “Lettera”, come se il personaggio del medico facesse sua, a poco a poco, la filosofia del suo «paziente». NOTA 19: «Agitazione» traduce “thòrybos”: è la stessa parola che Ippocrate, nella lettera precedente, attribuiva agli Abderiti (vedi nota 12). NOTA 20: Il greco dice “pòlos”, ma si tratta della volta celeste: «Il polo, per gli Antichi, non era, come per i Moderni, il punto che segna l’estremità dell’asse ma l’involucro dell’universo» (scolio agli “Uccelli” di Aristofane, v. 179). Evocando d’altra parte gli astri “polykìnetoi”, agitati da molteplici moti, Ippocrate in questo caso ha come referente la fisica di Democrito e i suoi moti vorticosi. NOTA 21: Si tratta forse di Dionigi di Alicarnasso, lo storico e retore greco del primo secolo avanti Cristo. Alicarnasso si trova nel golfo di Cos, patria di Ippocrate. NOTA 22: L’autore usa in questo passo tre termini che non sono sinonimi: “ametrìa”, per designare l’eccesso in quanto mancanza di misura; “hyperbàllon”, per designare ciò che eccede (è la parola impiegata più su a proposito dell’anima di Democrito, cfr. nota 14); “pleonàzon”, per designare ciò che sovrabbonda. L’errore dei semi- abili è di scambiare “l’hyperbàllon” dell’anima per una “ametrìa”. NOTA 23: Dopo il ragionamento filosofico, il metodo scientifico. Un testo tardo del “Corpus ippocratico” insiste sulla necessità, per la medicina, di ragionare su fatti: «Colui che sa questo deve, per praticare la medicina, dedicarsi dapprima non già a ragionamenti probabili, ma all’esperienza ragionata… Si trarrà partito non da ciò che si fonda sul solo ragionamento, ma da ciò che si fonda sui fatti dimostrati; ché l’affermazione puramente verbale è ingannevole e deludente. Perciò, in generale, occorre attenersi ai fatti e dedicarvisi senza riserve, se si vuole ottenere quella capacità facile e sicura che chiamiamo medicina…» (“Precetti”, primo, 2, in Robert Joly, “Hippocrate”. “Médecine grecque”, Parigi, Gallimard, 1964). NOTA 24: Letteralmente: la donna ha in sé qualcosa di “akòlaston”, di non sfrondato, di non potato, questa parola prepara il paragone dendrologico che segue (Galeno svilirà in ben altro modo la donna, definendola «animale mutilo»). Democrito, citato da Stobeo (“Florilegio”, quarto, 22, 199) non la pensava diversamente: «La donna è portata alla malizia ben più dell’uomo». NOTA 25: Oltre alle figure decorative, come statue di poppa e figure di prua, le navi greche potevano avere insegne e polene (cfr. Erodoto, ottavo, 88; Strabone, secondo, 3, 4; Diodoro, quarto, 47). NOTA 26: Il paragone tra una nave e un uccello è frequente nella letteratura greca: «I lisci remi, queste ali dei navigli», dice Omero (“Odissea”, undicesimo, 125). E Aristotele: «Se un vascello mercantile provasse ad andare a remi andrebbe come uno di quegli olotteri le cui ali sono troppo deboli per il loro corpo, anziché andare come un uccello» (“De inc. anim.”, 1O, 5). NOTA 27: “Metriàzein”: ritornando all’idea di giusta misura (cfr. nota 22), poi preoccupandosi di un possibile eccesso dell’ilarità di Democrito, Ippocrate completa, più che contraddire, la precedente lettera a Dionigi: se il filosofo è un uomo superiore, dotato di una “rhòsis hyperbàllousa”, resta da sapere se non pecchi di “ametrìa”. NOTA 28: Sebbene questo sogno presenti un interesse più romanzesco che medico, è opportuno forse ricordare quale importanza attribuiva all’attività onirica il “Regime” di Ippocrate: «Colui che ha una conoscenza precisa dei segni che si producono nel sonno constaterà che hanno un gran peso sotto tutti gli aspetti. Questo perché l’anima, quando è al servizio del corpo desto, si divide tra molti compiti; non dispone liberamente di sé, ma si dà parzialmente a ogni facoltà del