15 gennaio 2014 ore 10:59 CHRISTIAN RAIMO: DI COSA PARLIAMO NOI UOMINI QUANDO PARLIAMO DI FEMMINICIDIO/// L’HO TROVATO INTERESSANTE OLTRE CHE BEN LEGGIBILE: RAGAZZI! HA 94 COMMENTI, CI CREDETE! OLTRE A VARIE INDICAZIONI/// ———PER FAVORE INTERVENITE!

MANIFESTAZIONE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

 

 

 

 

http://www.europaquotidiano.it/sezione/cultura/-CONOSCO SOLO QUALCHE ARTICOLO DI “CULTURA” E MI SEMBRANO BUONI—

 

SU EUROPA QUOTIDIAMO :   29 DICEMBRE 2013 dal titolo: “Femminicio e il sessimo benevolo”: chiara non l’ha ancora letto, dieci ore per cercare di copiarlo (do uno sguardo poi lo leggo sul blog e sottolineo), han fatto tanto baccano in rete...sarebbe – se ho capito–-il punto di vista degli uomini?

Oggi ho pena di me (tenho pena de mìn): guardate, se mai vi siete soffermati, il casino che ho fatto e solo ora – dopo tutto il sangue versato- mi accorgo che facendo clic su christian ramo (sopra, stampatello, in verde)…

VI FORNISCONO BELLO FRESCO L’ARTICOLO!! GIURO CHE NON E’ L’ETA’: E’ PROPRIO IDIOZIA! CHIARA

 

cristian raimo è professore di filosofia in un liceo, scrittore con libri pubblicati, saggista, partecipa attivamente alle battaglie in rete.

 

altro blog che non conosco ma che sembra “super”! “il blog del vicino è toujours supèr!

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DI COSA PARLIAMO (NOI MASCHI) QUANDO PARLIAMO DI FEMMINICIDIO

di  pubblicato sabato, 24 agosto 2013 · 94 Commenti !!

Questo articolo è uscito oggi su Europa.

di Christian Raimo

Sono un uomo, un maschio voglio dire, ma seguo le questioni di genere. Questo per dire che qualche anno fa ero un lettore costante e allibito di Beatrice Busi quanto teneva una rubrichetta settimanale di spalla su Liberazione: 3000 battute, forse meno, per ri-raccontare gli omicidi di donne avvenuti nei sette giorni precedenti che negli altri giornali erano stati rubricati a cronaca nera, delitti passionali, regolamenti di conti, assassini etnici. Messi uno in fila all’altro, facevano impressione, quelli che allora non si chiamavano ancora placidamente femminicidi. Già: se del resto anche solo l’anno scorso parlare di femminicidio era un discorso per pochi, oggi – per fortuna – il termine è diventato di uso consueto (anche se mentre scrivo mi rendo conto che Word non lo riconosce), e la questione ha finito per l’indossare molte pelli: culturale, sociale, politica. Prima ancora della discussione del decreto legge ad hoc, era un item che aveva conquistato lo spazio mediatico come, per dire, l’argomento più discusso della saggistica di quest’anno dopo Papa Francesco: da Loredana Lipperini & Michela Murgia a Cinzia Tani, da Riccardo Iacona a Serena Dandini fino al blog della 27ora del Corriere, finalmente si è affermato nel senso comune che la violenza domestica è una delle prime cause di omicidio in Italia, e che – ovviamente – oltre le donne ammazzate, ce ne sono migliaia di altre che vengono ogni giorni picchiate e violentate, fisicamente e psicologicamente.
E c’è da essere soddisfatti se questa vittoria culturale non è un fenomeno di moda ma è stata resa possibile specialmente dalle tanti militanti di associazioni di donne che in questi anni hanno lavorato sulla violenza di genere nella più totale marginalità, proprio fino a riuscire a rendere legittimo l’utilizzo della parola femminicidio – il suo valore concettuale, storico più che giuridico tracciabile attraverso il  blog di Barbara Spinelli , per esempio; una rivendicazione di questa legittimità sul blog di Giovanna Cosenza, per esempio, dove per me si bypassano anche le sensate obiezioni sulla debolezza statistica, avanzate tra gli altri da Fabrizio Tonello e da Davide De Luca.
Quest’onda rinfrancante di dibattito la si è voluta poi appunto colare nella forma di una legge: il decreto anti-femminicidio. In mezzo all’abulia governativa, al metamorfismo deprimente dell’attuale alleanza Pd-Pdl, questa legge bipartisan ha avuto quantomeno il pregio di tracciare una linea per un intervento politico. Anche se. Anche se, come era successo per le leggi sullo stalking, si è finito per ridurre il problema a emergenza sociale, facendo leva sui dispositivi più pavloviani della politica italiana: normazione e criminalizzazione. Le critiche, proprio da chi aveva aspettato questa legge prevedibilmente non c’hanno messo molto ad arrivare.
L’idea che molte femministe si sono fatte è che il decreto non servirà a molto se non si finanziano i centri anti-violenza sul territorio, o più in generale se non capisce come poter realizzare un programma nazionale di educazione sulle questioni di genere. Questo – tra le righe – vuol dire qualcosa di al tempo stesso molto semplice e molto complesso. Molto semplice: serve qualche soldo di più. (Questa conclusione è lapalissiana tanto da essere recepita anche dal New York Times). Molto complesso: questo governo dovrebbe far propria una prospettiva femminista che prevede ovviamente una trasformazione di sé che non si può improvvisare. Arrivato a questo punto dell’articolo, esprimo quella che è la mia opinione: fare propria questa prospettiva, lavorare sul lungo periodo, è comunque l’unica strada.

Ora, come dicevo all’inizio, sono un maschio, un maschio assolutamente convinto della bontà della pratica femminista di partire dal sé. E per questo arrivato a questo punto del dibattito, mi sono sentito esplicitamente chiamato in causa qualche giorno fa da un lettissimo articolo di Beppe Severgnini, in cui in ottima fede, ma un po’ come un tizio cascato da un alto pero, si scriveva:

Noi maschi dovremmo occuparci di più del femminicidio: parlarne, scriverne, domandare, provare a capire. Anche a costo di dire e scrivere leggerezze. È invece un dramma confinato in un universo femminile: ne parlano le donne, ne scrivono le donne, le fotografie sono quasi sempre delle vittime e non dei carnefici. È come se noi uomini volessimo prendere le distanze da qualcosa che non capiamo e di cui abbiamo paura.

Capita anche a me spesso di scrivere questa specie di articoli che dicono: dovremmo fare questo e quello, nella cultura italiana c’è un gran deficit di questo, perché in Italia nessuno si occupa di. È un primo passo, ma spesso è inutile. Perché resta l’unico: ho individuato una mancanza, la stigmatizzo, passo alla prossima.
Ma non è soltanto l’autoindulgenza sul proprio deficit di problematizzazione (perché soltanto ora Severgnini richiede quest’interrogarsi?), è soprattutto invece troppo morbido, diciamo pastello, il ritratto che Severgnini fa degli uomini violenti: creature Jekyll-Hyde di cui non possiamo che continuare a stupirci della morale schizoide. L’errore implicito di Severgnini è però lo stesso che fanno i fanno maschi che si occupano di questioni di genere: non partire da sé.
Anche nel pezzo di Severgnini, che cerca di aver un occhio laico e attento, la violenza è sempre descritta come altrui, misteriosa, nascosta, lontana.

La sociologia dell’orrore è rovesciata: i mostri non sono semplificazioni lombrosiane, personaggi abbruttiti e abitualmente violenti. Molti studiano, lavorano, guadagnano, si vestono bene. Tra di noi ci sono uomini tragici e pericolosi mascherati da persone prevedibili; e li riconosciamo quando è tardi.

È chiaro che questo “tra di noi” dovrebbe essere preso un po’ più sul serio. Che questi altri che si aggirano mascherati dalla loro buona facies affidabile e borghese somigliano a chi vediamo nello specchio. Occorrerebbe sfumare un po’ i confini tra una comunità di persone razionali e perbene (uomini avvertiti, compagni che affiancano le proprie donne nelle loro battaglie, che decidono di accompagnare le loro partner alle manifestazioni sulla violenza domestica) e un’altra massa di uomini potenzialmente violenti, che covano sotto le camicie inamidate e uno sguardo innocuo un impulso alla brutalità pronto a emergere al primo raptus. Io preferirei che se un discorso maschile deve partire sul femminicidio si cominciasse a riconoscere l’esistenza di una “zona grigia” in cui la razionalità e l’irrazionalità sono confuse. Sul New Yorker di qualche settimana fa – e in un articolo del Post che ne riprendeva gli highlights – si raccontava la vicenda legata alla legislazione sulla violenza domestica negli Stati Uniti a partire dal caso seminale, quello di Dorothy Giunta-Cotter, una donna finita ammazzata dal marito nonostante l’avesse denunciato più volte e fosse seguita da un centro anti-violenza. Da quella tragedia esemplare il centro Jeanne Geiger elaborò una sorta di questionario in grado di prevedere a partire da una serie di indizi qual è la percentuale di rapporti finiranno con un omicidio. Si inaugurò insomma un modello predittivo: molto discusso, come è ovvio per tutti i modelli predittivi. Ma non voglio entrare nel merito della problematica giuridica, quanto mettermi di fronte alle domande che il questionario propone.

