Corriere 23.12.14
Lo spettro nero che torna dagli anni delle stragi e l’idea di un altro Italicus
I legami con il passato e la Costituzione scritta dall’ideologo 93enne
di Giovanni Bianconi
C’è il vecchio fondatore di Ordine nuovo, il novantatreenne che ha addirittura scritto un progetto di Costituzione per l’Italia neofascista; c’è il quasi cinquantenne suo seguace considerato il capo dell’organizzazione, che voleva «destabilizzare il Paese… ma non alla cieca come è stato fatto quarant’anni fa colpendo stazioni, bambini… va fatto mirato, ma va fatto»; e c’è il ragazzo poco più che trentenne, che rivendica la necessità di «colpire metropolitane tipo Bologna, Milano, Roma per incutere terrore nella popolazione… la gente deve essere costretta a chiedere aiuto e quindi, dopo aver attuato azioni violente, ci dev’essere chi si propone per la soluzione del problema».
Stragi nere
Attraversa tre generazioni il progetto di rifondare Ordine nuovo, movimento neofascista che più di tutti ha legato il suo nome alla strategia della tensione e alle stragi che hanno insanguinato l’Italia nel passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta. Una sigla rinata nel 1969 dopo che alcuni fondatori del circolo culturale omonimo, nato nel 1956, avevano deciso di rientrare nel Movimento sociale italiano. Protagonista di una storia nera, schiarita solo in parte dalle indagini — sempre e costantemente depistate dagli apparati dello Stato — e dai processi. Conclusi quasi tutti senza condanne per i colpevoli, ma dopo aver fornito una ricostruzione attendibile da cui emerge la matrice neofascista delle bombe e del progetto «destabilizzante per stabilizzare» che stava dietro gli attentati nelle piazze, nelle banche e sui treni. Dietro i quali in diverse occasioni è comparso il richiamo all’ascia bipenne, simbolo di un gruppo pericoloso e ambiguo, visti i legami con i Servizi segreti italiani e stranieri.
Il passato di sangue
Dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969, 17 morti e 88 feriti) a quella di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, 8 morti e 100 feriti) il coinvolgimento degli ambienti ordinovisti veneti è stato dimostrato o considerato altamente probabile, oltre che in attentati «di contorno» durante quei cinque anni di esplosioni e fibrillazioni politiche. Poi venne l’eccidio sul treno Italicus (4 agosto ‘74, 12 morti e 48 feriti) citato come esempio da Stefano Manni, l’uomo della generazione neofascista di mezzo che prendeva spunti dall’esperienza di quella precedente — impersonata da Rutilio Sermonti, ex repubblichino che partecipò alla fondazione di On — e affidava istruzioni al «giovane» Luca Infantino, rappresentante dell’ultima nidiata.
«Io credo che sia il caso di… è brutto dirlo… ma credo sia il caso di riprendere la strada dell’Italicus… ma su ampissima scala… questo è un popolo che non merita nulla, l’ultima dimostrazione l’abbiamo data con il non funerale di Priebke…», spiegava Manni nell’ottobre 2013. È un’altra strage rimasta senza colpevoli ufficiali, quella del treno squarciato all’uscita da una galleria dell’Appennino tosco-emiliano. Ci fu una rivendicazione di Ordine nero, gruppo che aveva preso l’eredità di Ordine nuovo dopo il decreto di scioglimento (per ricostruzione del partito fascista, vietata dalla legge) firmato dall’allora ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani.
Alla sbarra fu portato Mario Tuti — ex ordinovista poi fondatore del Fronte nazionale rivoluzionario e assassino dei due poliziotti che erano andati ad arrestarlo nel gennaio 1975 — che uscì assolto, condannato e poi definitivamente assolto. Anche il nome di Tuti compare nelle carte dell’inchiesta aquilana, quando uno degli inquisiti dice a un altro: «A me interessa selezionare le persone, per questo voglio avere tutto il tempo di andare da Mario (e per gli investigatori è proprio Tuti, ndr ), parlare con lui, valutare chi poter inserire settore per settore… Credo che sia giunto il momento che insomma, gente come noi non se ne stia più con le mani in mano».
L’omicidio Occorsio
Nei primi anni di carcere (oggi è ancora detenuto, ma in semilibertà) Tuti uccise un «camerata» ritenuto inaffidabile, pericoloso perché avrebbe potuto dire qualcosa sulla strage di Brescia; lo strangolò con la collaborazione di Pierluigi Concutelli, militante di On e killer del pubblico ministero romano Vittorio Occorsio, ucciso la mattina del 10 luglio 1976, appena uscito di casa per andare in ufficio, ultimo giorno prima delle vacanze estive. Grazie alle indagini di quel magistrato, che portò a giudizio numerosi aderenti, Ordine nuovo fu sciolto, e oggi i seguaci di quella tradizione inneggiano su Facebook al suo omicidio. «1-10-100-1000 Occorsio», ha scritto il 26 settembre dello scorso anno Manni.
Concutelli e gli altri
Concutelli è un nome che collega le cronache legate ai neofascisti di ieri e di oggi anche perché è amico del «camerata» romano Emanuele Macchi di Cellere, già affiliato alle bande armate che volevano tenere alta la tradizione ordinovista, riarrestato qualche giorno fa per l’uccisione del presunto cassiere della banda di Gennaro Mokbel, assassinato il 3 luglio scorso a Roma. Questione di soldi, non di politica, ma sempre alimentata dai reduci di quella storia nera. Insieme a Macchi di Cellere, per l’omicidio di Roma è inquisito Egidio Giuliani, classe 1955, pure lui ex «soldato» della lotta armata di destra; il quale — secondo un rapporto della Squadra mobile della Capitale — era in contatto con Rainaldo Graziani, convolto nella gestione del ristorante e associazione culturale «Corte dei Brut» a Gavirate, in provincia di Varese. Le cronache di qualche anno fa l’hanno indicato come il reclutatore delle «guardie d’onore» alla tomba di Mussolini, ed è figlio di Clemente Graziani, un altro dei fondatori di Ordine nuovo. In uno dei messaggi telematici intercettati dai carabinieri nell’indagine aquilana, il neoarrestato Infantino aveva diffuso «un’anticipazione» del Manifesto scritto da Graziani senior al tempo del processo istruito da Occorsio, con la precisazione: «Per avere il file contattate me e/o Stefano Manni».
il Fatto 23.12.14
Il veterano di Salò che riscrive la Costituzione
di AA. Mass.
La nazione italiana è una realtà unitaria morale, politica ed economica insieme, superiore per potenza e durata a quella degli individui che la compongono… ”. Quando il 24 agosto scorso Rutilio Sermonti, il novello padre costituente, per il suo 94esimo compleanno riceve in dono la tessera numero 1 del “Nuovo fronte politico italiano”, ha già in mente la futura Costituzione. Una Carta che in tema di “corruzione” e lotta alla “casta” sembra scritta per raccogliere malumori e i mal di pancia. Quello sulla “nazione italiana” è il primo articolo e al punto nove delle 12 disposizioni transitorie, Sermonti stabilisce che sarà “soppressa la Corte Costituzionale, fonte di perenne incertezza del diritto”.
