Marianne Moore, poetessa e scrittrice statunitense
(Kirkwood, 15 novembre 1887 – New York City, 5 febbraio 1972)
DA : http://antoniobux.wordpress.com/2013/09/16
blog di poesia e letteratura internazionale
6 POESIE DI MARIANNE MOORE TRATTE DA – “LE POESIE” – ADELPHI (1991)
Pubblicato: 16 settembre 2013 in Poeti stranieri tradotti
NEI GIORNI DEL COLORE PRISMATICO
non nei giorni di Adamo ed Eva, ma quando Adamo
era ancora solo; quando il fumo non c’era, e il colore
era bello, non per l’affinamento
di un’arte primitiva, ma per la sua stessa
originalità; e nulla c’era a modificarlo se non la
nebbia che saliva, e l’obliquo era una variante
del perpendicolare, semplice a vedersi e
a spiegarsi: non è
più così; né la fascia blu-rosso-gialla
di incandescenza che era il colore ha serbato il suo schema: è
anch’essa una
di quelle cose in cui si può immettere e scoprire molto di
peculiare;
la complessità non è un delitto, ma se la portate
fino alla soglia dell’oscurità,
più nulla sarà semplice. La complessità,
poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece
di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno
come per confonderci con la tetra
illusione che l’insistenza
è la misura di ogni risultato e che ogni
verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente
la sofisticazione è quel che è sem-
pre stata – agli antipodi delle iniz-
iali grandi verità. “Parte strisciava, parte
si accingeva a strisciare, il resto
stava torpido nella tana”. Nel procedere lento, sussul-
tante, nel gorgogliare e in tutte le minuzie – noi abbiamo la
classica
moltitudine di piedi. A quale scopo! La verità non è l’Apollo
del Belvedere, non è cosa formale. L’onda potrà
sommergerla, se vuole.
Sappi però che ci sarà se dice:
“Ci sarò quando l’onda se n’è andata”.
IN QUESTA ETÀ DI ASPRA AMBIZIONE
GIOVA LA NONCURANZA E
“in verità, non è
affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero
in questa circostanza. Alcuni
rotarono sull’asse del proprio valore,
come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;
non si avventurarono
in una professione di umiltà. Il cuneo levigato
che poteva spaccare il firmamento
era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso
e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.
“Superiore in altezza a tutti gli altri
di quanto può esser lunga una conversazione
di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose
che non avrebbero potuto mai essere vere –
ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile
filastrocca che parla di certezza;
il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua
efficacia,
del più feroce assalto a viso aperto.
Il bastone, la sacca, la finta incoerenza
dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la
salvaguardia di se stessi.
ALL’ARTE DI GOVERNO IMBALSAMATA
Non c’è nulla da dire in tuo favore. Difendi
il tuo segreto. Tienilo nascosto sotto la dura
scorza di piume, negromante.
O
uccello, le cui tende sono state “grandi teli di canapa
egiziana”, la pallida iscrizione zigzagante della Giustizia –
reclina come una danzatrice – potrà mostrare
mai
il polso della sua sovranità, un tempo così vivida?
Tu neghi, e trasmigrando fuori dal sarcofago
intessi un silenzio di neve intorno
a noi,
e con il tuo linguaggio moribondo,
zoppo a metà e a metà altero,
incedi qua e là. Ibis, noi non troviamo
più
alcuna traccia di virtù in te – vivo ma così muto.
La discrezione ora non è la somma
del buon senso che onora lo statista.
E se
fosse l’incarnazione di una grazia morta?
Come se una maschera mortuaria potesse sostituire
l’imperfetta eccellenza della vita!
Lento
a scoprire la dimensione ripida e severa
del tuo trono, tu vedrai la forzata distorsione
dei sogni suicidi
andare
vacillando verso se stessa e con il suo becco
aggredire la sua stessa natura, fino a quando
sembri amico il nemico e l’amico sembri
nemico.
L’ARGONAUTA
Forse per i potenti che affidano
le speranze a mani mercenarie?
O per scrittori presi nella trappola
della gloria mondana e degli agi
del fine-settimana? Non per costoro
l’argonauta femmina
fabbrica il suo sottile guscio vitreo.
Offrendo il suo precario
souvenir di speranza, una superficie
bianco-opaca all’esterno
e di contorni morbidi all’interno,
lucente come il mare, la prudente
artefice lo veglia
giorno e notte; e mangia appena
finché le uova non siano schiuse.
