ULTIMI VERSI DEL CANTO XXIII /E ULTIMO / DELLA CANTICA “IL PARADISO” DI DANTE, con la quale si conclude il suo Poema, dopo aver “descritto- e fisicamente passato” nell’Inferno e nel Purgatorio, fino ad arrivare al Paradiso dove lo aspetta la sua amata “Beatrice”.
In questi versi, il poeta racconta il suo avvicinarsi a Dio fino ad essergli di fronte: è una grande luce che gli dà ardire, forza e desìo o desiderio, di vederla, che va oltre il tuo timore; Dante si accorge che lui stesso, in sua presenza, si trasforma, e quanto piu’ “rifatto”, più forte e’ la voglia divederlo // ad occhi aperti, lucidissimo, si immerge in quella luce grande e forte in cui tutto e’ raccolto dell’Universo e in modo perfetto; adesso, immergendosi sempre più “di” luce, vede una forma umana “per che ‘l mio viso in lei tutto era messo”.
Sente che la sua “alta fantasia” sta perdendo potere e forza, ma il soggetto messo alla fine e ben isolato con molta poesia, che è “l’amore che muove il sole e le altre stelle”, gli sta “cambiando verso” o “volgeva” il suo desiderio e la sua voglia o volontà (“il mio disio e ‘l velle” ) così che questo si è mosso come una ruota (cui sia stato dato un colpo).
difficile trovare un modo più efficace e più bello di descrivere Dio (tra l’altro senza mai nominate questa parola), “ma nel suo linguaggio”–-la parafrasi che ho trovato, e’ sbagliata in certi punti e andrebbe usata solo per leggere i versi; ma quel che è peggio è che “censura” il poeta: per es. quando scrive che –in quella luce “gode” / la parafrasi traduce “gioia”– cioè viene eliminata la grande fisicità del linguaggio di Dante, perdita “non da poco”!—
E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii. 48
Bernardo m’accennava, e sorridea,
ché la mia vista, venendo sincera,
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
Qual è colui che sognando vede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
Così la neve al sol si disigilla;
O somma luce che tanto ti levi
e fa la lingua mia tanto possente, ché, per tornare alquanto a mia memoria
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
Oh abbondante grazia ond’io presunsi
Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume, sustanze e accidenti e lor costume,
La forma universal di questo nodo Un punto solo m’è maggior letargo
Così la mente mia, tutta sospesa, A quella luce cotal si diventa, però che ‘l ben, ch’è del volere obietto, Omai sarà più corta mia favella, Non perché più ch’un semplice sembiante ma per la vista che s’avvalorava Ne la profonda e chiara sussistenza e l’un da l’altro come iri da iri
Oh quanto è corto il dire e come fioco
O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta
Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, dentro da sé, del suo colore stesso,
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige tal era io a quella vista nova:
ma non eran da ciò le proprie penne:
A l’alta fantasia qui mancò possa; l’amor che move il sole e l’altre stelle. 145 |
E io, che mi avvicinavo alla conclusione di tutti i desideri, così come dovevo fare, esaurii in me stesso l’ardore del mio desiderio.
Bernardo mi faceva cenni e mi sorrideva, affinché io guardassi in alto; ma io ero già disposto a farlo da me stesso, come lui voleva: infatti la mia vista, diventando più limpida, penetrava sempre di più nel raggio dell’alta luce che è vera di per se stessa. Da quel momento in poi la mia visione fu superiore a quanto possa esprimere il mio linguaggio, che è inferiore a quel che vidi, così come la memoria è insufficiente a ricordare un tale eccesso. Come quello che vede qualcosa in sogno, e quando si sveglia gli resta l’impressione nell’animo e non riesce a ricordare nulla,
così sono io, dal momento che quasi tutta la mia visione è svanita dalla mia memoria, ma nel cuore è ancora presente la dolcezza che nacque da essa.