I due carabinieri infiltrati dal Ros hanno imparato a conoscere il carisma di Sermonti nell’organizzazione. Da mesi raccolgono prove sulla effettiva pericolosità del gruppo, sull’effettiva disponibilità di armi, segnalando che sempre più spesso, nelle riunioni, quelle senza Sermonti, c’è gente che si presenta con armi da fuoco al seguito. Sarà pure folle, l’idea di redigere gli 85 articoli della nuova Costituzione, ma non è uno scherzo. Anzi. Nella traiettoria del “doppio binario” – quello ideologico e quello armato-rivoluzionario – Sermonti svolge il ruolo del padre nobile, lui che aveva sposato la causa di Ordine Nuovo, quello vero, in cui però non era una figura di primissimo piano, e in precedenza aveva aderito alla Repubblica di Salò. Oggi è accusato di essere tra i “promotori e gli ideatori di atti violenti” del presunto gruppo eversivo anche “per aver elaborato il progetto ideologico e la nuova Costituzione Italiana, sollecitando gli altri attraverso la divulgazione di idee rivoluzionarie, azioni di aggressione e la presa del potere”. Il gruppo può rifarsi ai suoi scritti e ai suoi articoli, come il quinto, nel quale “la Repubblica misconosce il concetto di diritti politici… ”, mentre il 7 vieta “ogni forma di propaganda elettorale” e il 15 si occupa delle donne, stabilendo che “lo Stato considera aberrante qualsiasi iniziativa diretta a indurre e a facilitare, alla parte femminile della popolazione, un crescente accesso alle attività economiche retribuite”. Non per sminuire l’altra metà del cielo ma perché “cura primaria dello Stato dovrà essere l’esaltazione e la nobilitazione – anche tecnica – della funzione casalinga”.
IL SUO CARISMA nel gruppo di estrema destra è ritenuto funzionale ai progetti di Manni, che lo incontra per la prima volta il 19 gennaio 2014, ed è un profluvio di “ave” per Sermonti, l’uomo che – annota il gip – nel 1942 partecipa da volontario alla seconda guerra mondiale come sottufficiale del Regio Esercito e, dopo l’8 settembre del 1943, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana come ufficiale del Battaglione San Marco e infine, nel dopoguerra esercita la professione forense. Un vecchietto inoffensivo? Ecco le sue parole quando viene intercettato con Manni: ritiene sufficiente l’azione di “pochi uomini, decisi, poco visibili, molto mobili, coraggiosi”e ammette l’aspirazione dei suoi ultimi anni. “Fatemi vedere germogliare tutta la fatica, voglio riuscire a crepare avendo visto un lampo di questa nuova luce”.
Rutilio Sermonti sembra aver fatto meno strada dei fratelli. Giuseppe, biologo “antidarwiniano” e soprattutto Vittorio, noto studioso di Dante e marito di Samaritana Rattazzi, a sua volta figlia di Susanna Agnelli: uno dei loro figli, Pietro, è un noto attore. L’anziano repubblichino non ha mai abbandonato la fede politica che già mezzo secolo fa l’aveva portato a scrivere una “Costituzione per lo Stato dell’Ordine Nuovo”, pubblicata sulla rivista fondata da Pino Rauti. Ora ha trovato nuovi adepti, è spesso ospite dei giovani militanti di Casa Pound, in Abruzzo e non solo. E adegua norme e linguaggio all’insofferenza dilagante.
È “lucidissimo” dice di lui Manni. Lucidi sono i riferimenti agli sprechi e alla corruzione con i quali, par di capire, punta a raccogliere consensi per lo Stato che verrà. “La Capitale, Roma, dovrà essere dotata di uno stabile architettonicamente pregevole, adorno d’opere d’arte e splendide sale, ambulacri e giardini… destinato al ricevimento di personalità nazionali e straniere… che nulla abbia a che fare con la ex reggia del Quirinale, il cui semplice costo di manutenzione equivale al bilancio intero di un piccolo Stato ed è un autentico oltraggio alle ristrettezze subìte dal popolo operante”. E in tema di corruzione ha la soluzione: “Il Genio civile potrà utilizzare l’ingente manodopera disponibile a bassissimo costo per compiere in proprio, senza fine di lucro, le più urgenti opere di pubblica utilità, senza far ricorso all’oneroso sistema degli appalti, all’ombra dei quali opera la ben nota corruzione”.
il Fatto 23.12.14
Il veterano di Salò che riscrive la Costituzione
di AA. Mass.
La nazione italiana è una realtà unitaria morale, politica ed economica insieme, superiore per potenza e durata a quella degli individui che la compongono… ”. Quando il 24 agosto scorso Rutilio Sermonti, il novello padre costituente, per il suo 94esimo compleanno riceve in dono la tessera numero 1 del “Nuovo fronte politico italiano”, ha già in mente la futura Costituzione. Una Carta che in tema di “corruzione” e lotta alla “casta” sembra scritta per raccogliere malumori e i mal di pancia. Quello sulla “nazione italiana” è il primo articolo e al punto nove delle 12 disposizioni transitorie, Sermonti stabilisce che sarà “soppressa la Corte Costituzionale, fonte di perenne incertezza del diritto”.
I due carabinieri infiltrati dal Ros hanno imparato a conoscere il carisma di Sermonti nell’organizzazione. Da mesi raccolgono prove sulla effettiva pericolosità del gruppo, sull’effettiva disponibilità di armi, segnalando che sempre più spesso, nelle riunioni, quelle senza Sermonti, c’è gente che si presenta con armi da fuoco al seguito. Sarà pure folle, l’idea di redigere gli 85 articoli della nuova Costituzione, ma non è uno scherzo. Anzi. Nella traiettoria del “doppio binario” – quello ideologico e quello armato-rivoluzionario – Sermonti svolge il ruolo del padre nobile, lui che aveva sposato la causa di Ordine Nuovo, quello vero, in cui però non era una figura di primissimo piano, e in precedenza aveva aderito alla Repubblica di Salò. Oggi è accusato di essere tra i “promotori e gli ideatori di atti violenti” del presunto gruppo eversivo anche “per aver elaborato il progetto ideologico e la nuova Costituzione Italiana, sollecitando gli altri attraverso la divulgazione di idee rivoluzionarie, azioni di aggressione e la presa del potere”. Il gruppo può rifarsi ai suoi scritti e ai suoi articoli, come il quinto, nel quale “la Repubblica misconosce il concetto di diritti politici… ”, mentre il 7 vieta “ogni forma di propaganda elettorale” e il 15 si occupa delle donne, stabilendo che “lo Stato considera aberrante qualsiasi iniziativa diretta a indurre e a facilitare, alla parte femminile della popolazione, un crescente accesso alle attività economiche retribuite”. Non per sminuire l’altra metà del cielo ma perché “cura primaria dello Stato dovrà essere l’esaltazione e la nobilitazione – anche tecnica – della funzione casalinga”.
IL SUO CARISMA nel gruppo di estrema destra è ritenuto funzionale ai progetti di Manni, che lo incontra per la prima volta il 19 gennaio 2014, ed è un profluvio di “ave” per Sermonti, l’uomo che – annota il gip – nel 1942 partecipa da volontario alla seconda guerra mondiale come sottufficiale del Regio Esercito e, dopo l’8 settembre del 1943, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana come ufficiale del Battaglione San Marco e infine, nel dopoguerra esercita la professione forense. Un vecchietto inoffensivo? Ecco le sue parole quando viene intercettato con Manni: ritiene sufficiente l’azione di “pochi uomini, decisi, poco visibili, molto mobili, coraggiosi”e ammette l’aspirazione dei suoi ultimi anni. “Fatemi vedere germogliare tutta la fatica, voglio riuscire a crepare avendo visto un lampo di questa nuova luce”.
