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In manicomio con Celestini / Bene la sua prima (al cinema)

Di Alberto Crespi 

3 settembre 2010
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Nel contesto di questi primi giorni di Mostra, “La pecora nera” è una benedizione: finalmente un bel film, dopo incredibili schifezze come il film d’apertura (“Black Swan” di Aronofsky) o ambigui monumenti alla correttezza politica (“Miral” di Schnabel, ne parliamo in altra pagina). Ma non ci sembra il modo giusto di parlarne: Ascanio Celestini, grande teatrante/affabulatore al primo film, non ha il compito di salvare Venezia da se stessa. Il suo film ha una lunga storia che prescinde dal Lido. Che sia in competizione è un incidente di percorso.

Prima di diventare un film, “La pecora nera” è stato uno spettacolo teatrale in forma di monologo ed un romanzo (editi in cofanetto da Einaudi). Apparentemente è la storia di un caso clinico. Un ragazzino nato «nei favolosi anni 60» (la frase è un tormentone che in teatro ricorreva spesso, nel film meno) cresce in una condizione di disagio, con una nonna affettuosa e ingombrante, un padre e dei fratelli violenti, una madre rinchiusa in manicomio. Dopo aver assistito all’omicidio di una prostituta, uccisa dai fratelli, il piccolo Nicola viene anch’egli ricoverato e sottoposto a elettroshock. Come suol dirsi, chi entra in manicomio sano diventa matto per forza. Anni dopo – nel 2005, nei giorni della morte di Papa Wojtyla – Nicola ha sviluppato una forma di schizofrenia che lo spinge a sdoppiare il sé «normale» con un alter ego folle. La trama non prevede scioglimenti: il manicomio è diventato un habitat, uno stile di vita. Non a caso il film si apre con la famosa barzelletta, che la voce di Celestini racconta fuori campo, dei due matti che tentano di fuggire dal manicomio dai 100 cancelli, i due matti ne scavalcano 99 e, all’ultimo, si stufano e tornano indietro.

Abbiamo «sciolto» in una trama temi e situazioni che Celestini a teatro snoda in un monologo avvincente e inquietante, e che al cinema – con l’aiuto degli sceneggiatori Ugo Chiti e Wilma Labate – si evolve in una serie di tableaux vivants, di bozzetti autosufficienti. C’è molto Brecht nello stile volutamente non naturalistico, e c’è molto Pasolini nell’occhio cinematografico che Celestini si inventa per questo suo primo film (non casuale, anzi, decisivo l’apporto del direttore della fotografia Daniele Ciprì, già partner di Franco Maresco in Cinico Tv). Ma l’apparente limpidezza del film” “nasconde una complessità che darà vita a polemiche e fraintendimenti. È facilissimo leggerlo come un film sulla pazzia, sulla 180, su Basaglia, e trovarlo poco realistico, poco «di denuncia».

La verità è che Celestini usa il manicomio per parlare d’altro, e nessuno è in grado di spiegarlo meglio di lui: «Non volevo fare un film, né uno spettacolo, di denuncia. Per questo non è ambientato nel ’78, all’epoca della legge 180, e non parla di Basaglia anche se parte da Basaglia. Anni prima della legge, egli scrisse del manicomio paragonandolo ad altre istituzioni come la scuola, il carcere, la famiglia, la caserma. Ecco, io non credo che il manicomio o il carcere siano istituzioni criminali perché vi avvengono abusi o violenze: credo che sia criminale l’idea stessa di istituire simili istituzioni, perché è criminale che qualcuno decida della libertà di un altro. Se ci si limita al manicomio, allora ogni dibattito viene chiuso dalla risposta che diede una paziente di Perugia intervistata sulla legge 180. Disse: ma perché ci avete chiuso i manicomi, stavamo così bene, mangiavamo cacavamo e pisciavamo come matti. Il manicomio riduce un adulto alla dimensione di un bambino col pannolino. Ed è ovvio che qualcuno ci stia bene, e non voglia crescere». “La pecora nera” è la storia di un’Italia non cresciuta, rinchiusa nel mito dei «favolosi anni Sessanta». È un film su di noi, anche se crediamo di non essere matti.

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