ORE 21:58 +++++ IMPORTANTE INTERVISTA DEL GIORNALISTA CARLO DONINI (REP. OGGI) AL MAGISTRATO ROBERTO SETTEMBRE, ESTENSORE DELLA SENTENZA DI APPELLO SUI FATTI DI BORLZANETO—SUGGERITA DAL NOSTRO NEMO—

CRONACA
L’INTERVISTA
CARLO BONINI  
Il giudice del massacro di Bolzaneto “Con l’impunità democrazia a rischio”
ROMA

«QUEL che ho visto, mi ha fatto tremare le gambe».
Ci sono uomini sui quali le immagini della standing ovation di Rimini ai poliziotti responsabili della morte di Federico Aldrovandi hanno prodotto un senso di sgomento se possibile ancora più profondo.

Roberto Settembre è uno di loro. Ha 64 anni e ha lasciato la magistratura nell’estate del 2012. È stato l’estensore della sentenza di appello sui fatti della caserma Bolzaneto, il centro di detenzione
temporanea durante i giorni del G8 di Genova diventato luogo di indicibili torture, fisiche e psicologiche.

Simbolo di uno Stato capace di smarrire se stesso per ripiombare in un tempo che si riteneva non dovesse mai più tornare. Quell’esperienza di uomo e di giudice è diventata un libro uscito in questi giorni (“Gridavano e Piangevano. La tortura in Italia. Ciò che ci insegna Bolzaneto”, Einaudi). E in questo libro, come nelle parole di Settembre, è il fantasma che ciclicamente torna ad accompagnare le immagini dello Stato che esercita una violenza irragionevole su un cittadino inerme. In una piazza, in una camera di sicurezza di una caserma, in una strada.

IMMAGINI DAL GIORNALE REP. DI OGGI, PAG 13 RIGUARDANTI QUESTO ARTICOLO

Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, ha detto: “La solidarietà non basta più. Chiedo che il Parlamento introduca il reato di tortura nel nostro codice”.

INTERVISTA DEL GIORNALISTA CARLO BONINI AL MAGISTRATO–


BONINI:
È il reato che lei non ha avuto per giudicare compiutamente le responsabilità della Bolzaneto. Che ha impedito e impedisce di chiamare con il loro nome abusi, violenze come quelle subite da Aldrovandi, Cucchi, Uva.
SETTEMBRE
«La questione è cruciale. In uno Stato di diritto, le sentenze della magistratura, che si parli del caso Aldrovandi piuttosto che della Bolzaneto, possono riuscire a dare ristoro al danno dei singoli vittime di reati. Ma nulla possono nella soluzione delle questioni di fondo per le quali questo Paese ha conosciuto una Diaz e una Bolzaneto, piuttosto che i casi cui lei accennava. Il magistrato è un chirurgo. Interviene a valle di una patologia. Non la previene, anche perché non è questo il suo compito. Ora, non c’è dubbio che lo Stato abbia assunto in modo del tutto insufficiente la questione dell’assenza della tortura come figura di reato nel nostro ordinamento. Solo oggi — e sono passati 13 anni dai fatti della Bolzaneto e 26 dalla Convenzione dell’Onu che imponeva di adeguare le legislazioni nazionali — è in discussione in Parlamento un disegno di legge che nel prefigurare il reato di tortura lo immagina timidamente come reato generico e non proprio.
Ecco, quando le istituzioni non si curano a sufficienza degli strumenti che devono tutelare insieme l’integrità di uno Stato e le libertà incomprimibili dei suoi cittadini, la fiducia verso lo Stato viene meno».
DONINI:

Una parte della Polizia ritiene che la formulazione che era stata data del reato di tortura nel testo presentato al Senato fosse “punitiva” nei confronti delle forze dell’ordine. E, oggi, torna a minacciare di incrociare le braccia se il testo definitivo che verrà approvato alla Camera dovesse consentire “ interpretazioni estensive” della figura dell’abuso fisico o psicologico da parte del pubblico ufficiale.
SETTEMBRE

«È la conferma che questo Paese ha estrema necessità di una straordinaria e collettiva mobilitazione di idee. E del preoccupante scollamento che una parte delle forze dell’ordine manifesta nei confronti di un’idea condivisa dello Stato di diritto. È evidente, mi pare, che in quella parte di forze dell’ordine si sia smarrito il senso del rapporto tra lo Stato e i cittadini. Non saprei dire se si debba parlare di pericolo per la democrazia. Ma qualche preoccupazione sulla sua qualità comincio ad averla».
DONINI
La standing ovation di Rimini è arrivata dopo il “no” degli apparati di sicurezza alla proposta di introdurre un codice identificativo per la polizia in servizio di ordine pubblico.
A meno di non immaginare uno “scambio” tra l’identificabilità dei poliziotti e una più stringente regolamentazione del diritto di manifestare.
SETTEMBRE

«Il codice identificativo è decisivo per restituire l’immagine di uno Stato che è “persona”, non astrazione. Lo Stato non può e non deve essere travisato. Quanto allo scambio, lo trovo inaccettabile. Il diritto a manifestare è già regolamentato. La nostra legge suprema, la Costituzione, non riconosce alcuna legittimità alla libera e violenta manifestazione del pensiero. Non sta scritto da nessuna parte che è un diritto devastare le vie di una città o esercitare violenza sui poliziotti in ordine pubblico. Dunque, non capisco cosa dovremmo regolamentare.
C’è poi un problema di qualità di una democrazia. Accettare lo scambio significa infatti riproporre quello schema “speculare” per il quale si finisce con il convenire che, di fronte alla violenza di un cittadino, lo Stato può, o peggio deve, rinunciare al suo sistema di garanzie. Deve insomma modificare la sua natura. È un argomento che ricorda gli anni di piombo e quella stessa cultura che oggi ha paura del reato di tortura».
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FOTO:ANSA
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