Così le impronte sulla neve si sciolgono al sole; così il responso della Sibilla si disperdeva al vento, scritto sulle foglie leggere.
e rendi il mio linguaggio tanto efficace che io possa lasciare ai posteri una sola scintilla della tua gloria;
infatti, se potrò ricordare qualcosa e rappresentarlo un poco in questi versi, si potrà comprendere meglio la tua vittoria. Io credo che mi sarei smarrito se i miei occhi si fossero distolti dal vivo raggio della mente divina, a causa del fulgore che mi colpì. Mi ricordo che per questo io fui più coraggioso a sostenerne la vista, a tal punto che spinsi a fondo il mio sguardo nel valore infinito.
sostanze, accidenti e il loro legame, quasi unificati insieme, in modo tale che ciò che io ne dico è un barlume di verità. Credo di aver visto la forma universale di questo nodo, perché mentre ne parlo sento accrescere in me la gioia. Un attimo solo (quello della visione) è per me oblio maggiore dei venticinque secoli che ci separano dall’impresa degli Argonauti, per cui Nettuno si stupì vedendo l’ombra della nave Argo.
Di fronte a quella luce si diventa tali che è impossibile voler distogliere il proprio sguardo da essa per guardare qualcos’altro;
infatti il bene, che è oggetto della volontà, si raccoglie tutto in essa, e al di fuori di essa ciò che lì è perfetto diventa difettoso.
Ormai le mie parole saranno insufficienti a esprimere i miei ricordi, più di quelle di un bambino che sia ancora allattatto dalla madre. Non perché nella viva luce che io guardavo ci fosse più di un unico aspetto, che è sempre identico a ciò che era prima,
ma per la mia vista che si accresceva man mano che guardavo, al mio mutare interiore quell’unico aspetto si trasformava ai miei occhi.
Nella profonda e luminosa essenza della luce di Dio mi apparvero tre cerchi, di tre colori diversi e uguali dimensioni; e il secondo (il Figlio) sembrava un riflesso del primo (il Padre), come un arcobaleno riflesso da un altro, e il terzo (lo Spirito Santo) sembrava una fiamma che spira egualmente dagli altri due. Oh, quanto è insufficiente il mio linguaggio a esprimere ciò che ricordo! E anche questo, rispetto a quel che vidi, è così esiguo che non basta dire ‘poco’.
mi sembrò che avesse dipinta in esso, dello stesso colore, l’immagine umana: per questo avevo penetrato all’interno tutto il mio sguardo. Come lo studioso di geometria, che si ingegna con tutte le sue forze per misurare la circonferenza e non trova, pensando, quell’elemento di cui manca, così ero io davanti a quella visione straordinaria: volevo capire come l’immagine umana si inscrivesse nel cerchio e in che modo si collocasse al suo interno;
ma le mie ali non erano adatte a un volo simile (non ne avevo le capacità): senonché la mia mente fu colpita da una folgorazione, grazie alla quale poté soddisfare il suo desiderio. Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l’amore divino, che muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme e regolare (Dio aveva appagato ogni mio intimo desiderio). |
E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii. 48 Bernardo m’accennava, e sorridea,
ché la mia vista, venendo sincera,
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
Qual è colui che sognando vede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa Così la neve al sol si disigilla;
O somma luce che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, 69 e fa la lingua mia tanto possente, ché, per tornare alquanto a mia memoria Io credo, per l’acume ch’io soffersi E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
Oh abbondante grazia ond’io presunsi
Nel suo profondo vidi che s’interna sustanze e accidenti e lor costume,
La forma universal di questo nodo Un punto solo m’è maggior letargo
Così la mente mia, tutta sospesa, A quella luce cotal si diventa,
però che ‘l ben, ch’è del volere obietto,
Omai sarà più corta mia favella,
Non perché più ch’un semplice sembiante ma per la vista che s’avvalorava Ne la profonda e chiara sussistenza
e l’un da l’altro come iri da iri Oh quanto è corto il dire e come fioco
O luce etterna che sola in te sidi,
Quella circulazion che sì concetta dentro da sé, del suo colore stesso,
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige tal era io a quella vista nova: ma non eran da ciò le proprie penne:
A l’alta fantasia qui mancò possa; l’amor che move il sole e l’altre stelle. 145 |
E io, che mi avvicinavo alla conclusione di tutti i desideri, così come dovevo fare, esaurii in me stesso l’ardore del mio desiderio.