1. Le violenze fisiche sono aumentate – nel numero o nella gravità – nell’ultimo anno?
2. Lui possiede un’arma da fuoco?
3. Lo hai mai lasciato nell’ultimo anno vissuto insieme?
4. È disoccupato?
5. Ha mai usato un’arma contro di te o ti ha mai minacciata con un’arma letale? In questo caso, era un’arma da fuoco?
6. Ha minacciato di ucciderti?
7. Ha evitato in passato un arresto per violenza domestica?
8. Hai un figlio non suo?
9. Ti hai mai forzata a fare sesso con lui?
10. Ha mai tentato di strangolarti?
11. Fa uso di sostanze stupefacenti illegali (anfetamine, metanfetamine, speed, fenciclidina, cocaina, crack)?
12. È un alcolista o ha problemi con l’alcool?
13. Controlla la maggior parte delle tue attività quotidiane? Per esempio, ti dice chi può esserti amico e chi no, quando puoi vedere la tua famiglia, quanto denaro puoi spendere o quando puoi prendere la macchina?
14. È costantemente e violentemente geloso di te? Per esempio, ti dice cose come «se non posso averti io, non può averti nessuno»?
15. Sei mai stata picchiata da lui quando eri incinta?
16. Ha mai tentato di suicidarsi o minacciato di farlo?
17. Ha mai minacciato di fare del male ai tuoi figli?
18. Lo ritieni capace di ucciderti?
19. Ti segue o ti spia, ti lascia messaggi di minacce, distrugge le tue cose o ti chiama quando tu non vuoi che ti chiami?
20. Hai mai tentato di suicidarti o minacciato di farlo?

Ecco, nonostante come molte delle persone che stanno leggendo quest’articolo, non sono una persona violenta, mi rendo conto ogni volta che leggo un caso di violenza di genere che molti degli comportamenti aggressivi che esistono in una relazione, devo ammettere che li ho praticati o subiti, o avrei potuto praticarli o subirli, e moltissimi sicuramente li ho pensati, e moltissimi ancora – riti ossessivi di varia fatta – li ho amati quando li ho visti rappresentati nella letteratura o al cinema (cos’era se non ossessione-compulsione o stalking l’amore di un’Adele H o del pretendente di Amèlie Poulain o del protagonista di Nuovo Cinema Paradiso che per cento notti sta sotto la finestra di lei?). Ecco: ricatti, atti distruttivi e autodistruttivi, violenze sulla persona e sulle sue cose, forme più o meno velate di stalking eccetera sono tutte azioni che non sono così distanti, impensabili per me e per la maggior parte delle persone educate, razionali, colte, nonviolente che conosco. Cose come controllare la mail del proprio partner, telefonargli nel cuore della notte, alzare le mani: conoscete molte persone che non hanno mai fatto qualcosa del genere? Per fortuna, per quanto riguarda i maschi, questi uomini razionali non hanno un’arma (ci sarebbe da sottolineare quanti dei casi di femminicidio coinvolgono militari, poliziotti, guardie giurate, etc…); ma, ma per brevi periodi, in certe circostanze particolarmente dolorose, possono trasformarsi in persone terribili: possono impazzire. Se non si ammette questa debolezza generale, ma specialmente maschile, nelle relazioni, non si va da nessuna parte nel dibattito. Se non si ammette che c’è una parte di mostro, di irrazionale incapacità di gestire l’abbandono o altre fragilità dei sentimenti, la questione verrà confinata in qualche suo inutile surrogato: sia quello normativo, sia quello che vede schierati uomini e donne perbene da un alto e maschilisti carogne e donne complici dall’altro, sia quello spettacolare con tanti reading affollati di attrici e scrittrici che leggono una qualche Spoon River terribile e tragicamente monotona di donne stalkizzate e poi massacrate dai loro ex-partner che tanto dicevano di amarle.
Dunque, se qualcosa si è capito nelle questioni sociali di questo rilievo è che l’approccio testimoniale o quello normativo sono delle armi spuntate che riconoscono il problema, ma esauriscono la sua soluzione al massimo in una sua esposizione mediatica, con grandi riti di shame on you. Che se ne parli non vuol dire che se ne parli con cognizione di causa, ma soprattutto che qualcosa cambi.
Quindi? Quindi proviamo, come si fa nella pratica femminista, a partire da sé. Dicevo che sono un maschio, che sono un maschio educato e non violento, che ha avuto la fortuna di aver avuto una famiglia che gli ha trasmesso il valore della parità dei sessi e della non-violenza e che ha frequentato un’ottimo liceo classico pubblico e un’ottima università pubblica. Ora, pur in tutta questa fortuna, mi è chiaro come un cielo estivo che ho avuto un’educazione decisamente filomaschilista. Il primo libro scritto da una donna che ho letto sarà stato il centesimo della mia giovane vita: a quindici anni, Cime tempestose di Emily Bronte o Flush di Virginia Woolf, proposte da una prof di inglese con la fama di scocciante femminista. Ho scelto il mio primo romanzo scritto da una donna a vent’anni, La campana di vetro di Sylvia Plath. Per tutto il liceo e l’università (un’ottima facoltà di filosofia) praticamente nessuno mi ha mai parlato di pensiero femminista, sono incappato in un paio di testi di Hannah Arendt e Simone Weil in un esame di Filosofia teoretica che in maniera molto vaga accennavano alle questioni di genere. Per dire: Simone De Beauvoir, Toni Morrison, Judith Butler, Julia Kristeva, Luce Iragaray… è tutta gente che ho incontrato perché forse a un certo punto le ho cercate o perché ho avuto la fortuna di conoscere delle donne capaci di farmici arrivare. A pochissimi dei miei amici – maschi, intellettuali, eruditi… – questo è accaduto. Credo che quasi nessuno dei miei amici scrittori abbia letto in vita sua una Carla Lonzi, per citare forse il nome italiano più emblematico; io stesso l’ho fatto per la prima volta un paio di anni fa. Credo che la maggior parte dei miei amici – maschi, intellettuali, eruditi… – abbia avuto e ancora abbia una domestica, rigorosamente donna. Certo tutto questo non è solo colpa dei maschi, certo è vero che la cultura femminista in Italia, ostracizzata, non metabolizzata, vittima di un separatismo interpretato malissimo, si è progressivamente arroccata, ritagliando per se stessa il ruolo di un fortino, e questa cosa è tanto più vera nel paradiso dei fortini che è l’ambito universitario, con cattedre che diventavano luoghi di culto di una pratica femminista impossibile da agire altrove, ma – viene da dire – sono responsabilità decisamente minori o consequenziali.
Per questo, insomma, quando uno dice che cosa si può fare contro il femminicidio oggi in Italia, la mia risposta è lateralissima: leggere più libri scritti da donne alle elementari e alle superiori, studiare di più il pensiero femminista alle superiori e all’università. Far sì che per esempio La campana di vetro non sia una chicca introvabile ma un best-seller estivo per studenti come Il giovane Holden; inserire nei programmi di filosofia, letteratura, storia delle superiori una parte significativa dedicata al femminismo storico; desacralizzare autrici come Amelia Rosselli o Cristina Campo dalla loro pseudosantificazione nelle cattedre di studi femminili e pensarle come centrali in un canone della letteratura italiana. Insomma muoversi pensando una politica di lungo periodo, tutto qui. Ecco mi piacerebbe che queste cose che dico accadessero talmente in fretta che se qualcuno si andasse a rileggere tra un anno quest’articolo sarei contento che mi liquidasse dicendo che ho fatto il pieno delle banalità.

Commenti

94 Commenti a “Di cosa parliamo (noi maschi) quando parliamo di femminicidio”

  1. Maurizio scrive:

    Gentile signor Raimo, stavo leggendo con molto interesse questo suo lungo post, che trovo (almeno fin dove l’ho letto) pieno di buon senso, sensibilità e spunti stimolanti. Poi sono sobbalzato a questa sua frase: “[…[le sensate obiezioni sulla debolezza statistica, avanzate tra gli altri da Fabrizio Tonello e da Davide De Luca”. Mi cascano le braccia, confesso. Ma sensate perché? Sulla base di cosa, in nome del cielo?
    Sui numeri del femminicidio Loredana Lipperini, coadiuvata dal sottoscritto, ha condotto una vera e propria battaglia che si è conclusa, a mio modo di vedere, con la totale annichilazione degli argomenti esibiti da moltitudini di statistici della domenica, tra cui spiccano per superficialità proprio Tonello e De Luca. Anche nel libro scritto a quattro mani da Lipperini – Murgia (L’ho uccisa perché l’amavo – Falso!”) c’è una sezione dedicata ai numeri, quella pure scritta con il supporto di uno statistico professionista (che sono io). Non sto qui a ripetere i punti deboli dell’argomentare di questo esercito sterminato di negatori aprioristici (negazionisti, li chiama Loredana, con termine ben più qualificante); l’evidente e disperante inutilità di questo sforzo, testimoniata per l’ennesima volta anche da un commento di una persona come lei, che mostra sensibilità al tema, mi scoraggia dal farlo; mi limito a indicarle il post del blog di Loredana in cui si è polemizzato ferocemente con costoro, proprio a cominciare da Tonello e De Luca, che si sono ben guardati dal replicare anche se chiamati in causa in modo diretto, con nome e cognome:http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2013/05/27/il-fact-screwing-dei-negazionisti/.
    Apprendo dal suo post che De Luca, a distanza di un paio di mesi dalla suddetta polemica, ha ripreso le sue argomentazioni e le ha riproposte, identiche, come se non fossero mai state confutate. Questa è furberia italiota, non so come altro qualificarla.
    A lei, signor Raimo, vorrei chiedere un paio di cose e spero che abbia voglia di rispondermi. La prima, ovviamente, è il perché del suo giudizio sull’argomentare di Tonello e De Luca (“sensate obiezioni”): non ha letto il libro di Lipperini – Murgia o non condivide la confutazione di quelle argomentazioni che il libro contiene? Nel secondo caso, le raccomando la lettura del post che le ho segnalato e della discussione che ne è seguita: ci metterà parecchio tempo, ma se davvero ha un minimo di interesse al fenomeno penso che la troverà utile. Lì la confutazione è più esplicita, chiara, documentata e definitiva di quanto non sia nei libro. La seconda cosa è il senso della sua frase: “una rivendicazione di questa legittimità sul blog di Giovanna Cosenza, per esempio, dove per me si bypassano anche le sensate obiezioni sulla debolezza statistica, avanzate tra gli altri da Fabrizio Tonello e da Davide De Luca”. La mia perplessità è la seguente: se quelle obiezioni fossero davvero fondate, come potrebbe essere lecito parlare dell’esistenza di un fenomeno e dargli un nome? Perché, se ho capito bene, lei in quel discorso si esprime favorevolmente in merito all’opportunità di inquadrare una certa successione di eventi come fenomeno a sé stante, degno di essere indicato con un sostantivo apposito (“femminicidio”). Ma – ripeto – se davvero “il femminicidio non esiste” (perché è esattamente questo ciò che sostengono Tonello, De Luca e i loro epigoni), come fa lei a sostenere che queste persone dicono una cosa sensata e però il fenomeno è degno di un nome? Dovremmo forse dare un nome a una cosa che non esiste?
    Concludo facendole notare che le argomentazioni “sensate” di Tonello&C. sono state sostenute, finora, da “esperti” di ogni genere tranne che dagli unici che sarebbero titolati a farlo: gli statistici professionisti. E’ forse uno statistico Tonello? A me risulta che insegni Scienza Politica; lo è De Luca? No, fa il giornalista, se non ricordo male; Patruno (altro autotitolato fact checker, che però ha avuto l’onestà di intervenire nel dibattito) fa il notaio. Cosa autorizza tutta questa gente ad autoaccreditarsi come “fact checker”? In cosa la loro lettura dei numeri dovrebbe essere più affidabile, più acuta, più veritiera di quella che una persona non competente in materia può fare da sola? Per fare fact checking bisogna (bisognerebbe) avere una qualche esperienza professionale specifica. Guardi, non sto sostenendo che abbiano diritto di esprimersi solo gli addetti ai lavori: dico però che il fact checking lo può fare chiunque solo se ci sono fatti da portare alla luce, come potrebbe essere per un episodio di cronaca; ma se i fatti sono in realtà dei numeri soggetti a interpretazione, perché un notaio, un giornalista e un docente di un’altra materia dovrebbero godere di una qualche autorevolezza rispetto a lei e a chiunque altro, spacciando per verità le loro illusioni ottiche?
    Quando la polemica è divampata io mi aspettavo di dover dibattere, prima o poi, con qualche collega preparato; magari con degli accademici (io non lo sono, avendo preferito il lavoro in azienda a quella carriera). Non è successo, e non credo che il perché sia da ricercare nel disinteresse degli statistici per la violenza di genere; piuttosto, la ragione sta nella pochezza delle argomentazioni esibite dai negazionisti.
    E adesso posso riprendere la lettura del suo post, il cui prosieguo probabilmente apprezzerò quanto ho apprezzato la prima parte. Peccato, questa sbavatura sui fatti…

