ore: 18:02 Credo sia l’inizio primitivo /buttato giù del “famoso libro che non c’è” — (anche se con continue riguardate silenziose)–Veramente ricordo di aver scritto, dall’autunno all’inizio dell’estate i due libri, uno sulla mania, l’altro sulla successiva depressione—// Riverdere ossessivamente è iniziato quando un’analista “consigliata-consigliata”—dopo averli letti, mi ha sentenziato di riscriverli perché “non si capisce niente”–” niente—non si capisce come nasce la malattia…per espressioni poetiche alcune molto belle”– 100 euro ogni ora di lettura –in tv——-più mia ora finale : “esecutiva”—

 

Questo inizio mi dà oggi una gran pace—–serena—e in pace serena—ampia,  andrebbe letto suggerisco–in un abbraccio che vi porgo –così grande come di quello di un golfo che abbraccia il  mare.

 

 

 

Nel delirio non sono mai stata sola.

La mia mente fabbricava un’équipe dotata di telecamere che mi registravano in qualunque posto io andassi, in casa e per le strade della città, ma di cui a me era noto solo il direttore, che era il mio terapeuta.

Gli altri erano presenze sempre impegnate, lì con me, dovunque andassi di mia spontaneità, ma invisibili:

le avvertivo con conforto, non ne ero mai spaventata.

La parola “ricerca sperimentale” di cui ero la cavia, “tacitava tutto”.

 

Lo scopo di questa équipe era farmi una terapia che era, allo stesso tempo, una sperimentazione e una ricerca.

Per questo mi registravano.

 

A partire dai risultati si sarebbe trovata una terapia per gli psicotici. Ero convinta che una vera terapia non esistesse.

La mia esperienza mi diceva quanto avevo sofferto nelle mani dei vari terapeuti o psichiatri, quando ero stata veramente male.

Le parole mi arrivavano addosso come delle pietre che mi facevano sentire ancora più annichilita.

 

Solo una volta ero stata bene quando la mia analista mi aveva letto alcune sue poesie sulla vita nel Nord-Est, una cantiga che parlava di sete, di “terra seca”, di piantagioni e di animali distrutti.  E  l’uomo; e la sua famiglia.

 

Questo linguaggio emotivo, esteticamente bellissimo, rifaceva un ponte tra il mio mondo e quello degli altri. Mi ridestava: era l’unico linguaggio che mi lasciava partecipare alla vita comune, come sciogliesse un nodo scuro che mi teneva distante.

Così la poesia, e questa in particolare che raccontava di figure in lotta con gli elementi, addirittura con l’universo che però non rispondeva, si rivelava “il linguaggio” che univa tutti gli  umani malati e non. Ma non solo: si rivelava per me l’unica forma di stabilire “un contatto”.
La poesia   e la musica.

 

 

Queste poesie parlavano di un paesino del nord-est del Brasile, del paesaggio desolato della caatinga, di gente che lottava contro la fame e la sete, e che continuamente doveva migrare da una terra all’altra in cerca di cibo e di acqua, oppressi dalle malattie.

Erano scritte nei moduli della letteratura di cordel, raccolte di ballate popolari che parlavano di diavoli e di santi, di banditi e di straordinari guaritori. Di là dei moduli usati, erano scritti di vera poesia, musicalmente molto belli.

 

Senza questa bellezza e questi suoni  fortemente ritmati, e allo stesso tempo melodiosi, non avrebbero potuto raggiungermi.

Era la musica e le parole ad attirarmi nel cerchio della comunità.

Allora come da bambina.

 

Lo scopo più immediato di tutte queste persone che partecipavano al progetto era non farmi sentire abbandonata.

Le telecamere erano un continuo sguardo che mi seguiva in ogni istante, giorno e notte.

Io ero “ vista”, esistevo, “ero perseguitata per essere vista”/ sentirmi vista.

Altrimenti sarei stata una pietra che rotola da un dirupo in una landa a perdere.

La perdita di una mia identità e quindi del mondo / la peggiore, come sapete, forma di perdita della vita.

 

Le telecamere mi aggrappavano. E mi tenevano stretta.

Stretta a vivere, nonostante tutto.

 

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