Bernardo mi faceva cenni e mi sorrideva, affinché io guardassi in alto; ma io ero già disposto a farlo da me stesso, come lui voleva: infatti la mia vista, diventando più limpida, penetrava sempre di più nel raggio dell’alta luce che è vera di per se stessa. Da quel momento in poi la mia visione fu superiore a quanto possa esprimere il mio linguaggio, che è inferiore a quel che vidi, così come la memoria è insufficiente a ricordare un tale eccesso.
Come quello che vede qualcosa in sogno, e quando si sveglia gli resta l’impressione nell’animo e non riesce a ricordare nulla, così sono io, dal momento che quasi tutta la mia visione è svanita dalla mia memoria, ma nel cuore è ancora presente la dolcezza che nacque da essa. Così le impronte sulla neve si sciolgono al sole; così il responso della Sibilla si disperdeva al vento, scritto sulle foglie leggere. O luce suprema, che ti sollevi così tanto rispetto all’intelletto umano, riporta alla mia mente un poco di quello che apparivi
allora, e rendi il mio linguaggio tanto efficace che io possa lasciare ai posteri una sola scintilla della tua gloria; infatti, se potrò ricordare qualcosa e rappresentarlo un poco in questi versi, si potrà comprendere meglio la tua vittoria. Io credo che mi sarei smarrito se i miei occhi si fossero distolti dal vivo raggio della mente divina, a causa del fulgore che mi colpì. Mi ricordo che per questo io fui più coraggioso a sostenerne la vista, a tal punto che spinsi a fondo il mio sguardo nel valore infinito. Oh, grazia abbondante per la quale ebbi l’ardire di fissare lo sguardo nella luce eterna, al punto che portai la mia vista al limite estremo delle sue capacità! Nella sua profondità vidi che è contenuto tutto ciò che è disperso nell’Universo, rilegato in un volume: sostanze, accidenti e il loro legame, quasi unificati insieme, in modo tale che ciò che io dico è una semplice luce. Credo di aver visto la forma universale di questo nodo, perché mentre ne parlo sento accrescere in me la gioia. Un attimo solo (quello della visione) è per me oblio maggiore dei venticinque secoli che ci separano dall’impresa degli Argonauti, per cui Nettuno si stupì vedendo l’ombra della nave Argo. Così la mia mente, tutta sospesa, ammirava con lo sguardo fisso, immobile e attento, aumentando via via il desiderio di osservare. Di fronte a quella luce si diventa tali che è impossibile voler distogliere il proprio sguardo da essa per guardare qualcos’altro; infatti il bene, che è oggetto della volontà, si raccoglie tutto in essa, e al di fuori di essa ciò che lì è perfetto diventa difettoso. Ormai le mie parole saranno insufficienti a esprimere i miei ricordi, più di quelle di un bambino che sia ancora allattatto dalla madre. Non perché nella viva luce che io guardavo ci fosse più di un unico aspetto, che è sempre identico a ciò che era prima, ma per la mia vista che si accresceva man mano che guardavo, al mio mutare interiore quell’unico aspetto si trasformava ai miei occhi. Nella profonda e luminosa essenza della luce di Dio mi apparvero tre cerchi, di tre colori diversi e uguali dimensioni; e il secondo (il Figlio) sembrava un riflesso del primo (il Padre), come un arcobaleno riflesso da un altro, e il terzo (lo Spirito Santo) sembrava una fiamma che spira egualmente dagli altri due. O luce eterna, che hai luogo solo in te stessa, che sola ti comprendi e, compresa da te stessa e nell’atto di comprenderti, ami e ardi di carità! Quel cerchio (il secondo, il Figlio) che sembrava nascere come da un riflesso, dopo essere stato a lungo osservato dai miei occhi, mi sembrò che avesse dipinta in esso, dello stesso colore, l’immagine umana: per questo avevo penetrato all’interno tutto il mio sguardo. Come lo studioso di geometria, che si ingegna con tutte le sue forze per misurare la circonferenza e non trova, pensando, quell’elemento di cui manca, così ero io davanti a quella visione straordinaria: volevo capire come l’immagine umana si inscrivesse nel cerchio e in che modo si collocasse al suo interno; ma le mie ali non erano adatte a un volo simile (non ne avevo le capacità): senonché la mia mente fu colpita da una folgorazione, grazie alla quale poté soddisfare il suo desiderio. Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l’amore divino, che muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme e regolare (Dio aveva appagato ogni mio intimo desiderio). |