  2. @Maurizio

    Stimo Tonello e De Luca per il lavoro che fanno in genere e non li reputavo e non li reputo dei “negazionisti” in questo caso, ma degli scettici: in questo caso volevo dire sono stati utili scettici, sono state “sensate” le loro obiezioni perché sono quelle che potevano venire in mente a chi tratta la questione “femminicidio”. Obiezioni che tu contesti con esaustività, potevo citarlo nell’articolo, hai ragione, lo farò in futuro spero, lo faccio qui intanto. Citavo il blog di Cosenza perché secondo me riusciva a tagliare in modo gordiano la discussione, riuscendo a tenere il punto sulla definizione culturale del femminicidio e non facendone una questione esclusivamente giuridica. Insomma, grazie per la puntualizzazione e scusa per la mancata citazione.

  3. ho letto il suo post Raimo, e lo condivido. In merito alla citazione “negazionista” sulla statistica delle violenze di genere, ho appreso dal commento dello statistico -di professione- la confutazione da lei segnalata. Penso sia molto grave non avere maggiori informazioni corrette sui”numeri” che poi consentono letture ed azioni. Ma non me ne stupisco. Moltissimi sono i casi e le “realtà” che vengono rappresentate e presentate “statisticamente” senza che ci sia una rispondenza certa e credibile. Penso sia però un problema importante,ma non decisivo. Vorrei sottolineare che anche questo è un aspetto del “contesto culturale” mediocre per non dire colposo che cospre,mistifica ed allontana dall’affrontare i problemi e,come lei stesso tenta di fare,dare risposte,proporre cambi,anche a medio lungo periodo di ottica e di abitudini. Dalla lettura di genere sin dalle scuole elementari alla denuncia di educazioni che sottendono quasi inevitabilmente,atteggiamenti e sentimenti radicati di machismo. Sono vissuta in una famiglia laica,con un padre “violento” in senso buono,ossia,tanto troppo giovane,da ritenere che per essere autorevole,bisognava essere autoritario. Mio nonno materno,laurea alla normale di Pisa 1903, – lo riteneva un “bravo giovane” e lo era davvero…ma era lo stesso spesso violento. Io non ho mai tollerato uomini così,mia sorella ne ha conosciuto uno a 15 anni a da 40 accetta le sue violnze psicologiche e fisiche…CHE DIRE? C’è molto da fare, molto da riflettere,molto da legiferare. La ringrazio per questa sua riflessione pubblica. L’otto mar

  4. Maurizio scrive:

    @Christian Raimo: grazie per la sollecitudine della risposta. Spero che in futuro, se ti troverai nuovamente a parlare di questo tema, vorrai essere più esauriente sui numeri. Non c’è bisogno che citi il mio nome: io non ci tengo in modo particolare e ai più direbbe assai poco; molto meglio la sostanza degli argomenti. Faccio un’ultima considerazione, di carattere molto generale, che non so se può riguardarti in modo diretto o no, ma credo sia importante. In Italia si tende a discutere senza il supporto dei numeri, ritenendo che i fenomeni siano degni o meno di attenzione sulla base esclusiva di considerazioni valoriali. Questo atteggiamento è più frequente nelle persone che si occupano di quelle che, in modo orrendo, vengono spesso definite “tematiche umanistiche”. Nel mondo anglosassone, in genere, non è così: i fenomeni vengono definiti anche in rapporto alla loro dimensione quantitativa e c’è maggiore consapevolezza del fatto che i numeri, al pari delle parole, sono gli elementi base di un linguaggio. La loro manipolazione genera percezioni distorte della realtà, come ben sanno tutti quelli che producono sondaggi artefatti proprio per generare una percezione del mondo in grado di rendere vera se stessa. Pratica molto diffusa, da diversi decenni a questa parte. Soprattutto in politica. A un livello meno filosofico e più concreto, uno statistico sa che una parte abnorme del dibattito politico verte su argomenti di nessun rilievo pratico, intorno ai quali si disperdono energie (e attenzione del pubblico) che non vengono indirizzate verso problemi reali e ben più impellenti: rientra in questa categoria il dibattito infinito sui costi della politica, che se pure fossero azzerati darebbero all’economia del paese un contributo assai prossimo allo zero. Ma qui pressoché tutti pensano che dimezzando i parlamentari e decurtandogli lo stipendio (misure sacrosante, ma certo non risolutive) la crisi scomparirebbe d’incanto. Questo lungo excursus mi serve per richiamare l’attenzione sul fatto che mettersi a parlare di numeri (anche) di fronte alla concretezza dirompente di un omicidio non è necessariamente un riflesso autistico da ragionieri emotivamente amputati: farlo con equilibrio e consapevolezza è anzi l’unico modo per capire fino in fondo di che cosa stiamo parlando. So bene che questa è una perorazione “pro arte mea”, ma inviterei tutti quelli e quelle che quando si parla di numeri tendono a sorvolare, ritenendolo un tema accessorio e per lo più fastidioso, a riflettere a fondo sulla mutilazione che stanno infliggendo alla realtà dei fatti e, di conseguenza, alla formazione del proprio pensiero. In questo specifico caso, è accaduto che sedicenti fact checker abbiano potuto, proprio in virtù della loro presunta competenza a parlare di numeri, gettare fumo negli occhi a un sacco di gente, a cominciare da se stessi. Ecco, in un paese con una minima cultura scientifica (che poi non è diversa da quella “umanistica”, se vogliamo finalmente convincerci che il sapere è uno e non una collezione di frattaglie), questo non sarebbe stato possibile.

  5. Eva scrive:

    Il respiro che si fa a affanno, le pupille che si dilatano, il sudore che cola dalla nuca e appiccica i capelli, voci che sono latrati, l’odore del corpo, il nostro corpo, che cambia, si fa acido e sconosciuto, come la donna/l’uomo che ci è davanti: colei/colui che credevamo di conoscere solo perché lo avevamo modellato a immagine e somiglianza delle nostre aspettative. Allora imbruttirlo, sfregiarlo, umiliarlo, crederci giganti solo perché le/gli ho sferrato un pugno (ma solo uno, eh, che mica sono come quegli altri, io: so controllarmi, io). Massimo, tu la chiami “dignità. Per me, è solo impotenza. E fa rima con “violenza”.
    Christian Raimo: ho letto molto nella mia vita, con foga e piacere, fin dalla più tenera età. Mi sono formata alla scuola letteraria degli uomini e non me ne pento: lo rifarei e lo rifaccio continuamente. A scrivere, siete più bravi delle donne, le ragioni non mi interessano: è un dato di fatto. Noi donne sappiamo parlare quasi esclusivamente di amori finiti, di tradimenti, di maternità, reali o bramate, ma la Scrittura, quella vera in parte ci schifa. Certo, ci sono Colette, Annah Arendt, Agota Kristof… ma se non ci fossero i loro nomi in copertina, direste mai che sono donne? Non penso affatto che far leggere più opere scritte da donne cambierebbe l’istinto di sopraffazione dell’uomo. Le opere letterarie, quando sono davvero tali, superano i secoli, ma anche i generi: non voglio privarmi di “Guerra e pace” solo perché lo ha scritto un uomo, né raccomanderò mai ai miei studenti, di leggere il romanzo di una donna per imparare ad essere meno violenti (in fin dei conti, quando leggo certe schifezze firmate da una donna, una certa propensione alla violenza, la sento nascere anche in me). Quante donne avrebbero saputo tratteggiare tre opposte eppure complementari figure femminili, come fa Choderlos de Laclos con Mme de Merteuil, Mme de Tourvel e Cécile de Volanges? Una Madame Bovary, nella penna di una donna, sarebbe arrivata fino a noi? L’amore del conte Vronskij e di Anna Karenina sarebbe stato forse meno/più tormentato di quello che ancora oggi smuove i nostri cuori? E la dignitosa rassegnazione della Nedda di Verga, sarebbe stata invece in grado di cambiare la condizione delle donne meridionali, se a scriverne la storia fosse stata una donna?

