19:12 Invece che parlare del leone, vorrei farvi osservare SOLO POCHE PAROLE, ANZI UNA (SOTTO in blu) : siamo negli USA —perche’ a questo grande sembra necessario chiarire il termine “comico”–aggiungendo “di colore”…?

[audio:https://www.neldeliriononeromaisola.it/wp-content/uploads/2015/08/Almir-Guineto-Caxambump3.mp3|titles=Almir Guineto – Caxambu(mp3)]

 

 

l’articolo è di

Adam Gopnik, penna di lusso del New Yorker…

Philadelphia 1956–famosi giornalisti sono il fratello e la sorella e la madre…

 

 

 

MONDO
Tutti pazzi
per Cecil
La morte brutale di un leone ci turba più delle sofferenze di un essere umano Perché la sua uccisione stuzzica sentimenti profondi di ingiustizia Qui non c’è l’uomo contro una bestia ma l’animale contro una macchinazione.  L’iniquità di un dentista senza scrupoli ci ricorda il senso di colpa della nostra “supremazia culturale” Ecco perché ci scandalizziamo
ADAM GOPNIK

ORMAI TUTTI avranno sentito parlare del leone Cecil e della sua triste fine. Cecil era un leone famoso, per quanto possa esserlo un leone: era stato equipaggiato con un collare Gps e inserito in uno studio condotto nello Zimbabwe da un gruppo di scienziati britannici. La gente conosceva il suo nome, le sue abitudini, e alla fine ha conosciuto anche la sua fine. Lo sdegno suscitato dalla sua morte cruenta — ucciso e decapitato da un dentista in vacanza — in certi ambienti ha avuto una risonanza tale da diventare ben presto oggetto di scherno. «Comincerò ad andare in giro vestito da leone», ha twittato il comico di colore Davon Magwood…
” il comico di colore DAVON MAGWOOD…”
IL MANIFESTO RECITA: ” IN PIEDI PER I VOSTRI DIRITTI “!