Rutilio Sermonti sembra aver fatto meno strada dei fratelli. Giuseppe, biologo “antidarwiniano” e soprattutto Vittorio, noto studioso di Dante e marito di Samaritana Rattazzi, a sua volta figlia di Susanna Agnelli: uno dei loro figli, Pietro, è un noto attore. L’anziano repubblichino non ha mai abbandonato la fede politica che già mezzo secolo fa l’aveva portato a scrivere una “Costituzione per lo Stato dell’Ordine Nuovo”, pubblicata sulla rivista fondata da Pino Rauti. Ora ha trovato nuovi adepti, è spesso ospite dei giovani militanti di Casa Pound, in Abruzzo e non solo. E adegua norme e linguaggio all’insofferenza dilagante.
È “lucidissimo” dice di lui Manni. Lucidi sono i riferimenti agli sprechi e alla corruzione con i quali, par di capire, punta a raccogliere consensi per lo Stato che verrà. “La Capitale, Roma, dovrà essere dotata di uno stabile architettonicamente pregevole, adorno d’opere d’arte e splendide sale, ambulacri e giardini… destinato al ricevimento di personalità nazionali e straniere… che nulla abbia a che fare con la ex reggia del Quirinale, il cui semplice costo di manutenzione equivale al bilancio intero di un piccolo Stato ed è un autentico oltraggio alle ristrettezze subìte dal popolo operante”. E in tema di corruzione ha la soluzione: “Il Genio civile potrà utilizzare l’ingente manodopera disponibile a bassissimo costo per compiere in proprio, senza fine di lucro, le più urgenti opere di pubblica utilità, senza far ricorso all’oneroso sistema degli appalti, all’ombra dei quali opera la ben nota corruzione”.
Corriere 23.12.14
Il presidente dell’Anpi e del Comitato permanente antifascista per la difesa dell’ordine repubblicano
Smuraglia: «I partiti deboli aumentano i rischi eversivi»
intervista di Paolo Foschini
MILANO «La verità?».
Certo.
«Ovvio che questi arresti mi preoccupano. Ma il vero rischio per la democrazia è la politica di oggi. La crisi dei partiti, è terribile da dire, mi fa ancora più paura di un possibile attentato».
Avvocato Carlo Smuraglia, lei è del ‘23, ha attraversato la storia d’Italia e oggi è presidente nazionale dell’Associazione partigiani. Teme davvero un ritorno del fascismo?
«Sempre. Ricordo piazza Fontana, gli anni delle stragi, i neofascisti di Ordine nuovo. Ricordo che già allora tanti li ritenevano “episodi occasionali”. Io ero tra quanti dicevano un’altra cosa: e cioè che noi italiani i conti col fascismo non li abbiamo mai chiusi sul serio».
Abbiamo la Costituzione più antifascista del mondo.
«Che infatti vogliono smontare. Il punto è che molti complici del sistema fascista, già allora, erano rimasti al loro posto. Il nostro apparato statale non si è mai liberato del tutto».
Una teoria un po’ generica.
«Mica tanto se si pensa alle due costanti di tutte le stragi italiane: una è la matrice fascista, l’altra è la copertura o in qualche modo la presenza di “pezzi” dello Stato. Deviati, si è sempre detto, ma sempre dello Stato. Un caso?».
Cosa vede in comune tra gli ordinovisti di piazza Fontana e quelli appena arrestati?
«Il rischio della nostra sottovalutazione. Vedere gente che inneggia al fascismo e dire “tanto son quattro gatti”. Si comincia così, si finisce per considerarlo normale».
Differenze?
«Una grandissima: negli Anni 70 i partiti furono la garanzia della tenuta democratica. Oggi la loro crisi etica, morale, politica, per il fascismo è il più fertile terreno che ci sia».
Perché?
«Perché allontana i cittadini dalla partecipazione, e quindi dalla democrazia. Soprattutto nei periodi di crisi, quando la gente si convince di non avere più niente da perdere. È lì che nascono le dittature».
il Fatto 23.12.14
Il prefetto di Roma Pecoraro:
“Buzzi? Me lo ha mandato Letta”
di Valeria Pacelli
Dovrà tornare in commissione antimafia, Giuseppe Pecoraro, il prefetto di Roma che lo scorso 18 marzo su segnalazione di Gianni Letta ricevette nel proprio ufficio Salvatore Buzzi, il braccio sinistro di Carminati. E, infatti, ieri scarica sull’ex sottosegretario: “A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. L’ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l’ha mandato. Il dottor Letta l’ho sentito immediatamente dopo (l’incontro con Buzzi, ndr) e Letta poi non mi richiamò più, come magari si aspettava Buzzi – sottolinea Pecoraro – né il sindaco di Castelnuovo ha mai fatto pressioni su di me. Penso che le parole di Buzzi (che nell’intercettazione dice “col prefetto è andata molto bene”) siano dovute al fatto che pensava che il dottor Letta sarebbe intervenuto nuovamente”.
ALCUNI parlamentari della commissione antimafia vogliono chiarire realmente cosa avvenne durante e dopo l’incontro del prefetto con il patron delle coop. Ad imbarazzare Pecoraro una lettera, pubblicata ieri dal Corriere e dal Messaggero, in cui si dava conto del via libera della prefettura alla stipula di una convenzione con una cooperativa di Salvatore Buzzi, la Eriches 29, per la gestione dell’emergenza legata all’arrivo dei profughi a Castelnuovo di porto, vicino Roma. Al centro della questione un progetto che avrebbe dato ospitalità a 400/500 immigrati – come dicono alcuni indagati nelle conversazioni intercettate – all’interno di un edificio che si trovava proprio di fronte al Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Castelnuovo di porto. La lettera in questione è stata firmata dal dirigente Roberto Leone e spedita “al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore”. L’oggetto è “l’afflusso di cittadini stranieri richiedenti la protezione internazionale e l’individuazione delle strutture di accoglienza”. Nella lettera si afferma che in mancanza di “elementi ostativi” sarebbe stato dato via alla stipula della convenzione in merito alla proposta della cooperativa Eriches 29, riconducibile a Salvatore Buzzi, del centro di accoglienza.
“Facendo seguito alla circolare del Ministero dell’Interno dell’8 gennaio scorso – riporta il documento – e alla luce delle manifestazioni di disponibilità ricevute, si chiede se sussistano motivi ostativi alla stipula di una convenzione con il soggetto sotto indicato: Eriches 29 consorzio di Cooperative Sociali. La sede proposta per l’accoglienza si trova in Borgo del Grillo (a Castelnuovo di Porto, ndr) ”. Oggi Giuseppe Pecoraro – costretto a riferire in conferenza stampa – spiega che “le lettere sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili”. Ma perchè inviarla anche al sindaco di Castelnuovo di Porto, quando, come ha detto in antimafia l’11 dicembre scorso, già aveva deciso di non accogliere altri immigrati in quel paesino? Ieri il Fatto ha provato a contattare – senza riuscirci – il prefetto Pecoraro per ulteriori spiegazioni. Non essendo riusciti ad avere risposta, riportiamo le due versioni fornite da Pecoraro, la prima l’11 dicembre in Antimafia, la seconda ieri. In commissione aveva riferito: “Il dottor Letta mi ha chiesto se potessi ricevere Buzzi”. Il presidente Bindi domanda: “Buzzi le ha fatto un’offerta? ”. E Pecoraro replica: “No. Mi metteva a disposizione 100 alloggi, 100 appartamenti a Castelnuovo di Porto. A Castelnuovo di Porto io ho già il Cara. Non potevo metterci le persone del Cara, che erano già 500 persone, più gli immigrati che sarebbero andati in questi 100 appartamenti. Un paesino di poche migliaia di anime avrebbe dovuto avere 10.000 immigrati. Ci sarebbero stati più immigrati che cittadini. Pertanto, avevo risposto che l’avrei fatto se il sindaco me l’avesse chiesto, ma era un modo per sfuggire, gli avrei detto di sì”.