  6. Paolo1984 scrive:

    Eva, ovviamente sono d’accordo che quello che conta di un romanzo non è il sesso dell’autore e anch’io ho dei dubbi sul fatto che leggere più libri scritti da donne farebbe da antidoto al femminicidio..certo che sarebbe importante nei licei e nelle facoltà universitarie studiare la storia del movimento femminista o meglio, dei femminismi ma è importante di per sè non come rimedio a.
    Detto questo, direi che amori finiti, tradimenti e maternità fanno parte del vivere, fanno parte dell’umano ed è l’umano che la letteratura racconta quindi sminuire le autrici (o gli autori) che ne scrivono è sbagliato

  7. Sara Gini scrive:

    Sono contenta di sentire un maschio finalmente dilungarsi sul tema del femminicidio e della violenza contro le donne in generale. Unico neo gia’ evidenziato con competenza da Maurizio, l’apparent apprezzamento alle considerazione errate di Tonello e De Luca. L’articolo criticato di Tonello veniva criticato anche dalla sottoscritta perche’ privo di fondamento, stando l’assenza in Italia di soggetti incaricati a rilevare statisticamente i casi di femminicidio.
    Trovo molto azzeccato e utile l’aver sottolineato la necessita’ di accostare maggiormente gli uomini al mondo femminile per dare loro maggiori occasioni per valorizzare e apprezzare le donne, uscendo dalla gabbia culturale della convinzione della superiorità maschile. Il problema della violenza e dell’omicidio di numerosissime donne dipende innanzitutto dalla cultura maschilista che pervade profondamente la nostra società ed e’ in grado di condizionare chiunque. Occorre un profondo senso di parità tra sessi e rispetto dell’altro e delle differenze per riuscire ad essere superiori alla violenza ! E’ fondamentale, pero’ che gli uomini, i maschi, offrano il loro punto di vista e coinvolgano piu maschi possibili nel dibattito.
    Le donne parlano di violenza contro le donne da decenni, grazie alle femministe e alle operatrici dei centri antiviolenza sorti in Italia negli anni 80 ma ora c’e bisogno degli uomini e del loro contributo.

  8. Eva scrive:

    Allora preciso, Paolo: le autrici si sminuiscono da sole per come mediamente scrivono, non per quello che scrivono. ora, se a una struttura carente, si aggiunge la noia di un piagnisteo continuo, troppo femminile, ce n’è abbastanza per dire: grazie no, meglio gli uomini. Prima non ho citato a caso Colette: perché scrive costantemente di tradimenti e di amori falliti o mancati (e l’autrice stessa, di tradimenti ne ha subiti e impartiti parecchi) eppure non posso fare a meno di rileggere costantemente opere come “La vagabonde”, o “Chéri”, o “Le blé en herbe”, o “La chatte”, perché la sua penna ha il tratto immortale dei grandi scrittori, e il tema che tratta, la storia che racconta non sono che un mezzo al servizio di quella scrittura. Colette non ha mai provato una forte simpatia nei confronti dei movimenti femministi della sua epoca, eppure le sue eroine sono donne libere, emancipate ed anticonformiste, che non hanno bisogno di nascondersi dietro alcuna etichetta, fosse anche quella (nobile in alcune epoche, lisa e inutile in altre) del femminismo. Poi ok, siamo d’accordo, facciamo studiare la storia del femminismo a scuola, ma non trascuriamo l’educazione alla sessualità. Conosco tredicenni -troppi – che hanno già provato quasi tutto ma non hanno mai visto l’amore (per “tredicenni” intendo i ragazzi e le ragazze). Usano il proprio corpo come si fa con i territori: consumo quello che posso, finché posso, poi si vedrà. Si credono più liberi e sono schiavi di un sistema cieco perché non offre alternative e non permette loro di conoscerle. Così, le ragazzine escono dalle medie, e un anno/due anni dopo le ritroviamo col passeggino e l’illusione che il vero destino si sia compiuto: stare a casa e aspettare che qualcuno le mantenga, i genitori prima, un uomo poi. Ma qui sto sconfinando in un altro campo, temo. Diciamo che dovremmo imparare ad insegnare qualcosa di cui non si parla mai: il rispetto di se stessi (quello dell’altro da sé, non può che essere consequenziale al primo). Se io donna imparo a conoscermi e a rispettarmi in quelli che sono i miei veri desideri, le mie aspirazioni, le reazioni del mio corpo o del mio cervello, ho già in me degli anticorpi molto forti contro il meschino di turno, ma anche contro la madre che mi considera “incompleta” perché rifiuto di vivere una vita infelice, ma nel “sacro vincolo del matrimonio”, o contro la suocera, o la cognata che mi umiliano perché non sono riuscita a dare un figlio a mio marito, o all’amica che passa le giornate a suggerirmi come vestirmi o truccarmi, per “tenerti l’uomo, che sennò sai quante donne sono pronte a portartelo via?”. C’è violenza in tutto questo, fra le peggiori, perché passa sotto il nome di “educazione”.

  9. Paolo1984 scrive:

    c’è anche tanta gente che giudica una ragazza come una “chennon ha rispetto di sè” solo per come si veste o si trucca ma forse siamo OT

  10. barbara scrive:

    Grazie per il tuo scritto Christian, speriamo davvero che le cose che dici accadano “talmente in fretta che se qualcuno si andasse a rileggere tra un anno quest’articolo sarei contento che mi liquidasse dicendo che ho fatto il pieno delle banalità”. Per questo abbiamo lanciato questo appello a fine giugno e stiamo organizzando uno sciopero delle donne per il 25 novembre prossimo, per dare un segnale forte e fermare la cultura che alimenta il femminicidio.
    Qui il link all’appello e alle adesioni
    http://www.barbararomagnoli.info/adesioni-a-scioperiamo-per-fermare-la-cultura-della-violenza/
    Qui le parole che vorremmo per cambiare le cose
    https://www.facebook.com/notes/lo-sciopero-delle-donne/le-parole-che-vogliamo-lo-sciopero-delle-donne-25-novembre-2013/1414434358780901
    Se ci aiuti a diffonderlo te ne siamo grate
    Barbara Adriana Tiziana

  11. LM scrive:

    Lo dico papale papale: definire Tonello e De Luca negazionisti mi pare come minimo criminale (sarebbero semmai riduzionisti…). Il problema esiste (non solo in Italia) ma i numeri danno torto a chi enfatizza, parecchio torto; i numeri dicono infatti che l’italia è uno dei paesi meno violenti del mondo. Enfatizzare il problema, del resto, siamo sicuri che migliori la condizione delle vittime? E’ del resto morale morale avere dei benefici economici, di carriera, di visibilità dallo stare in prima linea dentro una battaglia che non porta reali benefici alle vittime di quotidiana violenza? (non lo dico a Raimo, che immagino abbia scritto gratis l’articolo per il povero Europa e che comunque non è in prima linea in questa nuova battaglia politico editoriale…)

  12. Maurizio scrive:

    Bisognerebbe leggere, prima di scrivere nero su bianco argomenti già ampiamente confutati. Ma capisco che il parlar papale non presuppone necessariamente anche la capacità di leggere.

  13. LM scrive:

    Signor Maurizio, faccia poco il supponente. Lei non si può permettere, da nessun punto di vista, di infangare l’onorabilità delle persone. E tanto meno se lo può permettere Loredana Lipperini. L’Italia, piaccia o no a voi tragediatori, è un paese poco violento, anche nei confronti delle donne. L’indice di omicidi (li devo chiamare uccisioni, li devo dividere per genere?), per esempio, è metà di quello medio europeo. Che poi tutti noi vorremmo un mondo con ZERO violenza, è un altro discorso. Ma è violenza anche infangare chi la pensa diversamente da noi.

  14. Maurizio scrive:

    “Tragediatori”… Ah, adesso ho capito. A ciascuno il proprio linguaggio, a ciascuno le proprie appartenenze.

  15. LM scrive:

    Signor Maurizio, innanzitutto mi scuso per essermi permesso di interloquire con una persona tanto qualificata da essere chiamato finanche a collaborare con Loredana Lipperini. Lo ammetto, sono un poco di buono che ha scelto di occuparsi di arte, dunque dei fatti propri, piuttosto che stare in azienda a fare il bene dell’umanità. Dunque, chiedendole nuovamente scusa, vengo a dirle con questa mia una parola che noi delinquenti viviamo più di letteratura che di statistiche, e per questo non ci rendiamo conto della gravità della situazione, due donne virgola cinque uccise da uomini ogni milione di abitanti (qualche statistico disonorato osa dire che è un dato rassicurante, che ci mette ai primi posti nel mondo proprio per la sicurezza delle donne). La parola TRAGEDIATORE, non per giustificarmi, mi viene dall’aver perso tanto del mio tempo, sottraendolo al dovere di fare il bene dell’umanità come fa lei che sta in azienda, sui romanzi degli scrittori siciliani, farabutti conosciuti anche a livello internazionale come Leonardo Sciascia, Stefano D’Arrigo, Andrea Camilleri e tanti altri che non le sto a dire, ma che fanno uso del termine, del quale fece una perfetta sintesi Elvira Sellerio parlando di Gesuado Bufalino: “Ho ammirato molto il suo modo tranquillo, pacato, orgoglioso di essere siciliano. Dignità e disagio. E anche un po’ di tragedia classica. Nella provincia di Bufalino, come in quella di Sciascia, si usa una parola: ‘ tragediatore’ . Intraducibile. Si riferisce a chi vede una dose di buio in ogni evento”.