corpo all’udito, alla vista, al tatto, alla deambulazione, alle attività dell’intero corpo; l’intelligenza non è padrona di sé. Ma quando il corpo rimane tranquillo, l’anima, messa in moto e desta, governa la propria sfera e compie da sola tutte le azioni del corpo: ché quest’ultimo dorme e non sente nulla, mentre l’anima desta conosce tutto, vede ciò che è visibile, ode ciò che è udibile, cammina, tocca, si affligge, riflette, nell’angusto spazio in cui si trova; tutte le funzioni del corpo o dell’anima, nel sonno l’anima le svolge tutte. Colui, quindi, che sa giudicare questo correttamente conosce una buona parte della scienza» (quarto, 86, 1, in R. Joly, cit.). L’autore distingue allora due categorie di sogni: quelli «che sono divini e annunciano, per le città o gli individui, mali o beni»; e quelli «attraverso i quali l’anima annuncia le affezioni del corpo». Nella “Lettera a Filopemene”, il sogno dello pseudo-Ippocrate appartiene chiaramente alla prima categoria: non soltanto un dio lo invia, ma si invia lui stesso, se così si può dire, facendosi accompagnare da allegorie. Due particolarità meritano menzione: è il sogno di un medico, non di un paziente; e ha valore di sintomo e di premonizione al tempo stesso, poiché rivela non soltanto lo stato attuale di Democrito, ma la futura evoluzione di Ippocrate nei suoi confronti. NOTA 29: Emblematico della medicina, il serpente è tanto più legato ad Asclepio in quanto il dio, si diceva, si era reincarnato in rettile. Questa fu la forma che adottò per nuotare da Epidauro a Roma, nel terzo secolo avanti Cristo; sappiamo anche che alla sua morte, posto nel firmamento da Apollo, Asclepio era diventato la costellazione del Serpentario. NOTA 30: “Phàsma” potrebbe significare anche «fantasma». Sul significato dei termini affini “phantasìa”, “phantastikòn” “phàntasma”, “phantastòn”, cfr. Jackie Pigeaud, «Voir, imaginer, rêver, être fou», “Littérature, Médecine, Société”, n. 5, 1983. NOTA 31: Apollo ha cominciato la sua carriera divina con l’uccisione del serpente Pitone; avendo poi persuaso Pan a rivelargli l’arte di profetizzare si è impadronito dell’oracolo di Delfi, affidandolo alia «pitonessa». Regnando d’altronde sulle arti e le scienze, controlla anche la medicina, al punto da confondersi con Peone in quanto dio guaritore. I suoi doni terapeutici sono stati trasmessi ad Asclepio, il figlio che ha avuto da Coronide. NOTA 32: Questo medico ed erborista ci ha trasmesso dei frammenti di Democrito, egli stesso è citato da Dioscoride e Galeno. NOTA 33: Sulla presunta stupidità degli Abderiti, proverbiale nell’antichità, vedi ad esempio Plinio, 25, 8. NOTA 34: Un trattato ippocratico ricollegato alla scuola di Cnido. “Della natura del bambino”, espone una teoria della vita vegetale; vi si legge in particolare che «tutte le piante vivono dell’umore della terra e che il loro stato dipende da quello della terra quanto all’umore», come lo stato di un bambino dipende da quello della madre (cfr. R. Joly, cit., p. 199). Vedi anche “Del regime”, secondo, 37, 2- 3 NOTA 35: Nella medicina ippocratica, di cui l’autore delle “Lettere” si studia di dare qui un compendio, il trattamento è strettamente legato alle stagioni: vedi ad esempio “Delle arie, delle acque, dei luoghi”, 1 romano: «Colui che voglia approfondire la medicina… prima scruterà attentamente le stagioni dell’anno, il rispettivo influsso che ciascuna di esse esercita, che non soltanto non si somigliano l’un l’altra, ma sono assai diverse, in se stesse e nei loro mutamenti a un tempo; poi esaminerà quali sono i venti caldi e freddi…». In linea di massima si tratta, per il terapeuta, di procedere a una valutazione sistematica dell’ambiente circostante, in quanto esso