IERI Pecoraro è partito da più lontano: “L’8 gennaio – ha detto in conferenza stampa – abbiamo ricevuto una circolare del Ministero che ci preannunciava gli arrivi dei migranti e ci invitava a interessare gli enti locali e gli enti del settore dell’accoglienza. Il 9 gennaio abbiamo scritto una lettera agli enti, a chi aveva disponibilità, e a tutti i sindaci dei Comuni interessati. Tra questi c’era anche la cooperativa Eriches 29 e altre. Sulla base delle offerte l’ufficio immigrazione della prefettura ha iniziato un’istruttoria e quindi il 18 marzo ha scritto al sindaco di Castelnuovo, alla questura di Roma e ad altri sindaci”. Alla fine “la Eriches a Castelnuovo è stata scartata”. “Ascolteremo ancora il prefetto – fa sapere il M5s – Ma vogliamo sentire i convocati come teste, utilizzando i pieni poteri di inchiesta. Così mentire in Antimafia sarà reato”.
Corriere 23.12.14
L’esposto del prefetto contro il giudice Tar «nemico» della coop
di Fiorenza Sarzanini
Nella gestione dei migranti Salvatore Buzzi ha potuto godere di una «rete» di protezione che andava dal Viminale alla prefettura di Roma, coinvolgendo anche il Campidoglio.
Persone disponibili a fornirgli anche notizie riservate sui «nemici», come l’ex viceprefetto Paola Varvazzo. E quando decide di ribellarsi al giudice del Tar che aveva annullato la gara vinta dalla sua cooperativa, trova un alleato proprio nel prefetto Giuseppe Pecoraro. A raccontarlo in un verbale rimasto finora segreto è stato lo stesso presidente del Tribunale Amministrativo del Lazio Calogero Piscitello. Le carte dell’inchiesta sull’organizzazione mafiosa — guidata secondo l’accusa dallo stesso Buzzi e dall’ex estremista dei Nar Massimo Carminati — che era riuscita a infiltrarsi nelle istituzioni capitoline, svelano nuovi retroscena sugli affari da milioni di euro conclusi dalle cooperative «29 giugno» ed «Eriches 29».
Il Riesame
Alla vigilia della nuova udienza del tribunale del Riesame che dovrà pronunciarsi sulla posizione di Franco Panzironi — l’ex amministratore delegato di «Ama spa» arrestato con l’accusa di aver fornito uno stabile contributo per l’aggiudicazione di appalti pubblici, per lo sblocco di pagamenti in favore delle imprese dell’associazione e per fare da garante dei rapporti con l’amministrazione comunale negli anni 2008/2013» guidata dal sindaco Gianni Alemanno — nuovi documenti ricostruiscono i rapporti di potere che hanno segnato l’ascesa di Buzzi e dei suoi soci nella gestione dell’emergenza profughi, soprattutto nel 2014 con l’arrivo di decine di migliaia di migranti poi smistati in tutt’Italia.
Il ricorso al Tar
Nel settembre 2013 «Eriches 29» vince la gara europea bandita dalla prefettura di Roma per gestire il Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Castelnuovo di Porto. Due società — Auxilium e Gespa — fanno ricorso e ottengono l’annullamento dell’assegnazione. C’è però un’irregolarità: la presidente Lidia Sandulli si pronuncia nonostante abbia un interesse personale. Possiede infatti il 33 per cento della «Proeti srl», società che fa manutenzione nella stessa struttura, mentre il 46 per cento appartiene al marito Salvatore Napoleoni. Buzzi, informato di questo retroscena dall’ex viceprefetto Paola Varvazzo (entrata anche nella giunta regionale guidata da Nicola Zingaretti ma poi costretta a dimettersi per un’inchiesta che ha coinvolto il marito), decide di ribellarsi. E così si rivolge ad alcuni giornalisti amici per rendere pubblico il conflitto d’interessi del giudice, ma minaccia anche di presentare una denuncia contro Sandulli alla procura di Roma.
Il verbale del presidente
In realtà un esposto e diversi interventi per farla astenere erano già stati fatti dal prefetto Pecoraro. A raccontarlo è stato il presidente del Tar nell’ambito del procedimento disciplinare avviato contro Sandulli proprio per la sua decisione relativa alla struttura di Castelnuovo di Porto. Il 28 maggio scorso, di fronte al Consiglio di Presidenza competente a pronunciarsi su eventuali illeciti commessi dai giudici amministrativi, Calogero Piscitello dichiara: «Poco dopo la mia assegnazione (tra fine 2012 e inizio 2013) ho ricevuto dal prefetto di Roma Pecoraro copia di un suo precedente esposto alla procura della Repubblica di Roma sul presidente Sandulli, relativo all’aggiudicazione di una gara d’appalto. Successivamente lo stesso prefetto ha chiesto se la questione concernente il presidente Sandulli avesse avuto sviluppi significativi e io ho risposto di no. Non ho ritenuto di parlarne con alcuno né di modificare alcunché sul piano organizzativo data l’irrilevanza di quanto appreso. Eventuali provvedimenti avrebbero potuto essere adottati dal Consiglio di Presidenza, residuando in capo al presidente del tribunale esclusivamente un eventuale parere di proposta di segnalazione all’organo di autogoverno competente, che non fu esercitato perché non fu ravvisata a tale fine la rilevanza della questione».
Il ruolo di Odevaine
Era stato Luca Odevaine, membro del Tavolo di gestione dei profughi del Viminale, ora arrestato con l’accusa di essere «stipendiato» dall’organizzazione, a sollecitare Buzzi affinché chiedesse a Gianni Letta l’aiuto di Pecoraro. Il 17 marzo scorso, dopo aver perso la causa davanti al Tar, i due si incontrano e Odevaine fa l’elenco dei Centri di accoglienza dove Buzzi potrebbe ottenere lavori. Poi suggerisce: «A Letta gli direi di sbloccarci Roma perché per loro non è un cazzo, deve fa’ una telefonata al prefetto e non ha problemi a fargliela…». Letta effettivamente telefona e Buzzi ottiene l’incontro con Pecoraro. Il giorno dopo dalla prefettura di Roma parte la lettera che sollecita la stipula della convenzione con «Eriches 29» per gestire un nuovo centro di accoglienza a Castelnuovo di Porto che supporti il Cara. Proposta che però viene bocciata dal sindaco del paese per motivi di sicurezza.
il Fatto 23.12.14
Report contro Gucci: operai cinesi e fornitori sfruttati
L’inchiesta sull’azienda fiorentina fa infuriare il governatore toscano Rossi
di Carlo Di Foggia
E sono due: mentre Moncler è ancora sotto choc, ieri è toccato a Gucci passare ai raggi x di Report. E per la storica azienda fiorentina – dagli anni 90 nelle mani del gigante francese Kering – l’operazione non è stata indolore: niente delocalizzazione, stavolta la trasmissione di Milena Gabanelli si è concentrata su fornitori e sub-fornitori italiani della mai-son di moda, mostrando le condizioni di alcuni laboratori in Toscana, da anni meta delle produzioni dei grandi marchi. Risultato? Una borsa che in vetrina costa oltre 800 euro, viene realizzata dagli artigiani a meno di 30: 24 precisa alla giornalista Sabrina Giannini, Aroldo Guidotti, un sub-fornitore di Scandicci che fa assemblaggio e tinta per i fornitori di primo livello (che incassano milioni semplicemente appaltando il lavoro).