PER CHI VUOL SEGUITARE…
insieme a una foto di se stesso travestito da re della savana. «Così gli sbirri sapranno che se mi ammazzano, i bianchi mi vendicheranno ».
La parola “sentimentalismo” spesso è usata a sproposito per cose che sono semplicemente molto sentite, ma sembra proprio che l’ondata di emozioni scatenata dalla fine di Cecil possa essere definita a giusto titolo come sentimentalismo: tutti a commuoversi per la fine di un animale mentre ci si disinteressa completamente di sofferenze molto più vicine e bisognose di conforto. La morte ingiusta di un leone ci turba più delle sofferenze non necessarie di uno zimbabwano. Ci sono tantissimi americani e zimbabwani che meriterebbero di ricevere almeno un po’ della nostra compassione, ma non ci riescono, si potrebbe pensare, per l’eccesso di cordoglio rivolto verso un unico animale morto. Piangiamo la morte dei leoni, sostengono i cinici, perché non pretendono nulla e dunque sono facili da amare: non sentendo da loro alcuna lamentela, presumiamo, con sentimentalismo, che siano riconoscenti.
L’ondata di emozioni suscitata dal leone morto è un fenomeno strano, che vale la pena di approfondire. La prima cosa da dire è che Cecil aveva un nome — dato da noi e non dai suoi simili, ma comunque un nome — e il semplice fatto di chiamare qualcosa Joe invece di «quella cosa» ha una capacità straordinaria di generare un legame emotivo. Un nome significa una faccia e un sentimento. Ma forse c’è una spiegazione più generosa e acuta del perché Cecil faccia notizia e tanti altri animali feriti, per non parlare di esseri umani, no: la spiegazione è che la storia della sua morte stuzzica sentimenti profondi di ingiustizia e iniquità. Il piano del dentista era talmente elaborato e includeva l’esborso di così tanti soldi (una fortuna, per i parametri dello Zimbabwe) per assicurarsi i servigi di una persona che attirasse il leone fuori dalla zona protetta, da far svanire anche la minima traccia di quel sentimento spurio di sfida leale che i cacciatori amano ascrivere alle loro azioni. Non era l’uomo contro la bestia, era Cecil contro una macchinazione. I cacciatori di solito cercano affannosamente di convincerci, a torto o a ragione, che anche loro rischiano la vita, non solo la preda: retorica alla Hemingway, del genere “Ho combattuto l’animale e io e lui eravamo una cosa sola, avvinti nella lotta”. Ma in questo caso lo scambio era palesemente e brutalmente squilibrato: da un Paese ricchissimo entrano soldi in un Paese corrotto (e disperatamente povero), e ne esce fuori un leone morto. Il dentista aveva un biglietto di ritorno per il Minnesota.
Ora, una delle cose che la scienza sociale ci ha detto negli ultimi anni è che è il sentimento di ingiustizia, ancor più del sentimento di empatia verso le sofferenze di un’altra persona, che ci spinge ad agire in quei modi appassionati e apparentemente irrazionali che pure sono alla base di qualsiasi moralità, che ci induce ad agire sulla scorta di qualcosa di più del semplice interesse egoistico. Piaccia o no, non siamo solo macchine empatiche, ma anche (forse di più) collettori di ingiustizie.
Una dimostrazione famosa è quella dell’esperimento dell’«ultimatum »: si prendono due persone che non si conoscono fra loro e gli si dà una somma di denaro, che una delle due dividerà come meglio crede, mentre l’altra potrà semplicemente accettare o rifiutare l’offerta. Anche se la seconda persona non ha fatto assolutamente nulla per guadagnarsi quei soldi, il più delle volte rifiuterà un’offerta percepita come iniqua. «Io mi tengo novanta e a te do dieci»: il senso di ingiustizia di un’offerta del genere è sufficiente a spingere le persone a rifiutarla, anche se quei dieci dollari fossero piovuti dal cielo. (Qual- cuno dice che la reazione è dovuta al fatto che le somme sono irrisorie, che se per esempio ci si dovesse spartire cento milioni di dollari e a uno ne offrissero dieci mentre a un altro ne toccassero novanta, il primo si prenderebbe i suoi dieci milioni e sarebbe contento. Ma quei pochi fortunati che vivono in un mondo dove cifre del genere sono pane quotidiano — stelle del cinema e banchieri — rifiutano accordi di questo tipo se ritengono che siano strutturati ingiustamente o iniqui).
Tutto questo ben si sposa con la nostra conoscenza generale degli impulsi umani: in qualsiasi parco giochi di questa terra è raro trovare un bambino che urli «È una cosa cattiva!» di fronte a un atto di bullismo (ma se lo trovate, promette bene come adulto). Però qualsiasi parco giochi rimbomba di pargoli che strillano «Non è giusto!»: i principi di equità sembrano più universalmente intuitivi dei principi di giusto e sbagliato, che forse andrebbero fondati sull’equità. Una delle cose più strane di noi esseri umani è che dobbiamo fare un certo sforzo per solidarizzare con le vittime di atti crudeli, ma la percezione dell’ingiustizia sembra quasi istintiva. (Con un paradosso fin troppo palese, lo stesso impulso ci spinge a indignarci nei confronti di coloro che si scagliano con furia eccessiva contro il povero dentista: quando l’animalista Mia Farrow ha twittato il suo indirizzo ha dato l’impressione, nonostante tutta l’indignazione, di essersi spinta troppo in là).
Forse ci sentiamo solidali con Cecil perché ci sentiamo colpevoli di essere noi: i leoni e gli elefanti sono al vertice di una catena alimentare locale, non più nobili né meno nobili di qualsiasi altro animale. Ma noi sappiamo che il loro predominio naturale può essere cancellato in un istante dalle nostre invenzioni culturali: un dentista fornito di un’arma e di un portafogli gonfio può mandare a morte un leone. Leoni ed elefanti, onnipotenti nell’ordine naturale, sono vulnerabili nel nostro ordine culturale. Poiché inconsciamente continuiamo ad attribuire più valore ai doni naturali che a quelli acquisiti — generalmente essere coraggiosi è giudicato più meritorio che essere ricchi — odiamo vedere l’ordine naturale così brutalmente scosso. In quanto esseri umani, o forse semplicemente in quanto figli del Romanticismo, ci sentiamo colpevoli della nostra supremazia culturale. Per questo i cacciatori, con un atto profondamente atavico, si portano a casa i trofei: per poter possedere un pezzo, anche se acquisito con mezzi subdoli, dell’ordine naturale. E quando qualcuno lo fa in modo troppo grossolano ci scandalizziamo, perché ci ricorda in quale ordine viviamo effettivamente.
E allora sì, facciamoci beffe dei sentimentalisti che innalzano alti lai per Cecil, e rampogniamoli per il loro disinteresse verso altri ambiti di sofferenza, e verso soggetti meno facilmente amabili dei leoni. Facciamoci beffe, ma non troppo: gli istinti e le abitudini che ci spingono ad allargare verso l’esterno la sfera della nostra compassione, per quanto irrazionali, sono ciò che ci consente di avvicinarci a una sorta di moralità naturale comune. Riposa in pace, Cecil.
(Copyright Adam Gopnik Questo articolo è uscito su The New Yorker Traduzione di Fabio Galimberti)
©RIPRODUZIONE RISERVATA
L’ondata di emozioni scatenata dall’episodio potrebbe essere definita “sentimentalismo” La prepotenza, più che l’empatia, ci spinge ad agire in modi irrazionali e appassionati
L’AUTORE
Scrittore e saggista statunitense, Adam Gopnik è una delle firme di punta del settimanale New Yorker I suoi libri in Italia sono pubblicati da Guanda
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