ore 20:57 SCRITTORI SENZA FURORE Wlodek Goldkorn “La Repubblica”, 28 dicembre 2014

 

Wlodek Goldkorn è il responsabile culturale de L’Espresso. Ha lasciato la Polonia, sua terra nativa, nel 1968 per trasferirsi a Firenze, dove è rimasto sin da allora. Negli anni ’80 ha fondato e diretto dei periodici sull’Europa Centrale e dell’Est intitolati L’ottavo giorno e L’Europa ritrovata. È co-autore con Rudi Assuntino di Il Guardiano. Marek Edelman racconta (1998) e con Livi Bacci Massimo e Martini Mauro di Civiltà dell’Europa Orientale e del Mediterraneo (2001) e autore di La scelta di Abramo. Identità ebraiche e postmodernità (2006).

 

 

 

 

domenica 28 dicembre 2014

 

Scrittori senza Furore


I capolavori di Balzac e di Hugo non erano piagnistei:
gli autori erano convinti che la loro
parola sarebbe stata d’aiuto per
cambiare il mondo
Oggi il conflitto è racchiuso
all’interno dell’individuo

Nell’era segnata dalla
disuguaglianza dei pochi
che hanno molto e dei molti
che hanno poco dove è finito
il grande romanzo sociale?
Dove sono Steinbeck e Zola?

