[audio:https://www.neldeliriononeromaisola.it/wp-content/uploads/2014/01/05-Traccia-Audio-05.mp3|titles=05-Traccia Audio 05]
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“L’atteggiamento costituzionale di Baudelaire e’ quello di un uomo curvo. Curvo su se stesso come Narciso. Non v’è in lui coscienza immediata che uno sguardo acuto non la trapassi. A noialtri basta vedere l’albero o la casa; tutti assorti nel contemplarli, dimentichiamo noi stessi. Baudelaire è l’uomo che non si dimentica mai. Si guarda vedere; guarda per vedersi guardare; quello che lui contempla è la sua coscienza dell’albero o della casa, e le cose non gli appariscono se non attraverso di essa, piu’ pallide, piu’ piccole, meno commoventi, come se le scorgesse traverso un binoculo. ….Al contrario, la loro missione immediata è di rimandare la coscienza al suo io. “Che cosa importa- scrive – che cosa puo’ essere la realtà posta fuori di me, se essa mi ha aiutato a vivere?” (p.14)
…
Pretesti, riflessi, schermi, gli oggetti non valgono mai per se stessi e altra missione non hanno che dargli occasione di contemplarsi mentre li vede.
Vi è tra Baudelaire e il mondo, una distanza originaria che non è la nostra;
sempre tra gli oggetti e lui, s’inserisce una translucidità un poco madida, un poco troppo odorosa, come un tremolar d’aria calda d’estate. E questa coscienza, scrutata, spiata, che si sente osservata mentre compie le sue abituali operazioni, perde perciò stesso la sua naturalezza, come un bambino che giochi sotto l’occhio degli adulti. Codesta “naturalezza” che Baudelaire ha tanto odiata e tanto rimpianta, in lui non esiste affatto: tutto è truccato perché tutto è esaminato, il minimo umore, il più lieve desiderio nascono guardati, decifrati….
Ma se tale singolarità ha valore per noi, che lo vediamo dal di fuori, a lui che si studia dal di dentro essa sfugge del tutto. …
Come mai non ha l’intimo godimento della sua propria originalità? Gli è che è vittima di una illusione naturalissima, secondo la quale l’intimo di un uomo si calcherebbe dal suo esteriore. Così non è: quella qualità distintiva che lo fa individuare dagli altri, nel suo linguaggio interiore non ha nome, egli non la sente, non la conosce. Puo’ forse sentirsi spiritoso, volgare o raffinato? O forse puo’, questo almeno, constatare la vivacità e l’estensione della sua intelligenza? Essa non ha altri confini che se medesima, e, salvo che una droga non faccia precipitare per un istante il corso dei suoi pensieri, è così avvezzo al loro ritmo, gli manca a tal punto ogni termine di paragone che non saprebbe valutare la velocità con cui scorrono. …
E’ pieno di se stesso, ne trabocca; ma questo “se stesso” non è che un rumore insipido e vitreo, privo di consistenza, di resistenza, che’egli non puo’ né giudicare né osservare, senza ombre né luci…Aderisce troppo a se stesso per guidarsi e vedersi del tutto: si vede troppo per immergersi completamente e perdersi in una muta adesione alla propria vita….La famosa lucidità di Baudelaire, non è che uno sforzo di recupero. Si tratta di riacquistarsi, e, la vista essendo appropriazione, di vedersi. Ma, per vedersi, bisognerebbe esse due. Baudelaire vede le sue mani e le sue braccia, perché l’occhio è distinto dalla mano: ma l’occhio non puo’ vedersi; si sente, si vive; non è in grado di porsi alla distanza necessaria per valutare se stesso. Invano il poeta esclama nei Fiori del male:
Tete-è-tete sombre et limpide
Qu’un coeur devenu son mirroir!
(Un cuor che in se stesso si specchi/ oh tete-à-tete cupo e limpido!)
Codesto “tete-à-tete” non è iniziato ancora che già svanisce: non vi è che una testa.”