A OGNI BORSA – stando alla versione riportata da Report – manca quindi il 30 per cento del valore. “E se moltiplicate 6-7 euro per mille borse arriviamo a 60-70 mila euro in meno per l’artigiano”, continua Guidotti, moderno Caronte che ha deciso di traghettare le telecamere della Gabanelli attraverso l’esasperazione dei distretti tessili del fiorentino, vittime di una feroce politica di contenimento die costi: “L’alternativa era chiudere o rimanere dentro per dimostrare che c’è questo sistema e viene usato anche da Gucci”. E così è stato.
Stando alle immagini, il meccanismo coinvolge decine di lavoratori cinesi: “Non c’è bisogno di fare Sherlock Holmes per vedere che alle 11 di sera a Scandicci ci sono fabbriche e laboratori illuminati dove lavorano i cinesi. Io stesso li ho assunti a 4 ore ma loro ne lavorano almeno 16. È questo il gioco che ci sta ammazzando. I cinesi lavorano 150 ore più di quelle segnate”, confessa Girotti, che ha un socio occulto cinese e rivela: “All’interno dell’azienda ci deve essere solo il prestanome italiano. Un paravento”. “Se ci dessero 2-3 euro in più a borsa, potremmo risollevarci”, si sfoga un’artigiana schermata in volto.
IERI, IL BOTTA e risposta tra la società e la trasmissione è rimbalzato sui tutti i siti, coinvolgendo il presidente della Regione Enrico Rossi. Il tutto mentre la rabbia invadeva i social network, frequentati dai potenziali clienti di Gucci. Rossi è stato tra i primi a replicare: “La Toscana è in prima linea contro la contraffazione. Gucci ha un accordo con sindacati e istituzioni per il controllo della filiera”. Ancora più dura l’azienda: “Telecamere nascoste o usate in maniera impropria, solo in aziende selezionate ad arte (3 laboratori su 576), non sono testimonianza della realtà”. Nel pomeriggio è arrivata la replica della Gabanelli: “Più che dissociarsi dovrebbero ringraziarci per aver documentato quello che avrebbero dovuto fare i loro ispettori”. Durante la puntata, infatti, si vede un controllore di Gucci non fare una piega di fronte alle irregolarità denunciate da Guidotti. Con una punta di sarcasmo Report ha poi sottolineato che “da anni Kering garantisce una filiera etica e controllata grazie alla certificazione SA8000 sulla responsabilità sociale, rilasciata dagli americani di Saas”. Che ora – ha continuato la Gabanelli – “devono decidere se continuare a certificarli”. L’ipotesi non è remota. Negli anni scorsi all’americana Nike venne ritirato il certificato (che impegna anche i sub-fornitori) perché sorpresa a fa cucire palloni ai bambini cinesi. Curiosamente l’Italia vanta il record di aziende certificate: 1064 su 3388, la maggio parte – oltre 300 – proprio in Toscana, la prima regione al mondo. Motivo? Gli sgravi Irap e i contributi pubblici erogati alle aziende che ottengono il prezioso documento. Si è così scatenata la corsa all’oro che ha garantito il primato. Gucci, però, a differenza di Kering l’ha ottenuto solo nell’aprile scorso. “L’azienda non ha preso soldi pubblici – spiegano dagli uffici di Fabbrica Etica, l’ufficio regionale che gestisce i bandi – ma i suoi fornitori sì. I controlli non spettano a noi ma a chi ha dato la certificazione (la Saas, ndr), noi verifichiamo il rispetto dei bandi poi aziende ed Enti hanno i loro controllori”. Come si spiega il record? “Qui non ci sono solo i cinesi di Prato e comunque Gucci ha fatto tanto per la qualità della filiera”. Il frastuono non ha invece sfiorato Kering. Ieri il colosso della moda del magnate François-Henri Pinault – che in Italia controlla Bottega Veneta, Sergio Rossi, Brioni e Pomellato – ha perfino chiuso la seduta in positivo: più 0,77 per cento a 165,8 euro. Eppure Gucci – 3,6 miliardi di fatturato – assicura ai Francesi margini superiori al miliardo e rappresenta il 30 per cento del fatturato.
GLI UTILI finiscono nella controllata in Olanda, dove le tasse sulle royalties sono un terzo di quelle italiane. Paradossalmente, il recente licenziamento sia dello storico direttore creativo Frida Giannini, sia dell’ad – nonché compagno della Giannini – Patrizio Di Marco (per i due si parla di un approdo in Cavalli) ha turbato il sonno degli investitori più di Report.
nel corso della serata ti rivelavi sempre più fedele alla figura di un Dio tradizionale, accertandone inesorabilmente l’esistenza
il Fatto 23.12.14
La lettera
Caro Benigni, sei grande ma ho nostalgia di Roberto
di Silvano Agosti
Caro Benigni, spinto a mia volta da un sentimento di gratitudine, di affetto e di ammirazione, decido di scriverti questo breve messaggio, anche a nome di tutti coloro cui sono state sottratte le energie necessarie per infrangere la corazza potente del tuo prestigio, della tua soavità, della tua certezza di essere Benigni e quindi di saper trasformare con innocenza qualsiasi pensiero, qualsiasi moto dell’anima in un evento di spettacolare semplicità.
Ho avuto il privilegio di incontrare Roberto, agli albori del viaggio verso la conquista di Roma, dell’Italia e infine del mondo, quando recitava la sublime disperazione di Cioni Mario, un operaio ormai scomparso con la quasi definitiva sparizione dell’intera classe operaia. Ogni volta che osservo e ammiro Benigni sento crescere in me una profonda nostalgia per Roberto.
Roberto, cui io, pur essendo quella sera il solo spettatore della tua recita insieme alla ragazza che avevo invitato, ho offerto da subito tutta la mia stima: “Vuoi sapere cosa penso di te? Tu sei immenso come Eduardo, perché come lui non reciti ma sei”. Così ti dissi allora circa 40 anni fa quando mi hai raggiunto all’uscita chiedendo il mio parere sulla tua recita.
Nelle due serate di lunedì e martedì questa volta non avevi come ai tuoi inizi solo due spettatori, ma dieci milioni e dal primo all’ultimo istante Benigni ha trionfato ma Roberto, messo in disparte, non è apparso. Lui che trent’anni fa, quando era ancora tuo socio in arte, ti seguiva ovunque.
Roberto e Benigni negli Anni 70 erano praticamente la stessa persona, e nel 1983 lo spettacolo di allora sui dieci comandamenti osava esordire attribuendo a Dio i dieci vizi capitali, affidando in modo magistrale la faccenda dell’esistenza di dio al buon senso di ognuno. Allora Dio lo chiamavi Guido e sostenevi che se moriva sarebbe andato certamente all’inferno.
