ore 23:01 La crisi in Iraq è colpa di al-Maliki, non di Isis // LIMES IN EDICOLA DEL 8 AGOSTO, MI PARE—HO MESSO IN FONDO DELLE RIVISTE CHE SEMBRANO INTERESSANTI, FORSE “LE FONTI” PRINCIPALI DELLA RIVISTA DI LUCIO CARACCIOLO– per es. “The Eurasian Review..” ha un articolo (piu’ o meno “La carretta di mao”) con lo stesso titolo di quello su Limes— Anche gli altri, sempre per chi si interessa, valgono piu’ di un viaggio—Sempre in fondo c’è un link /sempre di Limes / sull’Irak e l’Isis–

 

 

lucio caracciolo, presentazione del numero in edicola e la tesi implicita è interessante (bisognera’ vedere come la documentano) —dal canale di limes su youtube al quale ti puoi iscrivere gratis—anche se per ora non  ho visto granché

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Limes Oggi

La crisi in Iraq è colpa di al-Maliki, non di Isis

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di Nicola Pedde

Il premier iracheno è il principale responsabile dell’avanzata jihadista. Il suo rifiuto di farsi da parte e di cercare un compromesso con sunniti e curdi rischia di precipitare Baghdad nel caos, anche se il fronte armato dell’opposizione è tutt’altro che unito.  

Gli obiettivi dell’Iran in Iraq


[Carta di Laura Canali]

La crisi politica che in Iraq ha portato alla perdita del controllo statale su un terzo del paese è certamente più il frutto dell’incapacità politica del governo di al-Maliki che non il risultato di una vittoriosa campagna militare condotta dalle forze di Isis.


Il battage mediatico che ha visto celebrare la forza d’urto delle milizie jihadiste è in realtà il prodotto di un misto tra la psicosi da invasione e l’incapacità di ammettere il disastro politico e militare delle autorità di Baghdad. L’invasione del territorio è infatti avvenuta con pochi intensi scontri, come nel caso di Mosul, e con molti ingressi incruenti in città e villaggi che hanno spalancato le porte non tanto a Isis quanto alle milizie sunnite e ai soldati dell’ex regime di Saddam Hussein, oggi massicciamente riuniti all’interno di alcune importanti formazioni di chiaro orientamento ba’athista. Come l’Esercito degli uomini del Naqshbandi, ritenuto ancor oggi al comando dell’ex generale Izzat Ibrahim al-Douri.


Ne è consapevole anche al-Maliki, che non teme infatti l’invasione della capitale e del sud del paese, quanto piuttosto un consolidamento in alcune città del centro-nord, con il rischio che da qui partano ondate di attentati all’interno dei porosi confini di Baghdad. Questa consapevolezza, tuttavia, ha convinto il premier della possibilità di giocare un’ultima carta per salvare il salvabile della sua ormai catastrofica immagine politica. È quindi partita una controffensiva delle forze militari regolari irachene, in direzione di Tikrit e soprattutto delle raffinerie nei dintorni della città natale dell’ex rais, nella speranza di dare un segnale forte alla comunità internazionale e agli alleati.


Offensiva che ha prodotto scarsi risultati sino ad oggi, e che pochi altri ne potrà portare in futuro, almeno sino a quando al-Maliki non comprenderà che per salvare ciò che resta dell’integrità dello Stato iracheno – sempre che ce ne sia ancora la possibilità – due obiettivi sono assolutamente prioritari: favorire un processo di riconciliazione nazionale con i sunniti e promuovere la crescita di una nuova leadership politica sciita.


L’eterogenea natura del fronte sunnita 


Sarà una convivenza difficile quella tra Isis e la gran parte delle altre milizie sunnite nel centro e nell’ovest dell’Iraq. I jihadisti di al-Baghdadi sognano il Califfato – ne hanno annunciato ufficialmente la costituzione – puntando senza mezzi termini allo scontro con le comunità sciite della regione, ma anche al debole regno di Giordania, dove ritengono di poter alimentare senza particolari difficoltà il focolaio della rivolta e della violenza. La visione di Isis è quindi regionale, fortemente settaria e idealmente propensa alla gestione di un conflitto continuo contro quella che ormai apertamente viene indicata come “l’eresia sciita”.


I jihadisti iracheni e le formazioni di ispirazione confessionale della galassia sunnita al contrario non hanno una proiezione regionale; ambiscono a dominare e sottomettere nuovamente le comunità sciite irachene nell’ottica di un progetto politico dai contorni pochi chiari.