determina salute e malattia. NOTA 36: Il “kairòs”, opportunità o occasione, è un concetto ippocratico fondamentale: essere medico vuol dire spiare il momento propizio, l’istante in cui la natura fa segno di passare a un’azione immediata. NOTA 37: a) Dall’epoca preippocratica al diciannovesimo secolo, gli ellebori nero e bianco hanno occupato un posto di primo piano nel pensiero medico. Gli antichi facevano uso di un decotto di “Helleborus niger” o di “Helleborus viridis” ranuncolacee dagli effetti cardiotonici ed emetici, la raccolta di questo pericoloso e potente purgante della bile nera era circondata da numerose precauzioni. Nella sua “Histoire du traitement de la mélancolie”, cit., J. Starobinski ha preso l’elleboro come esempio della valorizzazione fantastica che accompagna talune sostanze: «L’immaginazione è incline a costruire tutta una farmacologia favolosa, i farmaci vengono allora investiti da una duplice esigenza: quella del potere specifico, e quella della panacea. Ora si sostiene che la “buona erba” sia l’esatto antidoto di un veleno, la cura unica e pressoché predestinata di un male particolare, ora le si conferisce un potere infinitamente esteso, una prodigiosa polivalenza, che giustifica il suo impiego in una quantità di malattie diversissime le une dalle altre». In realtà, l’elleboro era contemporaneamente una panacea e uno specifico. Questa «pianta sovrana» aveva un vastissimo campo d’azione, strettamente legato, beninteso, alla teoria degli umori e a quella della purgazione: poteva essere prescritta in caso di lebbra o di gotta, di idrofobia o mal di testa, di vitiligine o di oftalmia – pur conservando, come in queste “Lettere”, la sua reputazione di rimedio per eccellenza alle affezioni malinconiche, si riteneva anche che stimolasse l’attività intellettuale e la facoltà inventiva (su questo punto, cfr. Plinio il Vecchio, “Storia naturale”, venticinquesimo, 21, o Petronio, “Satyricon”, 88). Secondo un’antica tradizione, di cui si fa eco lo stesso Petronio, Democrito era un eccellente rizotomo: «Arrivò a estrarre il succo di tutte le piante, e, onde non rimanessero ignote le virtù delle pietre e dei vegetali, passò tutta la vita a sperimentare». Ma nelle “Lettere” di Ippocrate è quest’ultimo, invece, ad apparire come lo specialista dell’elleboro; la ventunesima lettera, qui non riprodotta, costituisce anzi un trattato sull’elleborismo, che il medico invia al suo presunto malato e di cui ecco un breve estratto: «In coloro che non evacuano facilmente dall’alto, bisogna rendere, prima di amministrare la pozione, il corpo umido con un’alimentazione più abbondante e il riposo» (“Aforismi”, sesto, 13). «Esortare colui che ha bevuto dell’elleboro a darsi più movimento e a non abbandonarsi al sonno… L’elleboro è pericoloso per coloro che hanno le carni sane… Lo spasmo che segue la somministrazione dell’elleboro è funesto» (ibid., 16; cd. E. Littré). b) Una specie di elleboro, il “melampòdion”, porta il nome di Melampo di Pilo che, scoperto l’effetto purgativo di quest’erba sulle capre, fece bere il loro latte alle figlie di Preto e le guarì così dalla loro pazzia (cfr. Plinio il Vecchio, “Storia naturale”, venticinquesimo, 21-22). Melampo, «l’uomo dai piedi neri», possedeva numerose virtù: da Apollo aveva ricevuto il dono della profezia; da una nidiata di serpenti la facoltà di capire il linguaggio degli uccelli e degli insetti, viene anche considerato, da taluni, il primo medico. Lisippa, Ifinoe e Ifianassa, figlie del re di Tirinto, erano state punite dagli dei con la demenza per aver offeso Era, o per essere state troppo prese dai piaceri dell’amore; come Io, che presenta peraltro alcune analogie con la loro madre Stenebea, vagavano sulle montagne