    Leonardo Sciascia « … A Racalmuto il tragidiaturi è una specie di “ ingegnoso nemico di se stesso”: uno che si arrovella, che si rode di preoccupazione e di apprensione per ogni cosa che i familiari fanno o non fanno,di tutto malcontento- ed anche delle cose buone e belle, di cui diffida e mugugna aspettandosene il rovesciamento, l’inevitabile avvento del contrario. Ragionatore, sofista: ma sempre nella scienza del peggio. S’appartiene al pirandellismo di natura, rigoglioso nella zona. Gli amici ed i conoscenti tengono in considerazione di filosofi o di saggi coloro che nel “ tragediare” danno nel sublime; le mogli, le madri, le figlie ( la parola è di prevalente uso femminile) li considerano semplicemente e soltanto “ tragidiatura”:mapiù con compatimento e leggera irrisione che con astio».

    Camilleri «”Tragediatore” è, dalle parti nostre, quello che, in ogni occasione che gli càpita, seria o allegra che sia, si mette a fare teatro, adopera cioè toni e atteggiamenti più o meno marcati rispetto al livello del fatto in cui si trova ad essere personaggio. … So bene che il “tragediatore” altrove viene più semplicemente chiamato “commediante”, ma perché da noi si preferisca tirare in ballo la tragedia piuttosto che la commedia è cosa così caratterialmente ovvia – e spiegata in centinaia di libri di pensiero e di fantasia – che non è manco il caso di perderci altro fiato sopra»

    Camilleri «Il siciliano è un tragediatore: piange, grida, enfatizza cose che potrebbero tranquillamente venir dette sottovoce».

    Tornando a noi, farabutti della letteratura e dell’arte da una parte e benefattori dell’umanità che hanno scelto di sacrificarsi nelle aziende dall’altra. Tragediatori significa per me, appartenente alla peggiore razza di esseri umani, che state ingigantendo un problema (serio) che del resto, proprio perché è costante nel tempo, come voi sostenete, non può essere definito emergenza (l’evidenza è evidente ma va evidenziata, direbbe Totò). Per altro fate finta di ignorare che negli ultimi 15 anni l’Italia è diventato un paese a forte presenza di immigrati da paesi dove il rispetto per le donne c’è mica… E non conteggiate le donne uccise in contesti familiari arabi islamici, come non conteggiate le povere ragazze vittime del traffico della prostituzione (più o meno un terzo dei delitti hanno come vittime queste donne qua). Secondo me, insomma, signor Maurizio – lo ridico papale papale -, tragediate perché non siete in grado di fare niente altro che cavalcare onde emotive prodotte artificialmente dal sistema politico editoriale (che ci guadagna di sicuro, sull’impaurismo acrobatico di molti…), e lo fate non necessariamente in modo economicamente o professionalmente disinteressato. Dico in generale… Non mi riferisco certo a lei, signor Maurizio, che avendo deciso di stare in azienda si opera per il bene dell’umanità sacrificando qualunque forma di ambizione personale (infatti non mette neanche il cognome); né mi riferisco alla povera Loredana Lipperini, che senz’altro non si può accusare di fare operazioni di marketing per vendere i propri libri o per affermarsi come opinionista di punta; né, figuriamoci, mi riferisco alla scrittrice martire Michela Murgia, che sta anche lei per sacrificarsi a favore della collettività candidandosi a fare il Presidente della Regione Sardegna, e male che vada verrà eletta in consiglio Regionale e si dovrà fare un mazzo tanto per meno di 15.000 eurucci al mese. Però, lo potrà ammettere anche lei, signor Maurizio, il rischio che qualcuno se ne approfitti, a cavalcare l’onda impaurista artificialmente prodotta dal sistema culturale-politico-editoriale, c’è.

    Per concludere, signor Maurizio, mi scusi di nuovo se mi permetto di pensare che bollare persone serie come De Luca e Tonello di negazionismo è un GESTO assolutamente criminale. La mia è una semplice opinione.

    Larry Massino

  16. Maurizio scrive:

    Certo che lei è un bel tipo, signor LM. Accusa me di un gesto “criminale” e dice che sono io a infangare le persone; mi rimprovera di non mettere il mio cognome e lei di suo, prima di questo commento, non aveva messo neppure il nome. Mi attribuisce una spocchia da infuencer compiaciuto che francamente fa sorridere, essendo io un Carneade ben più invisibile di quello vero. Poi si fa un film su quello che è niente più di un dato biografico (il mio lavoro in azienda, citato solo per evidenziare la mia estraneità all’ambiente accademico), avocando a sé il merito di coltivare l’arte a fronte di un freddo calcolatore che lavora per il profitto privato; rivendica la facoltà di ignorare i numeri, in quanto sembrerebbe di capire che la sua (superiore) sensibilità artistica la esenterebbe da queste beghe ragionieristiche, salvo però usare proprio i numeri per esprimere una tesi alla cui amplissima confutazione lei resta impermeabile, con tetragona indifferenza. Mi è capitato già in passato di avere a che fare con persone come lei e non desidero ripetere l’esperienza, data la totale impossibilità di far penetrare nella cortina fumogena che avvolge il vostro mondo personale il benché minimo barlume di logica; pertanto questo è l’ultimo commento che scrivo in risposta ai suoi. Comunque, per riportare le cose alla loro realtà e sottrarle all’universo fantasmatico in cui lei le ha precipitate, nessuno le ha rimproverato di “essersi permesso di”; quello che le si fa osservare è di parlare senza aver letto né le tesi né le argomentazioni che si ripromette di contestare. Tanto per dire, un semplice indizio del suo atteggiamento: se lei avesse letto, il mio cognome lo conoscerebbe, benché sia un dato di nessuna importanza, perché io non l’ho mai nascosto; se avesse letto non si metterebbe a sproloquiare di immigrati: alla difficoltà di esplorare il fenomeno della violenza di genere nel loro mondo sommerso è dedicata una sezione intera nel libro di Lipperini e Murgia, che ospita una meravigliosa lettera di una ex lavoratrice del sesso nigeriana che ora opera contro la tratta; e se ne parla ripetutamente nei commenti ai post sul blog di Loredana Lipperini. Se avesse letto vedrebbe con chiara evidenza che le tesi di Tonello e De Luca sono state smontate pezzo per pezzo, non solo da me; e capirebbe che tutto quel tremebondo mettere le mani avanti di De Luca nel suo nuovo articolo (“non sono uno statistico” ecc. ecc.), così diverso dalla spocchia esibita in passato (“i numeri sono tutti sbagliati”) nasconde la coda di paglia di chi sa di star usando argomentazioni farlocche, in quanto già smentite. Ma capisco l’efficacia di riproporle, se c’è chi – come lei, signor LM – pervicacemente si ostina a ignorare ogni dato di realtà.
    Per finire, signor LM, non si affanni a spiegarmi Sciascia: le dovrebbe essere chiaro che bruti della mia fatta, avvezzi solo ad aride cifre e a contabilità di profitti, mai potrebbero apprezzare intuizioni sublimi come, che so, la figura dell’abate Vella, che lei peraltro tanto bene impersona nello zelo che mette a rimescolare numeri che non capisce così come lui confondeva ad arte le pagine di un codice che voleva inventare invece di tradurre. Non si affanni ad accostarsi a questo mondo senza bellezza, nessuno in fondo glielo chiede. Magari, però, abbia un po’ di fiducia in più in chi quel mondo lo esplora da anni, essendo quello il suo mestiere, e lasci a queste persone il compito di trarre qualcosa da quei simboli esoterici con cui lei con ogni evidenza fa a pugni. Lei faccia il suo, di mestiere, che mi pare le piaccia, e certamente le viene meglio. Non ho dubbi, in proposito. Fine delle comunicazioni.

  17. LM scrive:

    Signor Maurizio, in base a quale principio dovrei perdere tempo a leggere la modesta produzione pubblicistica dei tragediatori e degli impauristi acrobatici, quanto c’è da leggere così tanta letteratura? Lei si riempie la bocca con ho confutato qui ho confutato là, ma il dato che 2,5 donne uccise ogni milione di abitanti ci mette tra i paesi più sicuri del mondo proprio per le donne non lo confuta… Mi scusi di nuovo se mi permetto di pensare che bollare persone serie come De Luca e Tonello di negazionismo è un GESTO assolutamente criminale, che richiede delle immediate scuse. La mia è una semplice opinione.

