Caro Max, vorrei più di tutto parlarti di speranza, dirti con forza che nella nostra malattia si guarisce.
Ma non ci riesco.
Per questo preferisco non incontrarti, non continuare più insieme il nostro lavoro cui tenevo tanto.
Per te, più di tutto, era importante guardare in faccia qualcuno che c’era riuscito, toccare con mano che “era possibile”, nonostante le difficoltà.
Ti ero stata presentata come qualcuno che si era recuperato.
Mi hai visto, mi vagliavi ad ogni istante – questo esame mi era palese – e non mi disturbava.
Ero felice di dirti nei fatti, con slancio: ” Dai, ce la faremo, tu ed io insieme…”
Eppure, tu non lo sai, quando ci siamo incontrati ero già in depressione.
Quella depressione che, per distinguerla da quella che hanno più o meno tutti in certi momenti della vita, chiamo depressione psicotica. Per chiamarla così ho dalla mia i sacri testi, ma tu hai sempre avuto fastidio del linguaggiare psichiatrico, le “spieghe” non ti hanno mai interessato: erano stati registrati dei films che rappresentavano storie di altri pazienti, ma tu non volevi vederli, ti stufavi.
Volevi un incontro, qualcosa che accadesse tra persone vive.
Eri così immerso in te stesso e nella tua ricerca che non ti sei accorto della mia depressione, anche se mi hai voltato e rivoltato come un guanto.
Per prima cosa hai voluto sapere della mia prima crisi.
L’idea che avessi spezzato il collo di una bottiglia in una pizzeria e che fossi stata internata dalla polizia, ti ha convinto: ero abbastanza malata come te per prendere in considerazione la mia guarigione.
Da quel momento non ti ha più interessato niente della mia storia e abbiamo cominciato a parlare solo di te.
Il patto suggellato, dovevamo solo ” camminare ” —ed io con te …