assalendo i viandanti, simili a vacche punte da tafani. Avendo il loro padre cominciato col rifiutare i costosi servigi di Melampo, la pazzia dilagò tra le donne di Argo; assai diverso da Ippocrate sotto questo aspetto, Melampo pretese onorari ancora più alti per guarire un male così grave. Finì con lo sposare Lisippa. c) L’elleboro porta anche, specialmente in Dioscoride, il nome di “antikyrikòn”, che deve a una città della Focide o a una città omonima della Ftiotide, che si presumeva producesse in abbondanza la specie più efficace; l’espressione “navigare Anticyras” – «fare rotta per Anticira», cioè «dar segni di pazzia» – è divenuta proverbiale nella Roma antica e nel Rinascimento (cfr. Orazio, “Satire”, secondo, 3, 83; Plauto, “Menechmi”, 247; Erasmo, “Adagia”). Per quanto riguarda la pazzia di Eracle, menzionata fin dalle prime righe del “Problema XXX” di Aristotele, ne sono state date svariate versioni nell’antichità: ora l’eroe si addormenta dopo l’uccisione dei figli e si desta in uno stato d’animo suicida, come nell'”Eracle” di Euripide o nell'”Ercole furioso” di Seneca; ora l’accento è posto sulla sua laboriosa espiazione, e le Dodici Fatiche appaiono altrettante tappe di un processo purificatore, ora la pazzia è invece una conseguenza delle Fatiche stesse, cioè della stanchezza accumulata nel corso del loro compimento. Bisognerebbe parlare al plurale delle pazzie di questo eroe, dato che oscilla tra mania, epilessia e malinconia (vedi a questo proposito J. Pigeaud, “La Maladie de l’âme”, cit.). Resta il fatto che nelle versioni più diffuse del mito, né la “Collana ippocratica” (che menziona la «malattia di Eracle») rappresentano l’eroe mentre ingerisce elleboro. NOTA 38: Il simbolo della salute: un pentagramma, tra le cui punte si iscrivono le lettere della parola “hygìeia”, salute? (Una figura simile è riprodotta nell’edizione di Bompart, 1632). NOTA 39: L’autore ha coniato una parola molto interessante: “hyperphilosophèin”, che Littré traduce con «dedicarsi a una filosofia trascendentale» e Bailly con «filosofare oltremisura». Mi sembra che la parola sia da accostare alla “rhòsis hyperbàllousa” che indica a un tempo l’eccellenza e l’eccesso di Democrito. NOTA 40: Nel Mediterraneo orientale, i venti etesii soffiano ogni anno durante la canicola. Ippocrate prestava loro, come a tutti i dati meteorologici, molta attenzione (vedi ad esempio “Epidemie”, 1 romano, 1 romano). NOTA 41: Due citazioni si impongono qui, una da Platone, che descrive all’inizio del “Fedro” la passeggiata sulle rive dell’Ilisso «SOCRATE: Ah! per Era! ecco un bel luogo per fermarsi! Il platano che c’è qui, infatti, è in verità tanto spazioso quanto ampio! Questo agnocasto, cresciuto così bene, dà un’ombra magnifica! Nel pieno della sua fioritura com’è, profuma questo luogo nel modo più soave. E la fonte poi, che scorre sotto il platano, ce n’è forse una più gradevole e dall’acqua di tale freschezza, come almeno col piede è dato provare? A giudicare da queste figurine e statuette di marmo, dev’essere un luogo sacro alle ninfe e ad Acheloo… Ma la cosa più deliziosa di tutte è questo letto d’erba, ché col suo dolce pendio è naturalmente adatto, per chi vi si sdrai, a posarvi comodamente il capo» (230 b-c). L’altra citazione è da J. Pigeaud, che ha finemente raffrontato Platone e lo pseudo Ippocrate: «Se prendiamo il platano del Fedro, Socrate lo descrive spazioso e alto. Quello di Democrito è spazioso e molto basso. Opposizione dovuta al caso? Il platano rasoterra di Democrito è il segno che obbliga a leggere la “Lettera” 17 nel suo rapporto col “Fedro”, e ci presenta un Democrito che è, in sostanza, l’inverso di Socrate. Socrate è l’uomo del dialogo, del piacere del