GLI SPETTATORI allora non riuscivano a domare l’onda delle risate e anche tu dovevi fermarti ogni poco per non essere sommerso dagli applausi. Invito chiunque a conoscere il magnifico duo Roberto e Benigni, cercando oggi su Google I Dieci Comandamenti 30 anni fa. Ebbene, durante queste due attuali serate del 15 e del 16 dicembre è avvenuto un fatto che mi ha colpito e che ora desidero riferirti. Mentre tu parlavi e nel fluire inesorabile dei tuoi pensieri riconoscevo comunque la tua irraggiungibile abilità di intrattenitore, la tua immagine si andava via via trasfigurando e, se io avessi avuto in me l’aiuto della liturgia ufficiale, avrei detto che tu andavi sempre più assumendo la forma di un angelo, tanto che non era difficile immaginare che dietro a te stessero lentamente apparendo due candide ali. Ma poco dopo quando nei tuoi movimenti di danza, alla musica solo del tuo umorismo, ti sei messo di fianco ho avuto l’impressione che invece di due ali tu ne avessi soltanto una. E ho pensato, ma come potrà mai volare questo strano angelo con una sola ala? O forse nel tuo immaginario un angelo stava apparendo accanto a te e nel corso della serata ti rivelavi sempre più fedele alla figura di un Dio tradizionale, accertandone inesorabilmente l’esistenza.
Insomma invece di Roberto, ormai al tuo fianco stava apparendo l’angelo protettore, garante di un dio a sua volta Protettore “che tutto vede e provvede” e anche perfino lo scempio di una società ostile a qualsiasi valore umano. Roberto era dunque la tua ala mancante. Tu e Roberto potevate parlare di qualsiasi cosa senza mai offendere nessuno, neppure se definivate criminali coloro che altri chiamavano Onorevoli. Ti chiedo solo di riflettere: perché Eduardo, il grande Eduardo è entrato nella sua eternità non come “De Filippo”, ma come Eduardo? Forse per la sua fedeltà nella difesa dei diritti di coloro cui viene negato qualsiasi diritto? Quindi il senso di questo mio messaggio si riassume nell’invito affettuoso a ritrovare in te Roberto e perfezionare la tua unicità non solo come Benigni, ma appunto, anche come Roberto. Sono certo che Eduardo si unirebbe a questo mio abbraccio.
Corriere 23.12.14
Progressisti anti-Kennedy
Intellettuali scatenati su Cuba nel 1962
Ma Togliatti riteneva incauto Krusciov
di Paolo Mieli
Non sempre, in Italia, John Fitzgerald Kennedy è stato un mito. Ci fu un momento, nell’ottobre 1962, in cui qui da noi lo stato maggiore dell’intellettualità di sinistra si dispose in assetto di guerra contro il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Fu allorché il capo degli Usa sfidò l’Unione Sovietica, costringendola a ritirare i missili che Nikita Sergeevic Krusciov aveva iniziato ad installare a Cuba. Il Partito comunista italiano — ma ancor più il suo seguito di cineasti, scrittori, personaggi dello spettacolo e pittori — si schierò risolutamente dalla parte di Fidel Castro e dell’Urss. Luchino Visconti si disse «impressionato» e «costernato» dal gesto di Kennedy, giudicandolo «imprudente e molto pericoloso». Guido Piovene — che pure comunista non era — così minacciò i «responsabili» del nostro Paese: «Il popolo italiano deve far sentire la sua voce, premere su chi lo governa e fargli capire che l’Italia non è disposta ad entrare in avventure come queste».
Carlo Levi tenne a sottolineare il fatto che «quando fu consentito di costruire rampe di missili nei nostri aranceti di Puglia, non dovemmo subire blocchi da parte di chi era esposto all’offesa». Levi accusò Kennedy di essere una «bambola tecnologica». Di più: un uomo che, con il «tono isterico di chi taglia i ponti dietro di sé e pare animato da volontà suicida», perseguiva una politica di «nazismo atomico». Proprio così: Kennedy era un «nazista atomico». Cesare Zavattini non ebbe esitazioni a pronunciarsi in favore di Castro: «Sono sempre stato solidale con Cuba ed ho sempre creduto nella profonda necessità della sua rivoluzione… la sconvolgente notizia del blocco americano rende questa mia fede nella funzione di Cuba più drammatica, più reale, più totale; la pace è un bene troppo sacro e troppo prezioso perché debba essere compromesso e per di più sulla pelle di Cuba». L’editore Giangiacomo Feltrinelli già intravedeva la catastrofe della guerra nucleare e progettava di «trasformare i suoi stabilimenti in sotterranei antiatomici, in modo da poter essere pronto a stampare… i libri indispensabili a rieducare i sopravvissuti».
Il settimanale democristiano «La Discussione» accusava il «pacifismo ipocrita» di questi intellettuali e metteva in risalto gli «strani oblii» sulla contemporanea aggressione della Cina maoista all’India. Poi li sbeffeggiava uno ad uno: si segnalano tra questi uomini di cultura antiamericani «un romanziere specializzato in vicende erotiche» (Moravia), «un narratore di storie di prostitute e di sfruttatori» (Pasolini), «uno scrittore che fa il pittore» (Carlo Levi) e «un pittore che fa l’attivista comunista» (Renato Guttuso). Il vicesegretario della Dc Giovanni Battista Scaglia li definiva «intellettuali squillo» e questa battuta veniva considerata assai efficace nel dispacci riservati dell’ambasciata statunitense di via Veneto. Guttuso gli rispondeva per le rime. Il 25 ottobre si tenne un’assemblea al Teatro Brancaccio di Roma dove si susseguirono gli interventi fortemente antiamericani di Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Renato Guttuso, alcuni dirigenti del Pci e il socialista Emilio Lussu. Giungevano adesioni dello stesso segno da parte di Italo Calvino, Vittorio De Seta, Michelangelo Antonioni, Emilio Vedova, Luciano Berio, Gian Maria Volonté, Luigi Nono (che sarà coinvolto in scontri con la polizia nel corso di una manifestazione contro Kennedy).
In una manifestazione il 27 ottobre davanti al Duomo di Milano restava ucciso un giovane ventunenne, Giovanni Ardizzone (che, non senza generare qualche sconcerto, si scopriva poi essere stato iscritto qualche anno prima al Movimento sociale italiano). L’«Unità» scriveva che non si era trattato di un «incidente» e puntava l’indice contro la polizia: «Bravacci in divisa a disposizione dei donrodrighi scelbiani e tambroniani che ancora si annidano nelle questure italiane». Un altro socialista, Lelio Basso, definiva quello di Kennedy come «un atto di prepotenza internazionale così aperto e conclamato che sulla sua illiceità giuridica e morale non possono sussistere dubbi». Venivano conquistate alla causa le firme di Giulio Carlo Argan, Mino Maccari, Eduardo De Filippo, Francesco Rosi, Luigi Zampa, Elio Petri. E perfino quella di Giuseppe Ungaretti. Anche il giurista cattolico-liberale Arturo Carlo Jemolo si pronuncerà contro Kennedy, sostenendo che il vero aiuto che gli europei potevano dargli era quello di «disapprovare questo gesto diretto in definitiva contro i valori dell’Occidente, frutto della psicosi bellica da cui è dominato il popolo americano».