Otto volte sepolta nelle sue
otto braccia, poiché in un certo senso
è anche lei una piovra,
la teca vitrea e cornea della culla
è ben nascosta, ma non stritolata;
se Ercole, addentato
da un granchio fedele all’Idra,
si vide impedito nell’impresa,
le uova vigilate
intensamente, nell’uscire dal guscio,
lo liberano quando sono esse stesse liberate –
nel lasciare le rughe di quel favo,
bianco su bianco, e le fitte pieghe –
simili a quelle di un chitone ionico,
o alle righe nella criniera
di un cavallo del Partenone –
intorno cui le braccia
si erano avvolte come se sapessero
che l’amore è l’unica fortezza
tanto salda da offrire affidamento.
LUCE È LINGUAGGIO
Della luce del sole si può dire
più di quanto si dica del linguaggio: ma linguaggio
e luce, a vicenda
aiutandosi – francese l’uno e l’altra –
non han disonorato un aggettivo
che rimane ancora radicato.
Sì, luce è linguaggio. Libera franca
imparziale luce di sole, luce di luna,
luce di stelle, luce di faro,
sono linguaggio. E il faro
di Creach’h d’Ouessant,
sulla sua indifesa
scaglia di roccia, è il discendente di Voltaire,
la cui giustizia fiammeggiante andò
a raggiungere un uomo già colpito:
dall’inerme
Montaigne, il cui equilibrio,
conservato malgrado la durezza
del bandito, accese la scintilla
salvatrice del rimorso; di Émile Littré,
mosso dalla passione filologica,
ammaliato dagli otto volumi
d’Ippocrate, il suo
autore. Era
un uomo di fuoco, uno scienziato
della libertà, questo tenace Maximilien
Paul Émile Littré. Se l’Inghilterra
è difesa dal mare,
noi, con la consolidata Libertà
di Bartholdi, che regge alta
la torcia accanto al porto, udiamo
l’ingiunzione della Francia: “Ditemi
la verità, e specialmente quando
sia spiacevole”. E noi,
noi possiamo rispondere soltanto:
“Questa parola Francia vuole dire
affrancamento: vuole dire una
che “rianima chiunque pensi a lei”.
QUANTO BASTA
Se sono una fanatica? Al contrario.
E dove mai mi piacerebbe stare?
Sotto l’olivo di Platone, a terra
o appoggiata al suo vecchio, sodo tronco,
lontana da polemiche
o persone colleriche.
Se vuoi le pietre al posto giusto, indenni
da calce (il muratore dice “malta”),
squadrate e lisce, devi rispettarle,
come disse Ben Jonson, o intendeva.
In Discoveries egli disse ancora:
“Sii per la verità. È quanto basta”.
charles Ives pare essere il primo compositore di musica classica americana che non “assomiglia” a nessun compositore europeo. chiara è la prima volta che lo sente. A vieremu, dice quel bolognés ligurizzato…
https://www.youtube.com/watch?v=tbArUJBRRJ0
di Marianne Moore da “Le poesie” (Adelphi, 1991)
a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti
con due saggi di T.S. Eliot e W.H. Auden.
PARTE DEL SAGGIO DI T.S. ELIOT SU MARIANNE MOORE
T.S. Eliot/Marianne Moore: è possibile prevedere la gloria futura di un poeta?
Non è molto quello che sappiamo circa il valore dell’opera dei nostri contemporanei; anzi, è ben poco, quasi quanto sappiamo del valore della nostra stessa opera. Vi si possono trovare qualità che esistono soltanto per la sensibilità contemporanea, così come vi si possono nascondere virtù che diverranno evidenti soltanto col tempo. Quale posto le spetterà quando noi tutti saremo scrittori defunti, non possiamo dirlo con alcuna approssimazione.
Se proprio si deve parlare dei contemporanei, è quindi importante stabilire prima di tutto che cosa possiamo affermare con convinzione e che cosa deve restare aperto al dubbio e alla congettura. L’ultima cosa che possiamo giudicare è certamente la loro “grandezza”, o piuttosto la loro relativa eccellenza o mediocrità in rapporto al concetto di “grandezza”. Nel concetto di grandezza, infatti, sono impliciti significati morali e sociali che possono essere percepiti soltanto da una prospettiva più remota e dei quali si può forse dire addirittura che sorgono nel corso della storia. Non si può predire quale sorte avrà una certa poesia, quale azione eserciterà sulle generazioni successive. E tuttavia possiamo credere, con un certo fondamento, che esista qualche cosa, una qualità, che può essere riconosciuta da un piccolo numero, soltanto da un piccolo numero, di lettori contemporanei; ed è la genunità.
