“La ribellione dei ciclamini è stata
la prima reazione”
CONSIGLIATI (qui il blog da cui abbiamo preso il testo)
Antonio Corbo per Il Venerdì di Repubblica
A novembre, tre bombe squarciano il velo di una criminalità violenta
e organizzata, padrona del territorio, di cui in Italia non si parla.
Eppure uccide, ricatta e taglieggia. Con i metodi dei clan più feroci
Foggia, la mafia innominabile
Il terrore ha una data: 17 novembre 2014. Prima bomba.
Ne scoppiano altre due, il 18 e il 22. Sempre in centro,
sempre contro commercianti, sempre racket. Romano,
che vende parati e parquet; una pizzeria in allestimento;
la Pasticceria del Carmine. Cinque giorni che chiudono
oltre vent’anni di finto silenzio.
Foggia scopre ora le sue paure, le nascondeva dal 1990, quando fu ucciso
Nicola Giuffrida. Non voleva pagare, come non aveva pagato
due miliardi di lire Giovanni Panunzio, altro costruttore,
ammazzato nel 1994. Un anno dopo, tocca a un funzionario
dello Stato che sventava evasioni fiscali per grosse cifre,
quel Francesco Marcone, medaglia d’oro al valor civile,
definito l’eroe borghese del Sud che aveva appena denunciato
una malavita in abito grigio: tasse, compravendite illegale
di terreni e case, affari sporchi, c’era una cricca tra
Ufficio imposte, Registro, Demanio. «Date a noi i soldi,
sappiamo come mettere le carte a posto». Ma non si è mai
saputo chi l’abbia eliminato. «Un giro impenetrabile» dice la figlia.
Forse Mafia Capitale non è stata la prima nel suo genere.
L’edilizia disordinata ha coperto di danaro i mafiosi e
gli imprenditori più disinvolti a Foggia, stretti m un solo patto:
io ti proteggo, tu mi paghi. Regola che solo un anno fa
la Società Foggiana ha ricordato ad altri due costruttori:
Marco Insalata e Arturo Zammarano, 6 e 4 colpi di calibro
21 sulle portiere delle auto. Interrogati, hanno negato
ogni minaccia. Due capitoli subito chiusi. Il racket si è
dedicato quindi ai negozi: ma dal 17 novembre niente
è stato come prima. La ribellione dei ciclamini è stata
la prima reazione. Maria Cristina Cucci, 34 anni,
ha una società che organizza eventi, «sposata con un pazzo»
ride lei, presidente del Fronte antiracket. Fa mettere
davanti ai negozi i fiori lillà, forse perché rimangono
allegri e fieri, non si piegano nel più cupo degli inverni.
La Cucci fece arrestare il suo estorsore, ha convinto
altri 16 a denunciare, è collegata con Vittoria Vescera,
dirigente del Fronte antiracket di Sieste, con 46 irriducibili,
nello splendore di un borgo marino tartassato dal racket,
isolato sul promontorio del Gargano, lontano da Foggia
un’ora e 20 di guida veloce tra curve e panorami
struggenti. «Vendo felicità, organizzo matrimoni.
Passo poi da un mondo all’altro. Do coraggio a chi riceve
minacce e ha paura. Presentiamo in gruppo le denunce
a carabinieri e polizia, che ci aiutano molto». Qui pagano
otto su dieci, confidano nel gruppo di Maria Cristina.
Girano anche le cifre: 50 mila dopo il primo incendio,
25 mila per i negozi più importanti, poi rate mensili
da mille o 500 euro. Foggia la tranquilla, lontana
dagli affari levantini di Bari e dalla Sacra Corona Unita
del Salente: quanti misteri nascondeva? Dopo le tre bombe,
in cinque giorni il sindaco Franco Lendella dà l’allarme. «Il racket di Foggia è un’emergenza nazionale». Chi lo immaginava? Il ministro dell’Interno Alfano promette una visita (poi rinviata), il protocollo Marcegaglia per chi denuncia e rinforzi. L’appello non ha sorpreso il capo della polizia Alessandro Pansa, che aveva inviato i detective dello Sco, né il comandante interregionale Franco Mottola che in Campania schierò i suoi migliori carabinieri per realizzare il Modello Caserta diretto dai procuratori antimafia Franco Roberti e Federico Cafiero de Raho. Sarà lo stesso anche per Foggia? L’impegno di tutti adesso è alto, modesti i mezzi. A volte paradossali. Dopo le raffiche di arresti, sono 745 i detenuti nelle carceri di Foggia, Lucera e San Severo. Svuotare le celle ha complicato i controlli dei 600 agli arresti domiciliari. Sono esauriti i braccialetti elettronici: solo 14 ne ha la questura, 39 i carabinieri. Devono verificare casa per casa, sottraendo tempo alle indagini. Questo non ha impedito la cattura di tutti i capi dei 28 clan con 963 affiliati. La Mobile ha arrestato Giuseppe Pacilli, uno dei cento latitanti