07:46 ragazzi miei del sabato: e se fosse proprio il rap (dai quartieri a …) che manca alla nostra vita in comune? Siamo nel 2013 a ” BIENNALE DEMOCRAZIA ” E NOI DEL BLOG CI STIAMO ANCHE “IN RITARDO”—C’E’ ZAGREBELSKI…CHE POI VI FARO’ SENTIRE NEL SUO NUOVA DISCO RAP! COSA CI SI PUO’ FARE? C’E’ TUTTO DA IMPARARE (rima ragazzi, non è facile!)—Sarete a dormire, anche chi passa l’agosto a casa, è curioso non vi sento—Buona dormita : mio madre diceva che ” il sonno è una rosa “…buon roseto ma senza spine—ciao. chaira

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La musica dai quartieri alla nazione Amir: “Il rap è uno strumento potente”

L’mc romano e la sua canzone per i nuovi italiani: il miglior esempio di democrazia nel Paese

L’incontro con Amir a Biennale Democrazia

14/04/2013
ALICE CASTAGNERI
TORINO

A Biennale Democrazia si discute anche di rap.

Chi si sta chiedendo che cosa ci azzecchi l’hip hop con la democrazia, forse non ha mai ascoltato i testi di tanti artisti italiani. Per primi quelli di Amir, rapper con mamma romana e papà egiziano, che da sempre ha raccontato quella generazione di giovani italiani che lo Stato ancora si ostina a non riconoscere come tali. Figli di immigrati, nati in Italia, che frequentano il liceo, vanno in discoteca, mangiano la pizza, si ritrovano in strada a fare musica. Insomma ragazzi come tutti gli altri, ma ognuno con una storia diversa da raccontare.

 

Proprio le storie sono state il fulcro dell’incontro che si è tenuto ieri al Piccolo Regio Puccini, intitolato “Rap e democrazia. Dai quartieri alla nazione”. Alla conferenza sono intervenuti il rapper camerunense Fankam, i Ragazzi di Via Agliè -rapper di origine italo magrebina – Giovanni Ferrero, Erika Mattarella, e Mastafive nel ruolo di moderatore. Ad aprire il dibattito, però, è stato proprio Amir, che ha raccontato la sua storia. E l’inizio della sua passione per il rap: «Vedevo i video degli artisti su Mtv. Non di rapper, ovviamente, perché in quegli anni hip hop in tv se ne vedeva poco. Li guardavo e pensavo: uno come me, che abita in un quartiere alla periferia di Roma, con un padre in carcere, non ce la farà mai ad arrivare lì. Ma un giorno ho sentito qualcosa che mi ha cambiato la vita. Ho sentito dei ragazzi fare rap. E mi sono accorto che loro non cantavano. Parlavano. E così ho pensato di poterlo fare anche io. E ho iniziato a scrivere».

 

Da quelle prime rime Amir di strada ne ha fatta tanta. Ma non ha mai perso la capacità di comunicare attraverso i suoi pezzi. L’ultimo messaggio l’ha rivolto proprio a Giorgio Napolitano. Un appello per i nuovi italiani, per quei ragazzi di seconda generazione, che meritano di essere riconosciuti per ciò che sono. Un appello che è arrivato a destinazione e che ha ricevuto risposta nel discorso di fine anno del presidente della Repubblica. E che ha dimostrato che anche le idee che partono dal basso, da un quartiere, da una casa o da una strada, possono arrivare a tutta la nazione. E che cos’è questo se non il miglior esempio di democrazia?

Perché, alla fine, è questo che fa il rap: comunica. Dà voce a chi non ce l’ha. Dà voce a chi ha qualcosa da reclamare di diritto. Ed è uno strumento potentissimo, che alcuni potrebbero sfruttare meglio. «Tanti artisti in Italia non comprendono totalmente la forza di questo mezzo – dice Amir-. Credo che in un periodo difficile come questo tutti dovrebbero comunicare concetti forti. Ed evitare le banalità».

 

Il rap non è solo il linguaggio dei più giovani. Anche se loro lo capiscono meglio perché forse hanno meno pregiudizi. E’ il linguaggio di tutti. Un linguaggio facile, che non usa parole alte, ma che arriva all’anima e al cervello. Fa riflettere e scuote le coscienze . E non importa l’età, la religione, il colore della pelle. Tutti possono usare le rime per comunicare le proprie idee ed esprimere se stessi. Perché a chi ascolta rap non importa se chi canta è musulmano, cristiano o induista. A chi ascolta rap importa che quella musica sia di qualità. Ma purtroppo troppo spesso si tendono a usare etichette o a ragionare attraverso stereotipi. «Una volta mi hanno chiesto di partecipare a una trasmissione di cucina. Volevano che preparassi un piatto egiziano. Ma io non ho mai mangiato cibo egiziano a casa mia. Avrei potuto preparare la carbonara, ma non hanno voluto. E così ho rifiutato. Il primo kebab l’ho mangiato con i miei amici vicino casa», racconta Amir.

 

Storie simili ce ne sono a centinaia. E nel 2013 non si comprende perché sia così difficile essere italiani. Non si capisce proprio perché un ragazzo arabo non possa rappare in italiano. E forse sarebbe ora che anche qualche italiano rappasse in arabo. Perché questa è la democrazia. Questo è il rap.

twitter@alicetta (questo link non so come ci sia arrivato, se volete continuare a farvi  “una buona testa”, come direbbe il grande…guardate un po’ questo blog su Twitter–Lei ovviamente è…smagliosa! )

 

 

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