Dico di proposito “soltanto un piccolo numero”, perché sembra probabile che, quando un poeta riesce a conquistare in vita un pubblico numeroso, una porzione sempre crescente di ammiratori lo ammirerà per ragioni estranee, per ragioni non sostanziali. Non è detto che siano cattive ragioni, ma allora la notorietà del poeta sarà semplicemente quella di un simbolo, dovuta alla sua capacità di compiere sui lettori un’azione stimolante, o consolante, in ragione del particolare rapporto che lo lega ad essi nel tempo. Quesa azione sui lettori contemporanei può essere a volte il risultato, giusto e legittimo, di una grande poesia; ma è anche accaduto, assai spesso, che fosse il risultato di una poesia effimera.
Non sembra molto importante il fatto che il poeta debba lottare con un’epoca distratta e paga di sé, e quindi ostile a nuove forme di poesia, oppure con un’epoca come l’attuale, incerta, diffidente di se stessa e avida di nuove forme che le diano un blasone e il rispetto di se stessa. Per molti lettori moderni ogni novità formale, per quanto epidermica, è la prova, o l’equivalente, di una sensibilità nuova; e se poi la sensibilità è fondamentalmente ottusa e dozzinale, tanto meglio; poiché non vi è strada più rapida per arrivare a una popolarità immediata, anche se passeggera, che quella di servire merci stantie in confezioni nuove. Vi sono alcune prove che permettono di accertare la novità e la genuinità di un prodotto, e una di queste –è una prova puramente negativa, d’accordo– si può eseguire osservando la reazione dei cosiddetti “amanti della poesia”; se il prodotto suscita la loro avversione, è probabile che ci troviamo davanti a una poesia veramente nuova e genuina.
Mi rendo conto che i pregiudizi mi inducono a non concedere tutta la mia stima a certi autori, nei quali vedo dei nemici pubblici piuttosto che dei soggetti sui quali esercitare la critica; e oso aggiungere che un altro pregiudizio, di diversa natura, mi spinge a concedere un consenso acritico ad altri scrittori. Può anche darsi che io ammiri gli autori giusti per le ragioni sbagliate. Ma ho più fiducia nella mia stima per gli autori che ammiro, che nella mia disistima per gli autori che mi lasciano freddo o mi esasperano. E quando affermo che tra le qualità riconoscibili in un contemporaneo quella che io chiamo genuinità è più importante della grandezza, faccio una distinzione tra la funzione dello scrittore da vivo e la sua funzione da morto. Da vivo il poeta continua quella battaglia per la difesa di una lingua viva, per conservare la forza e la sottigliezza della lingua, per la salvezza di una certa sensibilità, che deve essere sostenuta in ogni generazione; da morto, fornisce modelli per coloro che dopo di lui riprendono la battaglia. Marianne Moore è, credo, tra quei pochi che, nella mia generazione, hanno reso qualche servigio alla lingua (…)
(…) devo dire che Marianne Moore ha tenuto conto della lezione di Ezra Pound: che la poesia dev’essere scritta con la stessa eleganza della prosa. Si direbbe che la Moore abbia immerso il suo spirito nelle perfezioni della prosa; nella precisione della prosa, piuttosto che nel suo splendore; e che abbia trovato, per vie autonome, il suo ritmo, la sua poesia, il suo modo di pesare e apprezzare la parola singola.
Il primo aspetto per il quale la poesia di Marianne Moore è destinata a colpire il lettore è quello del minuzioso particolare piuttosto che dell’unità emotiva. Il gusto dell’osservazione minuta, della ricerca di parole esatte per esprimere certe esperienze dell’occhio può persino distrarre l’attenzione del lettore. Le minuzie possono addirittura irritare i disattenti o destare in essi soltanto lo stupore compiaciuto che si prova davanti a una palla d’avorio che contenga altre undici palle, davanti al veliero ricostruito in tutti i particolari dentro una bottiglia, o danti allo scheletro del pesce-crocifisso. Lo smarrimento che nasce dal tentativo di seguire un occhio così acuto, un processo d’associazione così agile e rapido può produrre l’effetto di certa poesia “metafisica”. Al lettore moderatamente intellettuale le poesie possono apparire esercitazioni intellettuali, e soltanto chi abbia un’intelligenza capace di rapidi e facili movimenti ne coglierà subito il valore emotivo.
Ma il particolare è sempre al servizio dell’insieme. Le similitudini hanno una ragione e uno scopo; e si veda il mitile che “si apre e si chiude come fosse un ventaglio ferito” (dove ferito ha un’ambiguità ben degna dell’attenzione di un critico come William Empson), o le onde “perentorie come le squame di un pesce”. Esse ci fanno vedere l’oggetto più chiaramente, anche quando non comprendiamo subito perché la nostra attenzione sia stata indirizzata verso quell’oggetto, e anche quando non ne afferriamo subito l’associazione con una serie di altri oggetti. Così nella sua divertita e affettuosa attenzione per gli animali –dal gatto domestico e dal mulo fino alle più esotiche e bizzarre dei tropici-, Marianne Moore riesce di colpo a gettarci in un inconsueto stato di consapevolezza, di farci percepire incredibili modelli visivi grazie a strumenti che hanno quasi il fascino proprio d’un microscopio d’alta potenza.