Wlodek Goldkorn

“La Repubblica”, 28 dicembre 2014
FUOR di dubbio: l’anno che sta finendo
è stato l’anno di Thomas Piketty, l’autore
del Capitale nel XXI secolo.
Pochi contestano ormai la sua tesi per
cui le disuguaglianze sociali sono in
crescita anziché diminuire. Per costruire
la sua teoria l’economista francese ha
frequentato non solo le statistiche,
ma anche la narrativa. E in base a queste
etture dice che la situazione oggi assomiglia
a quella descritta nei romanzi di Honoré de
Balzac e Jane Austen: società dove aumenta
il divario tra chi possiede il capitale e chi
invece vive del proprio lavoro. È stata la
rivista americana online Slate ad affrontare
polemicamente l’argomento, non per contestare
i fatti citati Piketty, ma per mettere in questione
un’altra sua tesi, esposta in incontri pubblici:
nei romanzi degli ultimi decenni non si parla
dei soldi. Se ne parla invece, dicono i critici
letterari autori dell’articolo, ma in un’altra
maniera. Rimane tuttavia il problema, sollevato
da molti esperti di letteratura e arti (ad esempio
da A. O. Scott, sul New York Times) : come mai
oggi non si scrivono romanzi sociali, ancorati
nella vita quotidiana della gente che lotta per la sopravvivenza? Come mai nessuno scrive un nuovo Germinal sull’esempio di Émile Zola,
un nuovo Furore come John Steinbeck, un
altro I miserabili come Victor Hugo?
Forse la domanda andrebbe riformulata.
Mettiamola così: è possibile oggi scrivere
opere simili? Intanto qualcuno ci prova
ancora; anche in Italia e basti pensare
alla Prato descritta da Edoardo Nesi,
alla Piombino versione Silvia Avallone,
o al call center secondo Michela Murgia
(per non parlare della Dismissione di
Ermanno Rea). Ma si tratta di eccezioni
e non di letteratura che fa tendenza.
E allora, cosa è successo? Una prima
risposta possibile è questa: il romanzo
sociale come l’abbiamo conosciuto
dall’Ottocento e fino alla prima metà
del secolo scorso nasce non dalla
constatazione che il mondo del lavoro
va male, ma al contrario, dalla protesta
perché la modernità non mantiene
le proprie promesse. Quali promesse?
Semplice, quelle legate all’idea del progresso:
eguaglianza (non equità), crescita del benessere,
ascesa sociale frutto dell’istruzione, conquista
collettiva dei diritti; se non addirittura la
Rivoluzione e palingenesi.
Così Zola raccontava le lotte dei lavoratori
perché era convinto che la sua parola sarebbe
stata d’aiuto nel cambiamento del mondo.
E ancora, John Steinbeck, nel Furore, narrava
le ingiustizie subite dai contadini del Sud
degli States perché era certo dell’intrinseca
validità del sogno americano. E lo stesso si
può dire di Hugo, monumento vivente alla
fede nella rettitudine e bontà insiti nell’ethos
repubblicano. Il romanzo sociale insomma non
è stato un piagnisteo ma un risultato del confronto
tra il progetto dell’avvenire e la realtà.
Quell’avvenire, almeno in Europa occidentale
era legato a forme di vita concrete. I lavoratori
della stessa fabbrica vivevano nello stesso
quartiere, si incontravano negli stessi luoghi
di svago (sport compreso) o di agitazione
politica. Peraltro, la sinistra (titolare dell’idea
del progresso) nel nostro continente è nata
ed è vissuta così, legata ai territori degli operai.
Oggi, cosa rimane di tutto questo? Poco o niente.
Non solo dal punto di vista sociologico: tra deindustrializzazione e disgregazione di quel
che era il mondo del lavoro, ma anche come
fede nel mito del progresso. Non c’è bisogno
di tirare in ballo Theodor Adorno e Max
Horkheimer (La dialettica dell’illuminismo)
o Guenther Anders (L’uomo è antiquato) e
neanche Zygmunt Bauman con il suo magistrale
Olocausto e Modernità, per capire quanto
la parola progresso sia un arnese, uno
strumento lessicale vuoto di contenuto
e fallito.
Il futuro, ci dicono gli intellettuali à la page,
è decrescita: felice nel migliore dei casi; e
un mondo di moltitudini, che sono il contrario
di massa. Moltitudine significa infatti una serie
di individui, non un insieme di persone legate
dallo stesso vissuto e interesse sociale.
E l’istruzione non assicura più un futuro
migliore.
E tuttavia, molti scrittori continuano a
fare
il loro mestiere e a raccontarci la società
in cui viviamo; salvo che questa è una società
e un mondo impossibili da narrare come un
universo coerente, in cui è chiaro il nesso
tra causa e effetto. Esempio ne è il newyorchese
Paul Auster. Nei suoi romanzi, le cose che
accadono ai protagonisti sono frutto del caso,
dell’arbitrio del destino. E allora, forse non
rimane che cercare lontane appartenenze,
identità mitiche e leggendarie da rivendicare;
specie se fanno parte di eventi violenti e
spostamenti e migrazioni legati a una storia
che rasenta l’Apocalisse, accaduta però davvero.
Lo fanno, e da questo punto di vista sono
romanzieri contemporanei, gli americani
Nicole Krauss (La storia dell’amore,
La Grande Casa) e Jonathan Safran Foer
Ogni cosa è illuminata), ambedue alla
ricerca di un mondo europeo antecedente
la Shoah e da cui vengono i loro antenati,
profughi. Del destino dei rifugiati si occupa
l’americano di origine etiope Dinaw Menghestu
(Leggere il vento). E in un romanzo di grande
attualità, Non dirmi che hai paura, il nostro
Giuseppe Catozzella, ha raccontato la storia
di una atleta africana annegata nel Canale
di Sicilia.
Ma forse è Il Cerchio di Dave Eggers,
americano
pure lui, 44enne, californiano d’adozione,
il romanzo,
tra quelli recenti, che più degli altri è
ancorato
nel vissuto e nei valori della società
contemporanea.
Eggers ambienta il suo racconto in un
campus di una grande azienda, e qui siamo
vicini alla fabbrica di Zola. Ma la protagonista
è una ragazza sola, che sola rimane; senza
alcun orizzonte di azione collettiva e di
solidarietà di classe. L’azienda non produce
beni materiali. Il suo scopo è mettere in
connessione il numero più alto di persone;
ma anche renderle trasparenti, indurle a
rinunciare a ogni privacy; ciascuno in un
futuro distopico (perché dell’avvenire
parla Eggers) girerà con una serie di
apparecchi addosso, grazie ai quali potrà
essere visto e “partecipato” da decine di
milioni di altri individui.
Corollario e premessa di tutto questo (come
del resto dei libri che raccontano i profughi)
è l’empatia. Empatia è la parola chiave oggi.
Ciascuno di noi deve provare a entrare nella
testa altrui. Siamo tutti separati, ma uniti da
un flusso di sentimenti che ci accomunano e
che proviamo all’istante. L’azienda chiamata
il Cerchio vuole chiudere il cerchio appunto,
per creare un mondo di individui empatici:
un universo perfetto e armonioso. Ma attenzione, connessione, empatia e trasparenza, escludono
il conflitto come categoria: se litighiamo è perché
qualcuno nasconde un segreto, perché non siamo
apaci di capire l’altro; il contrario di Zola o
Steinbeck e delle lotte sociali.
Invenzione futuristica, si dirà e non descrizione
di realtà, come ne era capace un Balzac, appunto.
Ma ne siamo sicuri? C’è una bellissimo testo di
Henry James (Tre lezioni su Balzac) in cui lo scrittore americano spiega come l’autore francese si inventasse tutto. E proprio grazie alla sua immaginazione riusciva a raccontare la realtà meglio di ogni presunto realista.

 

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