dialogo. Democrito solo, sul suo sedile di pietra (che si oppone alla morbida erbetta descritta da Socrate) è l’uomo del monologo» (“La Maladie de l’âme”, cit. p. 455). Altra differenza tra questi paesaggi simbolici: alla morbida erbetta platonica mi sembra che Ippocrate opponga anche la vite proliferante: possibile allusione, attraverso Dioniso e il vino, al “Problema XXX” di Aristotele, in cui si sviluppa un lungo paragone tra ebbrezza e malinconia. NOTA 42: Democrito lavora “enthousiodòs”, cioè in un trasporto divino: la sua pazzia, se pazzia è, non è la pazzia patologica, ma quella dell’ispirazione. Differenza radicale, teorizzata non soltanto da Platone – si capisce ancora meglio il riferimento al testo del “Fedro” – ma da Democrito stesso, stando alle testimonianze. Cicerone: «Ho sentito dire spesso, infatti (e questa opinione, dicono è quella che Democrito e Platone ci hanno lasciato nei loro scritti), che nessuno potrebbe essere un vero poeta se non infiamma gli animi e non ha un afflato paragonabile al delirio» (Dell'”oratore”, secondo, 46, 194; cfr. anche “Della divinazione”, 1 romano, 38, 80). Clemente Alessandrino: «E Democrito, proprio come Platone: ciò che un poeta scrive sotto l’impulso del trasporto divino e del sacro afflato è veramente bello» (“Stromata”, sesto, 168). Ippocrate, stando ben attento a non interrompere quell’entusiasmo, aspetta come sempre il “kairòs” (cfr. nota 36). NOTA 43: Questa risposta suscita almeno tre osservazioni: a) Ippocrate presuppone in Democrito lo stesso «entusiasmo» che questi attribuisce ai veri poeti: come se la scrittura della pazzia e la scrittura poetica dipendessero da una medesima «ispirazione». b) In una lettera a Ippocrate, qui non riprodotta, Democrito dirà al suo nuovo amico che al momento del loro incontro stava scrivendo non già un’opera sulla pazzia, ma i trattati “Sull’ordinamento dell’universo, Descrizione del polo e Sugli astri della sfera dei fissi”: questa contraddizione ha un significato? c) Accluso alla stessa lettera, gli invia un “Discorso sulla pazzia” – lo stesso che stava (forse) scrivendo quando il medico gli fece visita – ma che è in realtà di Ippocrate, e «ispirato» da cima a fondo dal “Male sacro” di quest’ultimo… Topica, astuzia del testo o effetto di successive redazioni, è evidente che queste Lettere possono essere di una temibile complessità. Di più questo “Perì manìes”, di cui diamo il testo integrale (ed. E. Littré), è in netta contraddizione con la “Lettera a Damagete”: «Diventiamo alienati, come ho detto nel libro sul Male sacro (paragrafi 14 e 15), per l’umidità dell’encefalo, in cui hanno luogo le operazioni dell’anima. Quando l’encefalo è più umido di quanto sia opportuno, necessariamente si muove, muovendosi esso, né la vista né l’udito sono sicuri; il paziente ode e vede ora una cosa ora un’altra, la lingua esprime ciò che vede e ode, ma per tutto il tempo che il cervello è in riposo, l’uomo è in possesso delle sue facoltà. L’alterazione del cervello avviene a causa della pituita o della bile; ecco i segni caratteristici: i pazzi per effetto della pituita sono pacifici e non gridano né si agitano; i pazzi per effetto della bile menano le mani sono malvagi e non stanno mai fermi. Queste sono le cause che fanno sì che la pazzia sia continua. Se il malato è in preda a timori e terrori ciò è dovuto al cambiamento che subisce il cervello riscaldato dalla bile, che vi si precipita dalle vene sanguigne, ma, quando la bile rientra nelle vene e nel corpo, torna la calma. D’altro canto, il paziente è in balia della tristezza, dell’angoscia e perde la memoria, quando il cervello è raffreddato contro la regola dalla pituita e si contrae contrariamente al solito. Quando improvvisamente