Si potrebbe definire come “descrittiva”, piuttosto che “lirica” o “drammatica”, la poesia di Marianne Moore, o la maggior parte di essa. Si crede generalmente che la poesia descrittiva sia legata a un certo periodo, e quindi condannata a un rapido tramonto; e invece essa è uno dei modi permanenti d’espressione. Nel secolo diciottesimo –o, se si preferisce, nel periodo che comprende Copper’s Hill, Winsdor Forest ed Elegy di Gray– la descrizione della scena è il punto di partenza per riflessioni su questo quel tema. La poesia del romanticismo, dal peggior Byron al miglior Wordsworth, oscilla tra riflessione ed evocazione; ma la descrizione, il quadro messo dinanzi al lettore, risponde sempre allo stesso scopo.
Il fine dell’ “imagismo”, per quanto ne capisco, o per quanto si possa parlare di un fine, era quello di promuovere una particolare concentrazione su un dato visivo per poi mettere in movimento una successione sempre più ampia di sensazioni concentriche. Alcune poesie di Marianne Moore –per esempio, quelle che riguardano animali o uccelli– hanno un vastissimo spettro di associazioni. Sarebbe difficile dire quale sia il “soggetto-tema” di una poesia come Il gerboa. Per uno spirito così agile, e per una sensibilità così reticente, il soggetto meno importante, com’è appunto un grazioso animaletto saltellante che ha il colore della sabbia, può essere il mezzo migliore per liberare le emozioni più profonde. Soltanto il “letteralista pedante” può giudicare banale il soggetto-tema: la banalità è dentro di lui. Ognuno di noi deve scegliere quel qualsiasi soggetto-tema che gli offra il mezzo per la liberazione più efficace e più segreta: e questa è una faccenda del tutto personale.
BIOGRAFIA DELL’AUTRICE
Marianne Moore (Kirkwood, 15 novembre 1887 – New York City, 5 febbraio 1972) è stata una poetessa e scrittrice statunitense appartenente al modernismo.
Marianne Moore nasce a Kirkwood (Missouri), nella casa parrocchiale della chiesa presbiteriana di cui il nonno materno, John Riddle Warner, era il pastore. Figlia di un ingegnere e inventore, John Milton Moore, e sua moglie, Mary Warner, Marianne cresce nella casa del nonno, il padre essendo stato ricoverato in un ospedale psichiatrico prima della sua nascita. Nel 1905, la Moore frequenta il Bryn Mawr College in Pennsylvania e si laurea quattro anni dopo. Ha insegnato all’Indian Industrial School di Carlisle, fino al 1915, quando la Moore comincia a pubblicare poesie professionalmente.
In parte a causa dei suoi diversi viaggi in Europa prima della prima guerra mondiale, Marianne Moore attrae l’attenzione di vari poeti, tra cui Wallace Stevens, William Carlos Williams, Hilda Doolittle, T. S. Eliot, e Ezra Pound. Dal 1925 al 1929, la Moore lavora come editore della rivista letteraria e culturale The Dial. Questo le diede un ruolo simile a quello di Pound, e la possibilità di incoraggiare poeti promettenti, tra cui Elizabeth Bishop, Allen Ginsberg, John Ashbery e James Merrill, di pubblicare i suoi primi lavori, e di raffinare la sua tecnica poetica.
Nel 1933, la Moore ha ricevuto il premio Helen Haire Levinson Prize dalla rivista Poetry. Il suo Collected Poems del 1951 è il suo lavoro più premiato: ha ricevuto il Premio Pulitzer, il National Book Award, e il Bollingen Prize. Moore diviene una celebrità minore nei circoli letterari di New York. Si reca a incontri di pugilato, partite di baseball e altri eventi pubblici vestita in quello che divenne poi il suo abbigliamento tipico, un cappello a tricorno e un mantello nero. Appassionata di atletica e di atleti, era una grande ammiratrice di Muhammad Ali, per cui scrisse un’introduzione al suo album I Am the Greatest!. La Moore ha continuato a pubblicare poesie in varie riviste, incluse The Nation, The New Republic e Partisan Review, oltre che a pubblicare diversi libri e raccolte di poesie e critiche. Marianne Moore è stata in corrispondenza per qualche tempo con W. H. Auden e Ezra Pound durante la sua incarcerazione.
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