(pagg. 15-16-17 — edizione citata sotto, del ’64)
Jean-Paul Sartre—Baudelaire —Il saggiatore (I gabbiani)
prima edizione italiana: Mondadori 1947
prima edizione nuova “I gabbiani” –novembre 1964
chiara: oggi mi fermerei qui. Vi lascio liberi di leggere senza fare alcuna sottolineatura per “suggerire”- Ci ritorneremo–con la solita calma e la solita gradualità in questi temi profondi che toccano il cuore dell’uomo alle sue radici.
Ormai -da tempo- il narcisismo è diventato un tema da salotto in tutto il mondo, direi dagli anni Ottanta. Il libro che “sembra” aver lanciato-studiato il tema è quello del sociologo Cristopher Lasch. “La cultura del narcisismo”, uscito negli Stati Uniti nel 1979 (Bompiani, 1981)—da cui è tratta l’espressione “Età del Narcisismo”- “epoca” che, iniziatasi nella seconda metà degli anni Settanta, continua fino ad oggi in rigogliosissima fioritura al punto che-ma ve l’ ho già detto–la catalogazione internazionali delle malattie mentali, appena uscita nel 2013 (DSM V) ha espulso il Narcisismo dalle malattie mentali ( nelle quali precedentemente l’aveva inserito) principalmente per il fatto che adesso “è generale, di massa” .
(Questa catalogazione è frutto di un gruppo scelto di scienziati in materia, che studiano raccogliendo dati a livello mondiale per quattro anni di seguito).
Ma un aggiunta è necessaria: ricordatevi che le malattie mentali sono sempre caratteristiche dell ‘essere umano considerato “socialmente” normale, alle quali, per una serie di circostanze e storie di vita, si aggiunge un’accelerazione che non è momentanea, ma duratura per un buon lasso di tempo, anche se non sono in grado di quantificarlo con dei numeri. Un disturbo sarebbe cioè una caratteristica che si fa notare dai vicini o dalla famiglia, cioè, è un carattere del comportamento del soggetto, ma “esagerato di grado”.
Ma- attenzione- un comportamento che diventa stabile, o almeno “sufficientemente” stabile. Per esempio, se ogni tanto vi prende una furia da spaccare tutto, anche buttar giu’ una porta, tirare un oggetto contundente per ammazzare qualcuno (che magari si scosta per vostra fortuna), oppure avete dei “déjà vu” (quando anche ripetutamente vi accade di guardate una scena mai osservata, convinti invece che sia la ripetizione di un’altra identica già vista in passato), oppure avete delle allucinazioni, un oggetto che adesso c’è e poi sparisce, delle voci, che vanno e vengono, dei rumori che vi suggeriscono qualcosa che vi riguarda, la convinzione persecutoria che qualcuno vi stia osservando, spiando o addirittura che si dia da fare allo scopo di trovarvi ed ammazzarvi (ne sapete a volte anche il nome), oppure siete voi che volete ammazzare qualcuno, lo sentite impellente…semplicemente vi manca la pistola in mano perché sicuramente lo fareste….insomma tutte cose di questo tipo. Se sono passeggere e, poi, vi passano dalla testa riprendendo i vostri interessi normali e vostri legami…(diciamo: non durano mesi, non diventano un’ossessione, un pensiero ricorrente…).
Allora, mi dispiace tantissimo per voi, non siete pazzi! Lo dico perché- per chi non lo è mai stato–nonché per un certo tipo di cultura cui è facile abbeverarsi (che inizia alla fine dell’Ottocento e che lega la creatività alla malattia in genere, ma soprattutto mentale -un esempio solo: Thomas Mann, La montagna incantata)- essere “pazzi” fa figo! Vi risparmio tutti i dibattiti che mi sono ingollata, in assoluto silenzio, ma con molto disagio, al primo anno di Psicologia, sull’artista-la pazzia addirittura con invidia, etc. Ma potete accorgervene anche voi: non sentite tutti oggigiorno vantarsi di essere pazzoidi, pazzi ecc ecc. perché -soprattutto oggi che siamo tutti assolutamente omologati – il nostro bisogno di essere “particolari ed unici” è diventato parossistico. In genere-data il tipo di società “dello spettacolo”, ci si accontenta dell’esterno, dell’immagine che diamo, ma alcuni sentono la necessità di condire l’immagine con qualcosa di interno…
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