più pericolosi. Il comandante dei carabinieri Antonio Basilicata, prossimo generale, vigila con la rete più fitta: 57 stazioni, quattro compagnie, una tenenza a Vieste. Su questa provincia, la seconda d’Italia con settemila chilometri quadrati, l’attività investigativa è affidata al colonnello Pasquale Del Gaudio, compito ad alto rischio di vendette, dalle gomme bucate alle auto in fiamme per chi indaga. Il Reparto operativo ha comunque portato all’ergastolo Franco Li Bergolis, latitante a Foggia, ospite delle famiglie Francavilla e Sinesi, uno dei primi trenta ricercati. Un contatto certo, quindi, tra la Società Foggiana e la provincia più sanguinaria. I processi Medio Evo e Tre moschettieri, dopo le indagini dei carabinieri e dei Ros, si sono chiusi rispettivamente con otto e sei condanne. La violenza esplode in zone distanti e impervie: si uccide dopo i furti di bestiame negli anni Settanta. Cominciano i pastori. La faida di Monte Sant’Angelo conta trenta morti. Francesco Li Bergolis, O’ Carcaiuolo, cioè l’uomo delle cave, ucciso nel 2009, si opponeva ai Romito di Manfredonia, perché avevano aiutato i carabinieri a sistemare una microspia. A quella rivelazione seguirono otto morti. Nuovi affari: il contrabbando. I Li Bergolis scendono a mare alleati dei Romito. Bloccati i traffici di sigarette, la malavita passa a droga ed estorsioni. Nel 1990 i primi omicidi. Fino a quello del 17 dicembre a Cerignola: viene ucciso Antonio Sorrenti, il venditore di auto che nel 2004, dieci anni prima, aveva reagito alla richiesta del pizzo uccidendo il boss del paese. «Violenza sempre sottovalutata. Si fa presto a dire faida. La faida è rassicurante: fa capire che sono i malavitosi a eliminarsi. Vieste è stata tartassata, la risposta giudiziaria solo da poco si avverte», racconta Vittoria Vescera, che tiene insieme il Fronte antiracket di Vieste, con Vito Turi e Giuseppe Nobiletti e altre due donne, Maria Ruggiero e Brígida Fabrizi, tutti giovani imprenditori, uniti dallo sdegno e dal coraggio. Già, le donne. In una malavita feroce e in attesa di pentiti, collaborano Sabrina Campaniello, 34 anni, moglie incensurata di Emiliano Francavilla, arrestato dai carabinieri nel 2011. E Rosa Livia Di Fiore, passata per amore da un clan all’altro nella faida di San Nicandro. Osserva Vittoria Vescera, piccata: «Non solo faide. Non si può nascondere sopportare l’assalto alle imprese turistiche. Racket. Mafia . È successo di tutto, olio sporco nella piscina e un furgone rubato che viene prima incendiato e poi spinto contro un albergo per creare un rogo». Ne ha subito i danni Giuseppe Mascia, anziano presidente del Fronte ancora scosso. Vittoria Vescera ha avuto invece la sua struttura al mare in fiamme e la sua auto bruciata dopo una manifestazione Una mafia che avverte, prima degli attentati Un cane impiccato alla porta. E dopo consiglia, lasciando le scritte: «Mettiti a posto» oppure: «Sai dove andare». A Vieste, dopo il processo Medio Evo sono delusi. Nelle motivazioni il tribunale scrive che «le associazioni vanamente hanno tentato di influenzare» Reagiscono: «Noi scortavamo le vittime de racket, davamo coraggio». E la sentenza non riconosce l’aggravante del metodo mafioso. «Non si accetta la parola “mafia”» dice con rabbia Daniela Marcente, figlia di Francesco l’eroe borghese, voce dell’associazione Libera a Foggia. «Per otto mesi non si mosse l’indagine sulla morte di mio padre. Ho lottato con tutte le mie forze. Povero papa, ha avuto sole medaglie d’oro, ma so chi l’ha ucciso e perché. C’era quel famoso giro in quegli uffici». Un prefetto, Luisa Latella, lascia Foggia per Catanzaro. Un’altra donna in prima linea Dispiace a Daniela: «Un vero prefetto. Solo da poco le cose stanno cambiando, con gli sforzi di polizia e carabinieri in una città che ha voluto dimenticare e nascondere». Come in “La mafia innominabile”, ora libro-bandiera dei ragazzi di Vieste. Si legge: «La mafia non esisteva perché tutti negavano. Anche i magistrati che se ne occupavano. Ma quella mafia c’è. Ammazzava e ammazza». L’ha scritto un magistrato, Domenico Seccia, che ha lasciato Lucera per Fermo, nelle Marche. Quel titolo dal 17 novembre, il giorno della bomba, fa male, Foggia lo subisce. Sembra tutto vero. La mafia innominabile.
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