pubblico per chi vuole leggerlo l’articolo di walter siti da rep. di domenica scorsa
la Repubblica domenica 28 dicembre 2014
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Quel Dio che Dante non può descrivere
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Nei versi finali del Paradiso si compie l’obiettivo che il poeta porta con sé durante tutto il viaggio ultraterreno. Ma è difficile raccontare quel che vede perché la sua potenza immaginativa e rappresentativa si è annullata nell’istante stesso in cui si realizzava il proprio fine
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Walter Siti
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Stavolta non si tratta di una lirica autonoma: sono i 31 versi finali dell’ultimo canto del Paradiso. Qui giunge al termine, e al culmine, un’opera che Dante si portava dietro aa una ventina d’anni — e qui il viaggio ultraterreno tocca il suo obiettivo, la visione di Dio. E dall’inizio del canto, e anche da prima, che Dante sta lottando (lui che ha sofferto di malattie oftalmiche e per questo si è raccomandato a Santa Lucia ) con la propria acutezza visiva: le preghiere dei beati e l’intercessione di Beatrice gli danno la Grazia necessaria per ficcare sempre più gli occhi nei misteri dell’essenza divina, per successive approssimazioni. Già ha visto, nei versi precedenti, come in Dio sia racchiuso e compresso l’universo, «legato con amore in un volume»; le categorie di spazio e tempo sono saltate e lui continua a scusarsi dell’impotenza espressiva («riesco a raccontare quel che ho visto, e inteso, in percentuale così minima che dire “poco” non rende l’idea»).
Ora vede altre due cose che rappresentano incomprensibili dogmi della religione: la Trinità e le due nature di Cristo. Gli appaiono tre cerchi sovrapposti, con stesso centro e stesso raggio, ma che, ciò nonostante, si distinguono l’uno dall’altro: il secondo sembra un riflesso del primo e il terzo (lo Spirito Santo ) si riflette come un fuoco su entrambi. Il secondo poi (quello “riflesso”), dà l’impressione di aver dipinta dentro una figura nel medesimo colore dello sfondo — ulteriore impossibilità fisica che però si impone all’intelletto e allo sguardo. Il secondo cerchio rappresenta il Figlio ed è l’umanità di Cristo quella che si disegna, visibile-invisibile, nella divinità del cerchio. Dante si sforza di capire come l’immagine si stagli sullo sfondo ad essa omogeneo e fa lo stesso sforzo degli studiosi di geometria quando cercano di venire a capo della quadratura del circolo; ma la sua mente non arriva a tanto — senonché proprio in quel momento viene colpito da una folgorazione in cui la comprensione assoluta si realizza. Dante ha capito i dogmi, ha capito Dio; ma non riesce a raccontarlo perché la sua potenza immaginativa e rappresentativa (la “fantasia”) si è annullata nell’istante stesso in cui realizzava il proprio fine.
Si è discusso a lungo se il viaggio della Commedia sia da intendere come finzione poetica o come effettiva visione mistica dell’aldilà; insomma se Dante credesse davvero di aver “visto” ciò che racconta. Io sono tra chi ritiene che la Commedia sia una “visione in sonno” e che Dante fosse convinto della portata profetica del suo racconto; soffriva periodicamente di crisi epilettiche e fin dal tempo della Vita nova aveva interpretato queste crisi come segno di predestinazione, che il suo corpo fosse un recipiente adatto a illuminazioni trans-sensoriali. Nella sua epoca le visioni venivano prese sul serio, se ne distinguevano varie specie e nessuno metteva in dubbio che fossero un veicolo per la verità (una volta escluse le loro contraffazioni diaboliche). Inoltre la “visio” era un genere letterario diffuso, un collaudato contenitore narrativo. Dante è «pien di sonno» quando entra nella selva oscura e qui in par adiso, nel penultimo canto, San Bernardo lo incita ad affrettarsi perché il tempo del sonno sta per finire.