il cervello è riscaldato dalla bile tramite le suddette vene, il sangue ribolle, il paziente fa sogni spaventosi; e, nello stesso modo in cui, in un uomo desto, il volto è ardente, gli occhi rossi, e la mente pensa a commettere qualche atto di violenza così il sonno presenta questi fenomeni: ma torna la calma quando il sangue si disperde di nuovo nelle vene. Nel quinto libro delle “Epidemie” ho riferito (paragrafo 80) come sopraggiunsero perdita della voce, perdita della conoscenza, frequenti attacchi di delirio e recidive; la lingua era secca e se non la umettava non era in grado di articolare, la lingua era quasi sempre amarissima, il salasso risolveva; acqua, idromele, pozioni di elleboro; il paziente, dopo aver resistito per un po’, soccombette. Ce n’era un altro (paragrafo 18) che, quando si dava al bere, si spaventava della suonatrice di flauto, se questa cominciava a suonare; ma, se la sentiva di giorno, non provava alcuna emozione». NOTA 44: Quest’ambivalenza della bile nera è esposta da Aristotele nel “Problema XXX”, a cui è evidente il riferimento: «La bile nera diventa sia caldissima che freddissima; giacché la stessa cosa, per natura, può presentare questi due stati… Quando il miscuglio originato dalla bile nera è troppo freddo, come abbiamo detto, produce delle atimie di ogni genere; troppo caldo, delle eutimie… Poiché la forza della bile nera è incostante incostanti sono i malinconici» (ed. J. Pigeaud, cit.). NOTA 45: Le panegirie radunavano intorno a un santuario comune il popolo di una città o di un gruppo di città; erano una via di mezzo tra la festa, la fiera e i giochi. Così le Panatenee ad Atene, le Delia degli Ioni, o i Giochi Olimpici che attiravano tutta l’Ellade. NOTA 46: Vedi, ad esempio, il frammento B 76 di Democrito: «Non la ragione, ma la calamità è l’istitutrice delle nature puerili». NOTA 47: Plinio e Diodoro, specialmente, ci hanno tramandato pietose descrizioni della vita dei minatori; per lo più schiavi, lavoravano di giorno o di notte in gallerie mal aerate; gli incidenti erano frequenti, così come le rivolte (cfr. Tucidide, settimo, 27, a proposito degli schiavi del Laurion). NOTA 48: Vedi in particolare il frammento B 278 di Democrito: «Gli uomini annoverano nel numero delle cose che sembrano loro necessarie l’avere dei figli: è questo un obbligo della natura in pari tempo che un’istituzione primitiva… Una volta nati, i loro genitori faticano a nutrire ciascuno come meglio possono…». NOTA 49: Tersite, «l’uomo più brutto che sia venuto sotto Troia», varo, zoppo e «con la testa a punta», è un soldato acheo che, nell'”Iliade”, insulta Agamennone e che Ulisse punisce duramente (secondo, 212-277). NOTA 50: “Anàrmostos”: Ippocrate rimprovera a Democrito di non adattarsi all’ordine sociale, né all’ordine del mondo; più su l’ha definito “àtopos”. NOTA 51: La controversia qui è tra la “tàxis”, l’ordine rappresentato da Ippocrate (è la stessa “tàxis” che gli pareva dar senso al suo sogno, nella “Lettera a Filopemene”), e l'”ataxìa” del filosofo atomista, per il quale il mondo è un moto vorticoso. NOTA 52: Cfr. il frammento B 219 di Democrito: «Il desiderio delle ricchezze, se non è contenuto nei limiti della sazietà, è ben più insopportabile dell’estrema povertà; che più grandi sono i desideri, più grandi sono i bisogni». NOTA 53: Cfr. il frammento B 198: «L’animale che sente un bisogno sa di che cosa ha bisogno, l’uomo che sente un bisogno no». NOTA 54: Asclepio fu folgorato da Zeus per aver osato risuscitare i morti, mettendo così in pericolo l’ordine del mondo. NOTA 55: Anche il “kòsmos” è “misànthropos”: questo ragionamento in forma di diatriba dimostra che è Democrito, e non Ippocrate, a trovarsi in profondo accordo col mondo.