Haim Baharier
“Fatti piccolo e il mondo migliorerà. Questo mi insegnò un clochard”
«Che devo dirle? Restò muto per anni. All’inizio quel silenzio mi parve colpevole. In me, che ero il figlio, crebbe il dubbio atroce, che mio padre si fosse salvato grazie a una qualche forma di collaborazione. Sospettai che fosse stato un “kapò”. In seguito, incontrando dei compagni che avevano condiviso quell’esperienza, seppi che non era così. Che doveva la sua sopravvivenza alla fortuna, alla tenacia, alla disperazione ».
Cosa faceva nella vita?
«Insieme a mia madre creò una piccola azienda tessile che sviluppò fino a diventare molto importante. Contribuii anch’io alla crescita. Poi, un giorno, mentre stavo per rientrare con un volo da New York, mi telefonò mia moglie. Avvertì che papà stava morendo e che aveva chiesto di me. Lo raggiunsi ad Anversa dove viveva».
Fece in tempo a incontrarlo?
«Sì, resistette fino al mio arrivo. Era in cura in ospedale. Morì un giovedì sera. Decise di farlo, togliendosi tutti i tubi. Quella mattina feci in tempo a vederlo. Provato. Ma anche sollevato. La sua voce mi giunse stanca: “Il mio primogenito è arrivato. Devo dirti una cosa importante”».
Cos’era importante?
«Per quanto puoi, disse, impegna la tua vita nel cercare di camminare sul percorso della memoria autentica. Non quella celebrativa, ma l’autentica memoria di Israele. Che non riguarda la persecuzione, ma l’uscita dall’Egitto e la liberazione dalla schiavitù».
Immagino che fosse abbastanza adulto da restare turbato da quell’invito .
«Turbato no, anzi. Era come se il mio lavoro improvvisamente si trovasse a un bivio. E tornasse in tutta la sua potenza il rapporto con la tradizione».
Che lei aveva vissuto, suppongo, fin da bambino .
«Vede, la nostra fabbrica tessile era nata per la caparbietà di mio padre che era diventato apprendista quando, giovanissimo, restò orfano. Ma anche per l’abilità di mia madre che aveva imparato a creare delle collezioni. Ma il fatto che avessero avuto successo non li distrasse dai loro compiti. Mio padre si era sempre alzato alle sei del mattino. Prima di recarsi a lavoro andava per due ore nella casa di studio che fungeva anche da Tempio. E vi tornava la sera. In mezzo, per dieci ore, lavorava in fabbrica. La mamma gli portava il pane e le aringhe».
Era la loro vita. Ma la sua?
«La mia fu quella di un pessimo scolaro. Ricordo pagelle terribili e la difficoltà di sostenere lo sguardo di mio padre ogni qualvolta ero convocato. Un giorno presi coraggio e gli dissi: ci vuole sempre un ultimo della classe, questo lo sai. Mi guardò e nell’ironia involontaria del momento rispose: è vero, ma non sta scritto da nessuna parte che debba esserlo proprio tu».
Che cos’era che non funzionava?
«Non lo so. Certo contribuì in quella Parigi dei primi anni Cinquanta l’aberrante situazione di reduci. Gli ebrei arrivavano dalla Polonia, dalla Lituania, dalla Germania, dalla Russia. Io e mio fratello eravamo nati a Parigi. Ma il trauma era di vivere tra due culture diverse. E la nostra lingua madre era una lingua straniera. Col tempo tutto questo si trasformò in un vantaggio. Ma in quegli anni fu terribile».
Come reagì?
«Dapprima con frustrazione. Sentivo di essere l’opposto del mito dell’ebreo intelligente. Non capivo
Avevo incontrato Haim Baharier qualche anno fa durante un confronto con il teologo Piero Coda. Mi sembrò, cosa rara, che si potesse dialogare di religione con sapienza, garbo, acutezza. Scoprii in Haim Baharier il grande biblista. Seppi in seguito che era anche un matematico e uno psicoanalista. L’ho rivisto e riascoltato qualche mese fa, nel Duomo di Amelia, mentre discorreva con Erri De Luca. E ancora una volta – davanti a un affollatissimo pubblico – ho avvertito il fascino e il pathos che certe figure ci trasmettono. Quel senso di gratitudine che nasce quando diciamo tra noi: questo avrei potuto pensarlo io. Ma lui ha saputo dirlo meglio. Haim è un uomo ironico e dolce. Mi incuriosisce la sua storia di cui so poco o nulla. Ha origini polacche. È nato a Parigi. Vive da più di trent’anni a Milano. È qui che vado a trovarlo. Mi attende con pazienza. C’è una parola che mi frulla nella testa e che ho ritrovato spesso nei suoi discorsi: “claudicanza”. Cos’è la claudicanza? «Di solito è lo zoppicare. Da bambino avevo scarpe che mi stringevano provocando una forma di claudicanza», mi dice Haim.
Possiamo dunque immaginare la claudicanza come un difetto del nostro corpo? Una condizione di cui vergognarsi?
«Non è in questo senso che va intesa. Essa ci mette di fronte alla nostra fragilità. Ci ridimensiona. Ma al tempo stesso ci indica un percorso. Lo si legge nella Torah e in particolare nella Genesi , dove è chiaro che la claudicanza non rinvia all’imperfezione ma alla perfettibilità».
Solo se hai difetti puoi sperare di correggerli?
«È certamente un aspetto ma c’è nella claudicanza un’idea più profonda che rinvia al nostro essere incompiuti. Essa rivela la coscienza della nostra finitezza.
Del nostro limite. Si trattò di qualcosa che appresi da bambino, dapprima confusamente e poi in maniera sempre più chiara. Fu Monsieur Chouchani a darmi il coraggio di guardare dentro di me».
Lei ne ha raccontato la storia con grande riconoscenza. Chi era quest’uomo che, a gli inizi degli anni Cinquanta, attraversò la sua vita?
«Non era un rabbino. Ci tengo a dirlo. Era un clochard .
Arrivò un giorno a Parigi e il babbo lo ebbe ospite in casa. Abitavamo al Marais. Quando il Marais non era alla moda. Avevo sei o sette anni. Chouchani si installò nella mia stanza. Scoprii, solo in seguito, che quell’uomo era una leggenda».
Leggenda in che senso?
«È stato uno dei grandi enigmi della seconda metà del Novecento. Impressionava la vastità delle sue conoscenze. Emmanuel Lévinas fu suo allievo. Disse che solo Dio sa ciò che Chouchani sapeva. Un grande fisico francese, che insegnava al Polytechnique, sostenne di aver studiato con lui».
Perché dice che era un clochard?
«Vestiva come un clochard . Indossava senza mai sfilarselo un logoro cappotto nero. Non aveva nulla con sé. Nulla. Tranne una misteriosa valigia. Che quando sparì ci lasciò in casa».
Sparì e non ne sapeste più niente?
«Sparì, quest’uomo, ruvido a tratti brusco, che mi insegnò il principio della claudicanza: devi saper arretrare e farti piccolo. Solo così, lasciando spazio agli altri, il mondo migliorerà. Si dice che la sua tomba sia a Montevideo. Ma non lo credo. Non so dove sia sepolto ».
Ha accennato alla sua infanzia. Da dove proviene?
«Sono nato a Parigi. I miei genitori erano ebrei polacchi. Mio padre finì ad Auschwitz. Fu uno dei pochissimi a tornare vivo da quell’inferno. Quando vi entrò non c’erano ancora i forni crematori e la camere a gas. Morivano di fame e di stenti».
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