Si parla anche di questo in uno dei capitoli più avvincenti dell’interessantissimo libro di Leonardo Campus, I sei giorni che sconvolsero il mondo. La crisi dei missili di Cuba e le sue percezioni internazionali , appena pubblicato da Le Monnier. Ciò che incuriosisce non è che quegli intellettuali si muovessero all’unisono in solidarietà all’Unione Sovietica (lo fecero sempre, o quasi, e quella non fu neanche una delle occasioni più imbarazzanti), ma che in quell’ottobre del 1962 due di loro, pur schierandosi contro gli Stati Uniti, ritennero di distinguersi dagli altri. Il primo fu Elio Vittorini, che espresse qualche dubbio sulle iniziative del mondo della cultura e, per parte sua, rifiutò di dividere il mondo in buoni (Castro e Krusciov) e cattivi (Kennedy): «Le notizie sono allarmanti e preoccupanti», disse, «tuttavia non si può dare un giudizio moralistico; la questione di Cuba richiede di essere risolta su un piano di buona volontà internazionale, con il concorso di tutte le parti». Ancora più esplicito nell’esprimere le proprie perplessità fu il grande leader del pacifismo italiano, Aldo Capitini, che rifiutò di aderire alla manifestazione del Brancaccio dicendo: «A parte il fatto del regime interno di Cuba e delle uccisioni che sono avvenute in questi mesi anche senza processo di gente lì dentro… è chiaro che io sono contro l’imperialismo di Kennedy, ma non posso accettare che si mettano basi missilistiche né lì né in ogni altro punto». E lo stesso Jemolo, qualche giorno dopo il primo pronunciamento, si sentì in dovere di correggere leggermente il tiro: ribadì che, a suo avviso, «dal punto di vista giuridico gli Stati Uniti erano dalla parte del torto», ma riconobbe che «la Russia aveva cercato di turbare lo statu quo e di inserire armamenti in un punto nevralgico» e definì questa circostanza «un cattivo servizio alla causa della pace».
Il paradosso (ma non fu l’unica volta che nel secondo dopoguerra si verificò un caso del genere) è che la politica si caratterizzò per giudizi assai più sfumati e articolati di quelli degli intellettuali. Clamoroso fu il caso del Partito comunista. Mentre i compagni di strada e la stampa del Pci si pronunciavano nei termini di cui si è detto, nel partito soffiava un vento sempre più forte di critica all’«avventurismo» di Krusciov. Pur con qualche prudenza, in una riunione della direzione si pronunciano in tal senso, oltre allo stesso Palmiro Togliatti, Mario Alicata, Armando Cossutta ed un giovane Enrico Berlinguer.
Se ne accorge l’ambasciata statunitense, che nota la mancanza di una mobilitazione da parte del Pci del tipo di quelle che si erano avute in precedenti, simili circostanze. «Questa relativa tranquillità comunista», annota un dispaccio diplomatico, «sta suscitando crescenti commenti nei circoli non comunisti». Un dirigente, Luciano Barca, rileva nel suo diario che Togliatti considera che l’Urss sia uscita «indebolita» dalla prova di forza: «Il suo giudizio su Krusciov diviene ancora più severo… Paragona l’avventurismo dell’operazione militare a quello del rapporto segreto (la denuncia dei crimini di Stalin nel 1956, ndr ) non fondato su una seria analisi e privo di proposte correttive adeguate agli errori ed orrori denunciati».
Ancora più articolata la questione in casa socialista. Il segretario del Partito socialdemocratico, Giuseppe Saragat — che di lì a due anni sarà eletto presidente della Repubblica — condanna inizialmente il blocco americano per il suo carattere «illegale ed eccessivo». Nei giorni successivi correggerà il tiro, accusando l’Urss di aver «cercato di violare la legge suprema degli equilibri». Anche il socialista Pietro Nenni censura il blocco americano e loda la prudenza di Krusciov, pur prendendo le distanze dalla sua decisione di istallare basi missilistiche a Cuba. «Posizioni abbastanza misurate», le definisce Campus, che però nota come «così barcamenandosi Nenni finì per scontentare tutti». Tant’è che un funzionario del dipartimento di Stato decise di incontrare altri dirigenti socialisti. Tra essi un ventottenne Bettino Craxi, citato in una relazione ad Arthur Schlesinger. «Sebbene Craxi», scrive il rapporto, «ovviamente considerasse di saperne parecchio sul problema cubano (molti socialisti ingenuamente credono che siccome sono “marxisti” hanno uno speciale intuito e comprensione per gli affari mondiali), egli non aveva neppure realizzato che Castro si era proclamato marxista-leninista… Dopo che il nostro incontro fu finito, Craxi era piuttosto riflessivo e mi ha fatto notare di aver imparato molto… ha spontaneamente affermato che avrebbe visto Nenni e gli avrebbe detto alcune delle cose che aveva imparato e fornito un bel po’ di materiale scritto che aveva ricevuto». Poche settimane dopo quell’incontro, Craxi scrive all’autore del rapporto, dicendogli di aver riferito quel che aveva appreso dai «miei amici milanesi, che avevano indugiato in un romantico filocastrismo» e che adesso «hanno riconsiderato parecchie posizioni dopo notevole discussione e riflessione».
Analoga ancorché confusa autocritica farà Nenni, il quale in una lettera ammetterà che «nella questione di Cuba non siamo stati capaci di individuare fin dal primo momento che le basi sovietiche erano una violazione dell’indipendenza cubana e fornivano un pretesto alla eccitata opinione pubblica americana per soffocare la rivoluzione in ciò che ha di autenticamente cubano e socialista».
Ancor più complicato quel che avviene in casa Dc. Il capo del governo, Amintore Fanfani, cerca una posizione «terza» tra Usa e Urss (e per questo riceverà l’apprezzamento russo), ma il leader inglese Harold Macmillan nel suo diario definisce l’atteggiamento fanfaniano ai tempi di questa crisi «windy» (verbosamente vuoto). Il presidente della Repubblica Antonio Segni si accorge dei misteriosi movimenti di Fanfani (affidati, come vedremo, all’attivismo di Giorgio La Pira) e lo denuncia agli americani. «Segni», riporta una nota della Cia, sostiene che mentre tutti gli altri Paesi occidentali hanno leader forti l’Italia è guidata da un uomo, Fanfani, «la cui mancanza di coraggio e il cui atteggiamento ambiguo la sta allontanando dai suoi alleati verso un irrealistico e pericoloso neutralismo del genere patrocinato dal suo amico utopista, La Pira».
Il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, effettivamente grande amico di Fanfani, coinvolge Giovanni XXIII in un’offensiva di pace all’indirizzo di Kennedy e Krusciov. Il Papa si muove sì, ma per conto proprio. E annota su una sua agenda personale: «Notevole la esibizione di La Pira… Che disgrazia! Così buono e retto; ma così poeta, e fuori dalla realtà». Il sindaco, a supporto dalla propria azione, mobilita la sua città. Ecco alcuni comunicati che furono diramati da Firenze: «I dipendenti della valigeria Leone si sono riuniti in assemblea generale per esaminare l’attuale situazione mondiale ed hanno unanimemente riconosciuto che il blocco navale operato dall’America contro l’isola di Cuba è un atto inconsiderato che può portare conseguenze disastrose per tutto il mondo»; «Gruppo Facchini mercato ortofrutticolo Novoli fa voti affinché la S.V. (il primo cittadino) a nome lavoratori fiorentini prenda concrete iniziative difesa pace et tranquillità mondiali»; «Le donne dell’Isolotto, vivamente allarmate dagli eventi, chiedono alle autorità competenti di farsi interpreti davanti agli organi di governo del loro stato d’animo»; «I giovani dei rioni di Monticelli, Legnaia, Isolotto, S. Frediano, riunitisi stasera in un’assemblea si rivolgono al Sindaco per richiedere, in nome della città, un urgente e immediato intervento verso il governo italiano e l’Onu per frenare la corsa alla guerra atomica e salvare la pace nel mondo». Colore, certo. Ma i movimenti politici furono reali.