  18. Tony M scrive:

    @Maurizio
    La prego di osservare che gli argomenti di De Luca non solo non sono stati confutati ma rimangono lì in evidente e lapalissiana consistenza. Ho seguito il thread sul blog di Lipperini e Cosenza. Al contrario è il suo lavoro ad essere stato confutato mostrando quello che è il femminicidio in Italia: un fenomeno irrilevante in termini assoluti; confortante in termini relativi al confronto con le altre nazioni; invariante rispetto al tempo e a variabili quali il finanziamento o meno delle strutture antiviolenza (visto che i tagli ci sono da un paio di anni e le morti sono anzi diminuite di qualche unità); indimostato rispetto all’ipotesi causale della cultura maschilista; non prioritario econimicamente rispetto a tante altre tipologie di morti violente. Non vale obiettare che finanziare una cosa non escluda l’altra altrimenti si cade nell’inconsistenza delle proprie fisse. Da ciò che ho letto nei suoi interventi sui vari blog lei non ha capito il concetto di minimo fisiologico, inteso come prodotto probabilistico di variabili violente quali gli infiniti gradienti delle patologie psichiatriche dei soggetti in interazione tra loro quotidianamente. Non ci arriva proprio. Sofisticamentelei sembra credere che vada dimostrato per via statistica un’evidenza fattuale (non vi sono occorrenze note di luoghi contingenti e non trascendenti ove l’omicido sia zero) senza accettare che la statistica non prevede il futuro ma constata il passato e quindi l’esistente, in quanto è descrittiva ma non predittiva. Va da sé che per principio lo statistico non può negare metodologicamente l’esistenza di un minimo fisiologico. Chiedergli di “dimostrare” un minimo fisiologico è usare il martello per dipingere. Il minimo fisiologico invece si deriva da matematiche afferenti le teorie delle probabilità in cui la probabilità p delll’omicidio è non nulla.
    Scusi il pistolotto piuttosto elementare ma necessario.
    Infine lei sembra non preoccuparsi della relazione causa-effetto tra eventi. Per lei il finanziamento di politiche culturali è un dogma dalle conseguenze sempre e solo positive mentre l’atteggiamento scientifico con i dati attuali a disposizione sarebbe quello di constatare che poiché il finanziamento dei centri antiviolenza nel passato non ha portato a una fluttuazione in positivo (o in negativo) dei femmincidi non ha senso finanziarli ulteriormente mentre assai sensato sarebbe investire in contesti in cui è possibile avere una relazione di causa effetto tra politiche di finanziamento e diminuzione delle morti o degli incidenti. Come avviene appunto per le politiche di protezione tecnica e controllo sulle morti sul lavoro, vero tasto dolente italiano in rapporto agli altri Paesi Europei.
    Da ultimo mi piace ricordare di aver letto sul blog di Giovanna Cosenza che le morti dei pedoni falciati sulle strade nel 2011 sono stati 638 e i ciclisti uccisi all’anno sono 302. Numeri nettamente maggiori di morti incolpevoli e che però non assurgono a onore della cronaca mediatica e quindi nell’immagginario collettivo non vengono percepite come rilevanti. Possedere il senso delle proporzioni aiuterebbe a comprendere che meno di cento all’anno uccise su un campione di oltre 30 milioni di donne è un dato da accettare come immutabile. Che piaccia o meno alle nostre coscienze. Sempre che lei non voglia normare e controllare decine di milioni di libere relazioni le quali implicano miliardi e miliardi di comportamenti anche casuali e in cui l’aberrazione estrema dell’omicidio è un comportamento emergente inevitabile.
    Non credo lei recepirà alcuna delle mie osservazioni banali. Il fatto che i suoi argomenti siano inconsistenti, che molti glielo abbiano fatto notare e che lei ancora insista a chiamare confutazioni le sue impotenze mi suggerisce di abbandonarla alla sua metafisica statistica, dove stattistico è l’aggettivo non il sostantivo.
    Auguri

  19. Paolo Di Reda scrive:

    Bello e vero (nel senso che parte dalla giusta prospettiva) l’articolo di Raimo. Partire dal Sé, come ci ha insegnato il movimento femminista è uno sforzo verso il quale gli uomini, abituati culturalmente a essere pieni di sé e dunque poco propensi a mettere il proprio Sé in discussione, sono poco abituati a fare.
    E’ difficile, però, trovare lo strumento sociale per cambiare questo stato di cose. Non basta la condanna e l’scrizione a reato del femminicidio, anche se è necessaria e irrinunciabile, e segna uno spartiacque socialmente rilevante. . Perché la condanna (per sua stessa definizione) avviene quando il fatto è già compiuto, non lo previene, né modifica gli atteggiamenti che ne sono la causa, se non indirettamente.
    Sono d’accordo con Raimo sulla necessità di indagare di più in quella “zona grigia” in cui tutti i maschi sono dentro, in quella zona dove i sentimenti si sviluppano pensando che la colpa, per le proprie “sventure”, sia sempre degli altri. Quella stessa colpa che, al contrario, per le donne diventa invece spesso l’origine per accettare comportamenti violenti nei loro confronti.
    Più che nella femminilizzazione delle letture (cosa comunque utile per costruire un Sé plurale) io credo si debba lavorare per cancellare il concetto di colpa e trasformarlo in positivo, ossia far crescere il concetto (e il senso) di responsabilità. Credo che questa sia la cosa che manca di più nel nostro Paese e chiedere a viva voce che ogni cittadino italiano si prenda le sue responsabilità, in ogni sfera della sua attività, sul lavoro, come in fila alla posta, o alla guida della propria auto, come in politica, e soprattutto tra le mura domestiche, possa essere l’inizio di una vera trasformazione. C’è bisogno di una coscienza collettiva che avvii un processo di pulizia morale e culturale, che dobbiamo compiere in primo luogo dentro di noi, senza differenze di genere, come esseri umani nati in Italia in questo tempo. Partire dal Sé, come dicono giustamente molte donne. Quel Sé che è il forziere dove albergano i nostri comportamenti sia positivi che negativi. Sta a noi, e a nessun altro, affrontarlo in ogni istante della giornata, e decidere da che parte stare. Senza scaricare le colpe (o i meriti, è la stessa cosa) sugli altri.

  20. Jerry scrive:

    Ma se ti vergogni così tanto di essere di sesso maschile, non pensi che forse sei tu il problema?

  21. Paolo Di Reda scrive:

    @Jerry
    Se avessi letto bene ciò che ho scritto non avresti fatto questa domanda. Certo che sono io il problema, allo stesso modo in cui lo sei tu, come lo siamo tutti. Il punto è che il problema non possono essere gli altri. E poi non è una questione di vergona. Non c’è morale astratta, ma solo quella che si basa sui fatti. E i fatti parlano di tantissime donne uccise e maltrattate dagli uomini. Stop. Il resto, certo, è un mio problema. Ma il problema più grande è chiudere gli occhi.

  22. Eva scrive:

    Ora mi sento più sicura: dunque,
    a quanto ho capito (scusate, non sono che un’umanista e in matematica, alle superiori, prendevo invariabilmente 4), il femminicidio in Italia è: “un fenomeno irrilevante in termini assoluti; confortante in termini relativi al confronto con le altre nazioni; invariante rispetto al tempo e a variabili quali il finanziamento o meno delle strutture antiviolenza (visto che i tagli ci sono da un paio di anni e le morti sono anzi diminuite di qualche unità); indimostato rispetto all’ipotesi causale della cultura maschilista; non prioritario econimicamente rispetto a tante altre tipologie di morti violente”.
    Sono stata picchiata, una volta, dall’uomo che amavo e che, a modo suo, mi amava. Lo ha fatto perché mi ero rifiutata di seguirlo lì dove lui aveva scelto di vivere – senza consultarmi – e lo aveva fatto con questa interessantissima tesi: “Tu sei una donna ed è la donna che segue l’uomo”. tesi che mi sono sentita ripetere svariate volte da persone della sua e della mia famiglia, sgomente nell’apprendere che non avevo voluto seguirlo perché mi rifiutavo di ridurre i miei sentimenti a un ricatto (“se mi ami, mi segui”). Persone che amo e che rispetto e con un alto livello di istruzione ma, ahimè, troppo imbevute di una certa cultura. Il legame tra violenza sulle donne e cultura maschilista è certamente tutto da provare, ma da donna so che non ho bisogno di prove e da donna so che molte non hanno tempo a disposizione per attendere che le scienze matematiche e statistiche facciano il loro corso, dando dimostrazione ineluttabile, a noi comuni mortali, che effettivamente, un certo tipo di cultura, magari, le sue colpe le ha.Però Intanto, mentre disquisiamo piacevolmente di numeri e statistiche, hanno ammazzato una prostituta e l’hanno gettata nelle campagne vicino a casa mia (ma le statistiche che priorità danno all’omicidio di una “puttana”, rispetto a quello di una “madre di famiglia”?).
    Io mi chiamo Eva Signorile e non sono un numero.

  23. Col cavolo che mi sento colpevole scrive:

    Ringrazio gli autori degli ultimi interventi per aver ristabilito la verita` fattuale e numerica. Le pippe mentali sul femminicidio le lascio a chi ci si e` costruito sopra una comoda carriera.
    Il post di Christian e` interessante, perlomeno come lettura diversiva, ma non sposta di una virgola i termini reali del problema (e non penso che questa fosse la sua intenzione).
    La moda di parlare del femminicidio passera`, come sono passati i pantaloni a zampa di elefante e le altre mode che per alcuni sostituiscono la realta`.
    Per la prossima parola d`ordine si accettano scommesse:per me il 2014 sara` l` anno dello spermicidio, e la masturbazione maschile sara` punita nei tribunali.

  24. Sascha scrive:

    La moda del prossimo anno sarà quella preannunciata da LM, Tony M, Jerry, ‘Col cavolo che mi sento colpevole’, Tonello e De Luca (probabilmente sempre la stessa persona): cifre alla mano – e le cifre non mentono, si sa – tutti parleranno di maschicidio, la strage impunita di uomini da parte di donne che, senza una ferma guida, avranno perso ogni controllo. Le cifre, signori miei, le cifre che solo noi maschi ‘scientifici’ siamo in grado di capire e padroneggiare.

  25. Sascha scrive:

    Quello che le cifre di Tonello, De Luca e seguaci “dimostrano” è che non ci sarebbe alcun aumento di omicidi contro le donne. C’è una diminuzione generalizzata degli omicidi e delle violenze ma non di quelle verso le donne che così sembrano di più. Insomma, gli uomini continuano a uccidere le donne (e non viceversa, che gli uomini assassinati da donne sono statisticamente quasi irrilevanti) ma non lo fanno più di prima quindi non c’è nulla di cui preoccuparsi e non c’è nessuna emergenza: le cose vanno come sono sempre andate e come devono andare.
    Il giorno che gli omicidi di uomini da parte di donne dovessero aumentare anche solo dello 0,5% le urla di Tonello e De Luca si sentiranno fino al cielo.

  26. Paolo1984 scrive:

    Eva scusa se mi impiccio..ma un uomo che picchia la compagna basandosi su quella “interessantissima” tesi non la ama in realtà, magari lui ne è convinto ma non la ama davvero. Una donna ha il sacrosanto diritto di decidere se vuole seguire il compagno oppure no, se rifiuta lui può dolersene ma la violenza fisica verso la compagna no..proprio no, e non ha a che fare con l’amore per come la vedo io.
    Per il resto: no qua non serve “sentirsi colpevoli” in quanto maschi nè pensare che tutti i maschi “siano il problema”..c’è una parte di uomini che compie femminicidio, questi sono il problema e di questo è legittimo discutere

  27. Paolo Di Reda scrive:

    @Paolo1984
    Tu dici: “non serve “sentirsi colpevoli” in quanto maschi nè pensare che tutti i maschi “siano il problema”..c’è una parte di uomini che compie femminicidio, questi sono il problema e di questo è legittimo discutere”.
    Sono d’accordo, come ho già detto che, non serve sentirsi colpevoli, quanto piuttosto responsabili dei propri comportamenti. Ma l’articolo di Raimo che tutti stiamo commentando dice proprio che il problema non è solo di una parte degli uomini, quelli che compiono femminicidi. Poi la puoi pensare come vuoi, anche come quelli che dicono che il problema non c’è, ma ti invito a riflettere sull’articolo di Raimo.

