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Gli sbarchi e i morti invisibili che mi assediano
Non so quanti disperati siano partiti verso le nostre coste, negli ultimi mesi. Dal Nord Africa e dell’Africa profonda. Ammassati in barconi incerti e insicuri. Quante povere persone (?) stiano per partire e quante ne partiranno ancora. In fuga dalla violenza e dalla fame. Non so quanti ne siano arrivati. E quanti no. Quanti di essi siano annegati. Quante migliaia di poveri corpi siano sepolti nel fondo di quelle acque. Uomini, donne, bambini. Non lo so. Ma mi fa paura la mia assenza di orrore. Mi fa orrore la mia pena senza disperazione. Come si trattasse di un evento lontano, che non mi riguarda. E mi fa orrore la ricerca di soluzioni senza soluzione. Chiudiamo le frontiere… Ma se l’Italia è una frontiera in-finita! Aiutiamoli a casa loro… Casa loro? Territori senza stato e senza pace? Senza futuro e senza presente? Attraversati dalla violenza e dalla fame?
Mi fa orrore la tentazione di allontanarli da me, come fossero una realtà distante. Ma quei barconi carichi di disperati, guidati da mercanti di morte, partono da terre vicine. Tanto vicine che, dalle nostre coste più a sud, in alcuni punti e in alcuni giorni, le puoi vedere a occhio nudo. Mi fa orrore la mia abitudine all’orrore. Alla disperazione. Anche se è una reazione di autodifesa. Serve a vivere e a sopravvivere. Ad allontanare l’angoscia.
Così mi concentro su me stesso, sulla mia famiglia, sui miei amici, sul mio lavoro. E sulle mie ferie. (Come potrei riposarmi e distendermi, non dico divertirmi, con quel carico stracarico di disperati negli occhi? Come potrei fare il bagno, entrare in acqua, pensando che il mare intorno a me, in verità, è un sepolcro?) Quei barconi. Li vedo sbarcare, sugli schermi, senza vederli. Come si trattasse di immagini artefatte. Documentari girati altrove, in altri tempi. Anche se sono veri, quei poveri fuggiaschi, diventano persone senza personalità, ai miei occhi. Non migranti, ma “stranieri”: estranei da me. Lontani dal mio mondo.
Per questo li guardo con ostilità. Non perché minaccino la mia vita e la mia condizione. La mia sicurezza. Ma perché mi (im) pongono di fronte alla mia indifferenza. Alla rimozione dell’orrore – dagli occhi e dalla mente. E mi costringono a trasferire su di me la pena che dovrei provare verso gli altri. Così la sofferenza diventa insofferenza. Risentimento. Verso quei disperati che mi fanno scoprire – e sentire – assediato. Da me stesso.
(25 luglio 2014)