Di diverso orientamento invece le forze di ispirazione ba’athista,blandamente confessionali. Il loro scopo è negoziare con le autorità di Baghdad da un punto di forza militare, nell’ottica di un progetto autonomista per i sunniti o, alla peggio, di un federalismo paritario tra sunniti, curdi e sciiti. Rappresentando la maggioranza delle milizie sunnite oggi impegnate sul campo, è presumibile che il modello ba’athista sia quello con le maggiori chance di successo.


Già si intuiscono tuttavia i confini e le dimensioni del contrasto che li dividerà dalle formazioni di estrazione jihadista e confessionale. Tre modelli e tre obiettivi decisamente inconciliabili, che non tarderanno a confliggere nel momento in cui una parte di queste forze cercherà necessariamente la via del compromesso con le istituzioni centrali.


Le opzioni politiche e la miopia di al-Maliki 


Il premier è consapevole di questo delicato equilibrio. Non pago del disastro creato dalla miopia settaria, che dalla partenza delle truppe Usa si è manifestato attraverso la soffocante esclusione dei sunniti dal tessuto politico e l’arbitrario utilizzo del sistema giudiziario – usato per compiere illeciti ed abusi contro gran parte del quadro dirigente sunnita del paese – al-Maliki non intende gettare la spugna. Sa bene che un passo indietro, in questo momento, corrisponderebbe alla fine della sua carriera politica. Ma sta ignorando un dato incontrovertibile: in assenza di un compromesso, non sarà possibile ottenere alcun risultato politico e militare.


Se la battaglia di Tikrit, in tre giorni, ha permesso bene o male il solo controllo dell’aeroporto e del campus universitario – obiettivi periferici e di scarso valore – questo deriva dall’impossibilità di individuare una formula negoziale con la popolazione della città. Lo stesso fenomeno si ripeterà negli altri centri oggi sotto controllo sunnita e jihadista, se mai l’esercito regolare dovesse riuscire a raggiungerli.


Al-Maliki ha rigettato ogni richiesta nazionale e straniera per la formazione di un governo di coalizione nazionale, inclusivo delle forze sunnite e curde, ribadendo come tale ipotesi costituirebbe un tradimento del voto espresso dagli iracheni, che ad aprile hanno chiaramente indicato nel partito Da’wa la propria scelta politica. Forte del dato elettorale che ha assicurato alla coalizione capeggiata dal suo partito 92 dei 328 seggi del parlamento, al-Maliki persevera quindi nel solco di una linea politica settaria ed esclusiva, sistematicamente ignorando quanto questa linea di intransigenza ed esclusione abbia ormai un connotato ben più ampio del mero piano nazionale.


Non si tratta più, infatti, di proteggere le prerogative della comunità sciita vessata per oltre quarant’anni dai sunniti del Ba’ath, ma di assicurare all’Iraq una capacità di sopravvivenza nell’ambito di un contesto regionale dove la matrice settaria dello scontro è ormai diventata l’elemento di una pericolosissima frattura. La politica del gioco “a somma zero”, così drammaticamente diffusa in gran parte del Medio Oriente, rischia di trascinare nel baratro l’intero Iraq, a causa di una classe dirigente palesemente incapace di assicurare stabilità, continuità e integrità alla nazione.


Al-Maliki punta al collasso della coesione tra gli avversari, senza considerare che quell’obiettivo – praticamente certo – potrebbe realizzarsi dopo il collasso del suo stesso sistema politico. Con conseguenze ben più disastrose di quelle attuali. Sul piano nazionale il premier non nasconde l’ambizione per un terzo mandato politico, che intende proporre al parlamento cercando di ottenerne la fiducia attraverso la retorica dell’emergenza e della necessità di coesione – tra sciiti – per far fronte alla minaccia jihadista. Non ha tuttavia compreso che senza un programma di coesione nazionale non ha chance.


Nella prima sessione del nuovo parlamento, i 328 deputati hanno subito dimostrato quanto complessa sarà la futura attività istituzionale dell’Iraq, non trovando alcun compromesso per l’elezione del presidente del parlamento e dei vicepresidenti, condizione essenziale perché si possa procedere con l’elezione del capo di Stato e del premier. A paralizzare l’attività dell’Aula sono stati soprattutto i partiti sunniti e curdi, ma non mancano le fronde anche in seno agli sciiti, che in numero sempre maggiore ritengono fallimentare la visione politica di al-Maliki e pericoloso continuare ad affidarsi a lui.