  28. LM scrive:

    Signor Sacha, non è come dice lei: il fatto che c’è violenza contro le donne rimane ed è grave, come sarebbe grave anche un solo graffio; io stavo semplicemente dicendo che dare del negazionista (l’offesa peggiore al mondo, secondo me) a chi suggerisce ai tragediatori di non esagerare, è criminale.

  29. Paolo1984 scrive:

    Paolo Di Reda..sull’articolo di Raimo ci rifletto da giorni e tracce delle mie (magari banalissime) riflessioni ci sono anche in calce al post

  30. Eva scrive:

    Paolo, il problema non è che il lui in questione “fosse convinto” di amarmi: ne ero convinta io e lo sono tutt’oggi. Ma è un amore malato, che non vuole il mio bene e pensa solo al proprio, con qualunque mezzo. Se, allora, non sono io per prima a volermi bene, ma davvero molto bene, vivrò nella convinzione che quell’altra persona mi ama al punto tale da picchiarmi per non perdermi e lo troverò “normale”.
    Ma quanta violenza c’è nel considerarmi un numero? Quando i nazisti impongono ai reclusi nei lager di radersi i capelli, indossare la stessa “mise” e tatuarsi un numero di matricola, stanno proprio rendendo quell’uomo una cifra: una cosa senza storia e quindi senza futuro. Considerarmi un numero è persino peggio che lasciarmi qualche livido: in quel caso, almeno, c’è stato il contatto fisico di due corpi e non la somma di due numeri.
    Quanto all’autoflagellazione del “maschio”, ogni volta che si parla di femminicidio, francamente la trovo poco utile alla causa, o quanto meno insufficiente: la riflessione su quanto accade tra le mura domestiche non deve essere a “compartimenti stagni”, né, tanto meno, deve essere una questione di “generi”: perché sono gli uomini che ammazzano le donne, ma quegli uomini sono educati da altre donne.

  31. Maurizio scrive:

    @Eva: scusa se mi intrometto nel racconto della tua storia personale, dolorosa, per commentare un aspetto tutto sommato secondario; però, dato che sei tu stessa a dare risalto alla tua presunta riduzione a numero, penso sia utile offrire un altro punto di vista. Quando si contano i casi è chiaro che le individualità personali si perdono, perché quello che interessa in quel momento è semplicemente un’altra cosa: è capire quanto è grande quel fenomeno, cosa essenziale per decidere come intervenire, quali e quante risorse utilizzare, in quali tempi, ecc. Questo ragionamento, che viene per lo più bollato come ragionieristico e disumano in virtù della sacralità e unicità della vita è, al contrario, proprio volto a fare il massimo sforzo possibile per tutelarla, la vita umana. Non dico niente di rivoluzionario, se ricordo che le risorse della collettività non sono infinite e purtroppo vanno fatte, sempre, delle scelte. Se riteniamo importante e fondamentale intervenire (io lo ritengo) su un fenomeno endemico che provoca ogni anno la morte di 100 e più donne e inoltre, senza che questo assurga più di tanto all’onore delle cronache, avvelena i rapporti tra i generi e fa vivere nel terrore un numero imprecisato di persone (in maggioranza donne), dobbiamo confrontarci con quelli che, come Tonello e De Luca, dicono che il problema è numericamente irrilevante e con quegli altri che preferirebbero usare le risorse disponibili (limitate, ricordiamolo) per altri scopi altrettanto nobili: combattere gli errori nella sanità, educare gli automobilisti per limitare il numero di vittime di incidenti stradali, ecc. Tutto questo non si fa raccontando le storie individuali, ma riconducendo tutte quelle storie individuali a un unico filo conduttore e studiando gli interventi da mettere in campo sulla base (anche) della dimensione del fenomeno. Poi, ovviamente, gli operatori dei centri antiviolenza il cui finanziamento sarà stato deciso sulla base di un’analisi quantitativa daranno (loro sì) la loro attenzione alle persone, le vedranno nella loro fisicità e riconosceranno la loro individualità. Si tratta di due piani diversi e complementari, non vedo perché dovrebbe disturbarti il fatto che qualcuno raccolga la tua denuncia, la metta insieme ad altre e poi le conti. Senza questo conteggio, non puoi aspettarti alcun aiuto che non sia estemporaneo e disorganizzato. Ma forse ho solo interpretato male le tue parole.

  32. Eva scrive:

    Vorrei potervi seguire, Maurizio, nelle lande (magari pure rigogliose) delle leggi matematiche e della statistica, ma non riesco davvero a convincermi che una sola vita possa valere meno di due, di tre e così via. Per di più,parliamo di situazioni dove le cifre, probabilmente, non possono neanche essere ipotizzate. Le donne non parlano (per vergogna, perché lo trovano normale, perché magari non vogliono “disturbare”, perché tanto ormai è tardi, perché se poi lui si arrabbia…). Non possiamo neanche immaginare quanto grande sia il problema, perché i “numeri” si basano sulla somma dei corpi lasciati in obitorio, o sulle denunce di chi, dopo anni di vessazioni, riesce a trovare la forza di dire basta. Ma a fronte di questi limiti numerici, c’è tutto un sottobosco impossibile da quantificare e molto più grande di quanto possiamo immaginarlo attraverso le cronache dei giornali.
    E per piacere: la mia vicenda non è “dolorosa”, per niente: non provo alcun dolore, non più, almeno, altrimenti non avrei raccontato nulla. Se l’ho fatto, è stato solo perché trovavo “doloroso”, questo sì, sapere che quei lividi, per contare qualcosa, dovevano essere inseriti in un registro.
    Lo so, faccio della retorica forse troppo facile, però non posso fare a meno di chiedermi perché si debba scegliere se destinare dei fondi alla prevenzione dei femminicidi, o alle vittime della strada, o ai bambini vittime della pedofilia, quando poi un mare di denaro pubblico viene invece destinato, per esempio, all’acquisto di aerei da guerra (e a fare questa scelta, ancora una volta, sono stati gli uomini).

  33. Maurizio scrive:

    Beh, non è che ci sia tutta questa soddisfazione intellettuale nel fare la conta dei cadaveri. I (rigogliosi) territori della matematica, che io amo, sono ovviamente altri e del tutto astratti. Nel caso specifico, potremmo usare la vecchia battuta: è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Devo essere sincero, proprio non capisco questa idiosincrasia rispetto agli aspetti quantitativi della realtà. Se non comprassimo F35 e destinassimo tutto il nostro impegno esclusivamente a cause nobilissime, anzi dico di più, se abolissimo proprio il denaro e ciascuno di noi si prodigasse al massimo delle sue capacità in modo del tutto gratuito, anche in quel caso avremmo delle priorità da decidere, non essendo infinita la nostra capacità di lavorare. Dovremmo scegliere se indirizzare più sforzi verso la cura dei tumori o la costruzione di parchi giochi per i bimbi, se espandere le nostre conoscenze andando su Marte o invece dedicarci all’assistenza delle persone anziane. Magari dispiegheremmo sforzi immensi in un compito per il quale si finirebbe per scoprire che sarebbe bastato molto meno, trascurando cose che invece avrebbero necessitato di minore impegno. Questo in un mondo ideale. Poi, dato che il nostro mondo ideale non è e ci sono anche signori come Tonello e De Luca e tanti altri che ci vengono a ricordare che esistono anche altri problemi (per loro più urgenti), diventa necessario confrontarsi, misurare. Secondo me, chi ha generato in noi italiani questa insofferenza acuta per tutto ciò che comporta operazioni più difficili di un’addizione ha commesso un crimine. Di cui beneficiano grandemente i politicanti di ogni fazione, che possono venirci a raccontare di voler spazzare via da Roma 20.000 rom (in una città che ne ospita 6.000), che stanno per sbarcare sulle nostre coste 2 milioni e mezzo di profughi mediorientali (non basterebbero 1.000 arche di Noè per trasportarli), che mandando a casa i parlamentari si recupererebbero abbastanza risorse da superare la crisi (Grillo, che non dice che è meno di 2 miliardi il loro costo, mentre è di oltre 2.000 miliardi l’ammontare del debito pubbico). Sono aspetti della realtà poco poetici, lo so. Ma so pure che per salvare vite i poeti non bastano. Non fraintendermi, non ho detto che non servono: altroché se serve, gente capace di toccare cuore e sentimenti delle persone, di mobilitare le nostre emozioni. Ma non bastano: per non farsi prendere in giro, per agire nel modo più corretto, per ottenere il massimo dai nostri sforzi, servono anche i ragionieri. Di certo pure io preferirei, per bermi una birra, la compagnia di un poeta a quella di uno come un contabile; ma non per questo il contabile è meno necessario del poeta. E qui mi impongo silenzio, che siamo ormai finiti su un terreno che più lontano non si potrebbe rispetto allo spirito e ai contenuti del post di Christian Raimo.

  34. LM scrive:

    Mi scusi, signor Maurizo, ha dimenticato di dire dove e quando Tonello e De Luca hanno scritto che ci sono problemi più urgenti. Sa, qui passa gente preparata (e sfaccendata, quella parassita che spreca il proprio tempo a leggere e scrivere i libri invece di fare i benefattori dell’umanità stando in azienda), non vorrei pensassero che lei, invece di produrre dovute scuse, si inventa le cose per ulteriormente denigrare quelli che la pensano diversamente.