Si può sottolineare una curiosa simmetria, rileva Campus: «Mentre Fanfani dava un supporto riluttante alle mosse statunitensi (che giudicava troppo rischiose), Togliatti lodava pubblicamente l’Urss covando non meno dubbi su quelle di Krusciov (che considerava troppo avventuristiche)». Entrambi i leader, insomma, in quel frangente «erano abbastanza scontenti della rispettiva superpotenza pur senza poterlo dire». In ogni caso furono più sottili di quanto lo fossero i loro apparati di propaganda. E, soprattutto, degli uomini di cultura da questi ultimi influenzati.
Corriere 23.12.14
Quando una Chiesa è Stato
La Santa Sede e la Cina
risponde Sergio Romano
È opinione comune di teologi e fedeli che papa Francesco rappresenti nella maniera più semplice le parole del Vangelo sia in quanto dice sia nei suoi comportamenti. Leggo che papa Francesco si è rifiutato di ricevere il Dalai Lama per non creare tensioni con la Cina. Nel Vangelo c’è scritto non accogliere la vittima per non disturbare il carnefice? Ero convinto ci fosse scritto di dare testimonianza.
Roberto Bellia
Caro Bellia,
La Chiesa romana ha un lungo passato statale a cui non ha mai rinunciato. Quando dovette constatare che lo Stato italiano non era una realtà effimera e non sarebbe scomparso dalla carta politica d’Europa, la Santa Sede accettò il fatto compiuto e la Conciliazione, ma volle un territorio, sia pure piccolo, su cui esercitare un potere terreno. È convinta che questo fattore, insieme al suo regime monocratico e alla sua autorità spirituale, le consenta di preservare l’unità di una struttura complessa, composta da una fitta rete di diocesi, parrocchie, istituzioni monastiche, associazioni educative e assistenziali. Queste responsabilità terrene hanno avuto qualche effetto negativo: due grandi scismi (della Chiesa ortodossa e della Chiesa anglicana) e la necessità di venire a patti, pur di salvare le proprie istituzioni, con regimi «pagani» e illiberali, come quello di Hitler, accettando compromessi che vanno sotto il nome di Concordati. Ma la sua struttura fortemente gerarchica e statale le ha permesso di evitare la frammentazione delle sette, vale a dire la sorte toccata ai seguaci di Lutero.
Nel caso della Cina, la Chiesa è alle prese con uno scisma organizzato dal regime. Come Pietro il Grande nel 1721, quando soppresse il Patriarcato di Mosca e lo sostituì con un Santo Sinodo presieduto dal Metropolita della città, Mao Tzedong ha creato una Chiesa nazionale cinese (l’Associazione patriottica cattolica) in cui i vescovi sono nominati dallo Stato. In Cina esistono quindi vescovi scelti dal regime, che la Chiesa romana non può riconoscere, e vescovi nominati da Roma che non sono riconosciuti dal potere comunista e ne subiscono le persecuzioni.
È una situazione che concerne un numero difficilmente verificabile di cattolici. Secondo i dati dell’Associazione nazionale patriottica, i cattolici «governativi» sarebbero poco meno di sei milioni. Secondo stime di altre fonti, i cattolici di obbedienza romana sarebbero altrettanti. A rigore di logica qualsiasi concordato fra queste due Chiese-Stato dovrebbe essere impossibile. Sino a quando la Chiesa romana vorrà essere anche «Stato», il regime comunista non dovrebbe permettere che i suoi cittadini siano contemporaneamente «sudditi» di una potenza straniera. Ma Cina e Chiesa hanno anche caratteri comuni: un lungo passato e un grande talento per conciliare rigore e duttilità.
Repubblica 23.12.14
Joe Lansdale
“Il razzismo è il nostro incubo ma è sbagliato accusare de Blasio”
Siamo un Paese che ha posto le sue basi su schiavitù segregazione e diffidenza
Ma siamo cambiati rispetto a 50 anni fa, i rapporti tra bianchi e neri non sono mai stati così buoni
Obama non ha fatto bene come molti di noi speravano, le incomprensioni restano forti
intervista di Anna Lombardi
«SONO stanco. L’America è molto meglio di così. La società è andata avanti. Poi succede qualcosa di orribile ed è come se tutti venissimo catapultati indietro, nel passato». Joe Lansdale, lo scrittore che ha trasformato in romanzo i nostri peggiori incubi, il maestro pulp che con i suoi libri – da Una stagione selvaggia a Freddo a luglio ha sviscerato il lato oscuro dell’America profonda, si dice «preoccupato» dalle tensioni razziali. Ma soprattutto «stanco ».
Prima i fatti di Ferguson e Staten Island. Ora l’omicidio di due poliziotti a Brooklyn. Cosa sta succedendo in America?
«Quello che accade oggi è sempre accaduto. Ha radici profonde. Siamo un Paese che ha posto le sue basi su schiavitù e segregazione razziale. Una società basata sulla diffidenza. Così la gente ha paura della polizia anche quando la polizia è nel giusto, si comporta bene. Ci sono state troppe ingiustizie: è difficile vedere oltre».
L’odio è tale da sparare a due poliziotti in strada?
«Non credo che l’uomo che ha sparato a New York pensasse alle tensioni razziali. Semmai ha sfruttato questo momento per giustificare la cosa terribile che aveva appena fatto: sparare alla fidanzata poche ore prima. Certo, è un’epoca difficile, le tensioni sociali e razziali sono tremende. Ma questo duplice omicidio così efferato non ha niente a che fare con Ferguson. L’assassino ha forse tentato un’estrema nobilitazione del suo gesto. Si è inventato una causa dell’ultim’ora ».
Eppure sembra che l’America non riesca a voltare pagina…
«Il fatto incredibile è che le relazioni fra bianchi e neri non sono mai state così buone. Provi a pensare a com’era 50 anni fa dove vivo io, in Texas: sarebbe stato inimmaginabile vedere una coppia mista: ora nessuno ci fa più caso. Anche l’omofobia appartiene al passato. La società americana è cambiata. Ma questo non vuol dire che non ci siano tensioni».
Noam Chomsky dice che la società americana è ancora profondamente razzista…
«Il razzismo esiste: in America come in Europa. Sono stato di recente da voi in Italia e ho sentito dire cose orribili delle persone che chiamate “africani”. Le persone che non riescono ad accettare la diversità sono ovunque. E questa è la nostra più grande sconfitta come esseri umani».
Ma fa particolarmente impressione in un Paese dove per la prima volta c’è un presidente afroamericano…
«Obama non è stato capace di fare così bene come molti di noi speravano. C’è il problema economico che rimane grave. E c’è un problema di incomprensione culturale tanto più dove diverse etnie convivono, ma non si mischiano. Poi c’è questa atavica diffidenza verso la polizia e della polizia verso tutti coloro che sono minimamente sospetti anche se innocenti. Siamo una società fondata sulla paura. E la paura porta a reazioni spropositate. Ma ripeto: in altri tempi era peggio».
Il sindacato dei poliziotti di New York ha detto che il sindaco de Blasio “ha le mani sporche di sangue” per aver sostenuto le proteste contro di loro: accuse pesanti…
«Sbagliano. La sola persona responsabile di quello che è accaduto a New York è l’assassino. E poi uno dei valori basilari di questo paese è la libertà d’espressione. Dobbiamo garantire alla gente il diritto di protestare pacificamente anche quando non siamo d’accordo con loro. Altrimenti non saremmo più l’America».
C’è speranza di uscirne?
«La gente reagisce in maniera sproporzionata e temo che gli americani abbiano l’attitudine a pensare che tutto possa essere risolto con la violenza. Ma sono ottimista: le cose andranno meglio proprio perché oggi la società è più avanti di 50, 25 anni fa. E non saranno fatti terribili come questi a farcelo dimenticare».