A favorire il 3° mandato del premier uscente, paradossalmente, è in modo indiretto il grande ayatollah Ali al-Sistani, che di al-Maliki non è certo un sostenitore, ma che ha lanciato un messaggio ai deputati affinché eleggano in tempi brevi un primo ministro, in modo da poter fronteggiare al più presto la grave crisi politica e militare del paese. Questo invito rappresenta un vantaggio per Nouri al-Maliki, che in tal modo può presentarsi all’Assemblea come il candidato di compromesso per una rapida soluzione della crisi.


L’Iraq e i suoi alleati 


Sebbene impegnati nel sostenere l’Iraq e il suo sforzo militare contro le forze jihadiste e ba’athiste, è evidente il disappunto degli alleati del paese nei confronti di al-Maliki. L’obiettivo per loro è sostenere in extremis la capacità di tenuta delle Forze armate, rimandando il giudizio politico sull’operato del premier a una fase successiva, in cui possa essere più agevole promuovere una transizione efficace e pluralista.


Ciononostante, gli Stati Uniti hanno seccamente rifiutato ogni richiesta di intervento aereo avanzata dall’esecutivo, limitandosi all’invio di consiglieri militari da dislocarsi a Bagdad per l’addestramento delle unità militari impegnate nella difesa della città e in procinto di muovere a nord per la riconquista. La Russia ha inviato in Iraq i primi 6 esemplari (su 12 totali) di Su-25 Frogfoot concessi all’Iraq, accelerando l’addestramento dei piloti che dovranno manovrare questi apparecchi specificamente progettati per gestire gli attacchi al suolo.


Anche l’Iran ha assicurato il suo sostegno. Lo ha fatto nell’ambiguità di un rapporto che cerca ufficialmente la via del non-coinvolgimento diretto (come nel caso dell’appoggio a Bashar al-Asad in Siria), pur essendo Teheran consapevole dell’esigenza di dover inviare non tanto e non solo equipaggiamenti e munizioni, quanto specialisti da impiegare nelle azioni di contro-insorgenza. L’Iran sembra aver concesso all’Iraq anche la possibilità di impiegare alcuni droni per la sorveglianza della capitale e delle principali arterie di comunicazione verso il nord, dimostrando un concreto e tangibile interesse ad impedire qualsiasi forma di proliferazione a sud del fenomeno jihadista.


La Repubblica Islamica, a differenza degli Usa, non ha posto precondizioni politiche per il sostegno militare all’alleato, non essendo di fatto interessata a un governo di coalizione. Come già dimostrato alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari, tuttavia, è evidente a Tehran la crescente insoddisfazione per al-Maliki e il suo modo di concepire la politica, e il contestuale interesse a favorire l’individuazione di un nuovo candidato capace di rappresentare gli interessi della comunità sciita.


Il problema dell’Iran, oggi, è tuttavia di più ampia portata. Da una posizione di apparente vantaggio sul piano delle crisi regionali, dove a un relativamente stabile Iraq si accompagnava un Bashar al-Asad capace di reagire all’ingerenza delle forze jihadiste e consolidare il proprio potere, in brevissimo tempo si è passati al crollo della stabilità in Iraq e alla minaccia di un allargamento del conflitto nella regione, sino al Libano degli alleati di Hezbollah.


Un quadro drammatico per Tehran, che tuttavia continua saggiamente a perseguire la strada del non-coinvolgimento diretto nei conflitti – sebbene sia evidente che alcune sue unità siano impegnate sia in Siria sia in Iraq – assicurando tuttavia il proprio sostegno economico e materiale per la gestione della sicurezza. Una posizione di forza che sente vacillare, sotto la pressione delle sempre più insistenti richieste dirette e indirette per l’adozione di un ruolo attivo.


Vedrebbero di buon occhio un ruolo più incisivo dell’Iran sia la Russia, sia gli Stati Uniti, che, al di là della tradizionale retorica del confronto con Tehran, sono certamente consapevoli della capacità della Repubblica Islamica di fornire un consistente supporto alle Forze armate dell’Iraq.


È proprio l’Iran, tuttavia, a essere estremamente riluttante circa ogni ipotesi di coinvolgimento. Il quadro politico nazionale, solitamente diviso e litigioso tra le fazioni delle componenti conservatrici e quelle più moderate, trova sulla questione siriana e irachena un punto di assoluta convergenza, rifiutando categoricamente l’idea di un partecipazione diretta nei conflitti, anzi rifuggendo in ogni modo la possibilità di essere coinvolti loro malgrado in qualsiasi ipotesi di escalation. Prevale un atteggiamento di grande cautela e di spiccato pragmatismo.


Guerra a Isis, tregua con Baghdad: la strategia dei curdi d’Iraq

(10/07/2014)
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