Nella lunga durata del poema questo assunto talvolta si perde. Dante stesso un po’ se lo dimentica e il viaggio diventa, sul modello dei classici latini, epico e fantastico; ma nel finale l’esperienza mistica risorge potente. Anzi, accade qualcosa di straordinario e inedito: l’esperienza è talmente viva che impegna non solo il Dante “addormentato” ma lui tutto intero nello spingere all’estremo le proprie umane possibilità — qui supera le “visioni” intese come genere letterario e per forza di introspezione arriva a intuire i meccanismi onirici come li intendiamo noi.
Il pi-greco della quadratura del circolo è un numero irrazionale che ha rapporto con l’infinito; la distinzione dei cerchi sovrapposti sarebbe comprensibile solo in uno spazio multi-dimensionale; l’acume visivo può coincidere col torpore patologico solo in una logica che superi il principio di non-contraddizione: tutte caratteristiche che la moderna psicanalisi ha riconosciuto come proprie dell’inconscio. Dante insomma, per genio di coerenza poetica, ha reso realistico e autobiografico il “sonno” della tradizione.
Per descrivere l’indescrivibile mette a frutto quello che sa: il linguaggio della filosofia scolastica (la “sussistenza” cioè l’esistenza di un ente senza bisogno di altri enti, il “velie” cioè la volontà), le conoscenze di geometria, le occasioni personali (la nave Argo vista dal basso, di cui si parla in un paragone pochi versi prima dei nostri, ha la stessa forma delle “mandorle” degli affreschi che aveva visto a Roma durante il Giubileo ) ; inventa perfino un verbo che non esiste ( “indovarsi” nel senso di “situarsi” ) ; niente di questo basta — entrare nel meccanismo rotatorio dell’Assoluto significa esaurire se stessi ( Dante morirà poco dopo ) e insieme aver realizzato un’opera che hai’ analogo ritmo ternario di quel meccanismo (la parola “stelle” che conclude ogni cantica); un libro che può gareggiare con quello riassunto in Dio.
chiara: l’ho di nuovo riletto: non ho parole.
rep. pubblica il testo dei versi di Dante
DANTE ALIGHIERI
PARADISO XXXIII, W.115-145/1321
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto ! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer “poco”.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi !
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circumspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal ero io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva ‘l mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
I versi di Dante si rivelano possenti tutte le volte che li si legge. E che parole e che espressioni: s’indova, il velle, in me si travagliava,ecc. Emana una forza che sembra avere avuto qualche aiuto celeste.
Sì, un genio ( che non smette mai di stupire ).
COME SONO CONTENTA! E’ il terzo regalo di Natale che mi fate! Grazie, io niente, ma tornerò…”un giorno” …Vi penso sempre: Nemo per esempio, a tutti i miei “agrori” familiari, mi ripete sempre (l’ha detto una volta sola): ” Ma una madre di famiglia ha ben altro di questo da sopportare” E così io mi sforzo, ma vorrei poter dire al mondo : “Io non lo sono una madre di famiglia, non lo sono mai stato né men che mai ho avuto questa ambizione” . Quando sarò libera, unica cosa importante fin da piccola? a 15 anni mi hanno incastrato, e poi la mia vita è stata una magnifica successione di incastri, direi fino ad oggi. Ma quando me ne potrà andare? “Lei ha timbrato tutti i cartellini che aveva da timbrare nella vita. Ora è libera. ” Possibile che sarà solo nella morte? che vita fregata, cioa, ma voi non pensateci, comunque, “io so che me la cavo”-anche decente spingente al bello–ciao miei grandi peynet! punto, chiara