  35. Maurizio scrive:

    “[…] ci sono anche signori come Tonello e De Luca e tanti altri che ci vengono a ricordare che esistono anche altri problemi (per loro più urgenti) […]”. Rompo la consegna del silenzio per fare un po’ di analisi logica. Tonello e De Luca sono il soggetto e il verbo è il verbo essere; successivamente ci sono i “tanti altri”, richiamati dal pronome relativo “che” in funzione di soggetto, i quali (i tanti altri) ci ricordano che esistono problemi più urgenti. Tonello e De Luca si limitano ad esserci, non ci ricordano niente. LM: uno dei tanti (sedicenti) cultori della letteratura che non sanno leggere. Preferirà pure le pagine sublimi dei grandi scrittori agli aridi passi che può scrivere un contabile, ma pare che gli serva a poco dal punto di vista didattico. Riassumendo: non sa leggere, ma pretende di scrivere; non legge quello che uno scrive, ma pretende di confutarlo. Con gente così, ci meravigliamo dello stato delle cose in questo Paese?
    Signor LM, ma come mai questa difesa a oltranza di Tonello e De Luca? Sono suoi parenti? Siete stati a banco insieme a scuola? Sono particolarmente belli? E che ha contro il lavoro in azienda? Azzardo: forse è un tantino risentito perché non l’hanno presa? Guardi che di solito richiedono capacità logiche, e lei non sembra brillare in modo particolare su quel versante.
    P.S. può anche non disturbarsi a rispondere, tanto adesso le comunicazioni le chiudo davvero.

  36. LM scrive:

    Signor Maurizio, il suo livore è almeno pari alla sua evidente frustrazione, ma sempre inferiore alla sua mancanza di educazione (che immagino sia il punto qualificante del suo curriculum aziendale). Quello che ha scritto lì sta. E pure quello che ho scritto io.

  37. LM scrive:

    Ah, dimenticavo, se nel suo curriculum ci ha messo competenze grammaticali particolari, le tolga: ” e ci sono anche signori come Tonello e De Luca e tanti altri che ci vengono a ricordare che esistono anche altri problemi ” vuol dire esattamente che ognuno dei tre – Tonello, De Luca e tanti altri – vengono a ricordare che esistono altri problemi. Dunque. o lei riesce a evidenziare dove e quando De Luca e Tonello (che non so chi siano, avendone letto si è no 10 articoli) hanno scritto quello che lei sostiene o è una specie di diffamatore professionale. Anche lei può non rispondere.

  38. Eva scrive:

    Che poi…io non so se una birra in compagnia di un poeta sarebbe davvero più gradevole di una bevuta con un contabile :-)

  39. Giuseppe scrive:

    Si capisce chiaramente che il rapporto tra i due sessi non è esente da pericoli, ma l’eccessiva criminalizzazione e oppressione di uno, fa diminuire drasticamente le occasioni di contatto. I matrimoni si sono dimezzati dal 1970 e tenuti in piedi dai matrimoni misti e tra gli stranieri. L’altra occasione di contatto è il lavoro, dal quale – con questa cultura della criminalizzazione e dell’accusa come instrumentum regni – in molti settori dei servizi e in altri della produzione i maschi sono ridotti a pretesto ed emblema.

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Leggi commenti…

  1. […] Sono un uomo, un maschio voglio dire, ma seguo le questioni di genere. Questo per dire che qualche anno fa ero un lettore costante e allibito di Beatrice Busi quanto teneva una rubrichetta settimanale di spalla su Liberazione: 3000 battute, forse meno, per ri-raccontare gli omicidi di donne avvenuti nei sette giorni precedenti che negli altri giornali erano stati rubricati a cronaca nera, delitti passionali, regolamenti di conti, assassini etnici. Messi uno in fila all’altro, facevano impressione, quelli che allora non si chiamavano ancora placidamente femminicidi. Già: se del resto anche solo l’anno scorso parlare di femminicidio era un discorso per pochi, oggi – per fortuna – il termine è diventato di uso consueto (anche se mentre scrivo mi rendo conto che Word non lo riconosce), e la questione ha finito per l’indossare molte pelli: culturale, sociale, politica. Prima ancora della discussione del decreto legge ad hoc, era un item che aveva conquistato lo spazio mediatico come, per dire, l’argomento più discusso della saggistica di quest’anno dopo Papa Francesco: da Loredana Lipperini & Michela Murgia a Cinzia Tani, da Riccardo Iacona a Serena Dandini fino al blog della 27ora del Corriere, finalmente si è affermato nel senso comune che la violenza domestica è una delle prime cause di omicidio in Italia, e che – ovviamente – oltre le donne ammazzate, ce ne sono migliaia di altre che vengono ogni giorni picchiate e violentate, fisicamente e psicologicamente…. (continua qui) […]

  2. […] segnalo questo articolo di Christian Raimo (che ho letto grazie al blog […]

  3. […] Riceviamo e ripubblichiamo una replica articolata di Monica Pepe, a nome dell’associazione Zeroviolenzadonne.it, all’articolo di Christian Raimo di qualche giorno fa. […]

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Ho infine trovato questa sintesi sul blog di massimo lizzi

 

Il sessismo benevolo del maschio fragile

gen092014

 

Christian Raimo, a fine anno, ha scritto Il femminicidio e il sessismo benevolo, un nuovo articolo sulla violenza di genere. Il testo integrale potete leggerlo su Europa Quotidiano. L’articolo è stato apprezzato e divulgato su alcune bacheche femministe, ma commentato negativamente dal Ricciocorno. Un precedente articolo, titolato in modo irresponsabile Anch’io potrei uccidere una donna è stato commentato su questo blog.

Sintetizzo in corsivo quanto ho capito di quel che ho letto. Per poi scrivere qualche appunto, preceduto in grassetto da affermazioni o argomenti esposti dal saggista. L’articolo, pur con spunti interessanti, è molto lungo, ha uno sviluppo tortuoso, alcuni passaggi incomprensibili, una vasta, persino esagerata, indicazione bibliografica, a volte di supporto a volte di ostacolo alla lettura, specie nella terza parte.

Sintesi dell’articolo. La violenza di genere è diventato un argomento convenzionale, con un messaggio semplificato: le donne vittime devono denunciare gli uomini violenti per sostituirli con gli uomini buoni. Un messaggio classista rivolto alle donne benestanti e istruite che hanno i mezzi per riconoscere la violenza e per rompere la relazione. La violenza di genere è stigmatizzata e criminalizzata. Non si affronta la questione culturale, non si problematizza la violenza. Il nuovo femminismo è soltanto rivendicativo. Si è ristretto alla mera questione femminiile, si occupa solo di femminicidi, maternità, crisi familiari. Disconosce il suo metodo in cambio dell’attenzione che riceve per le sue battaglie. L’immagine maschile suggerita dal nuovo femminismo è duplice e falsa (buoni vs violenti). Gli uomini sono assenti, o denunciano il sessismo, ma non partono mai da sè, non raccontano la loro personale tensione verso la violenza di genere. Il maschilismo è una delle risposte automatiche alla crisi, una rimascolinizzazione risentita, desidera il confronto, ma lo esprime solo come sfogo e risentimento. I padri separati sono come i forconi. Gli uomini non hanno modelli maschili adatti ad un mondo che cambia, non sono capaci di dare sostegno, hanno meno intelligenza emotiva, non sanno affrontare la fine di una storia. Il maschilismo è espressione della fragilità maschile. Il maschilismo si esprime anche in modo benevolo, idealizza la subalternità femminile, pensa che le donne desiderino il proprio ruolo subordinato, e le donne lo accettano. Quando non funziona più, il sessismo benevolo diventa ostile. Un refrain abituale è quello di considerare l’oggettificazione femminile una specie di premessa automatica alla violenza. La violenza globalmente è diminuita, l’allarmismo non è una buona interpretazione, ma il conflitto si è trasferito dal pubblico al privato e non trova più parole e simboli per elaborarsi. La politica soffia sul fuoco e così ha fatto anche con il femminicidio.

La violenza di genere è diventata un argomento mainstream. E’ vero che nel 2012 si è contato il numero delle donne uccise. Si è iniziato ad adottare il termine Femminicidio, per significare che quelle donne venivano uccise, perchè cercavano di sottrarsi ad un rapporto proprietario. Si sono scritti alcuni libri inchiesta. Si sono pronunciati in prima pagina alcuni editorialisti ed esperti. Ma al contempo ha fatto subito seguito un movimento contrario di pubblicisti, che metteva in discussione la validità della parola femminicidio, contestava i dati, per dire in sostanza che si era in presenza di un fenomeno fisiologico neppure in aumento, strumentalizzato dalle femministe per ottenere più potere. Alla controffensiva hanno partecipato anche alcune femministe, contestando di volta in volta, il brand, il marketing, il vittimismo, il moralismo, la repressione, etc. Il messaggio contro la violenza è stato quindi presto affiancato da un messaggio contro l’antiviolenza. Mentre il vero discorso tradizionale, convenzionale sulla violenza è rimasto quello della cronaca nera, che racconta di un uomo mite, che ad un certo punto impazzisce, commette un atto di follia, in reazione a qualcosa che lo ha umiliato o fatto arrabbiare, mentre lui era già in un mare di guai o proprio mentre le cose gli stavano andando bene. E’ il discorso del delitto passionale, del raptus, della gelosia. Il saggio di Raimo si distingue da certi editoriali progressisti, ma non da questi articoli di cronaca.

Un messaggio semplificatole donne vittime che devono lasciare gli uomini violenti per sostituirli con uomini buoni. Per dire questo, il saggista sembra aver associato in particolare due campagne come fossero d’accordo, quella dell’Unità e quella di Noino.org. La prima divulgata dall’Unità, ma realizzata nel 2010 da un gruppo di donne – Anna Paola Concia, Alessandra Bocchetti, Eliana Frosali, è a disposizione di tutti. Si intitolaRiconosci la violenza e, a detta delle autrici, vuole proprio evitare di rappresentare la donna come vittima, ma indicare che le donne possono reagire. La seconda – Uomini contro la violenza sulle donne – è fatta da un gruppo di uomini e non si rivolge alle donne per proporre un catalogo di principi azzurri, ma si rivolge agli uomini per sollecitarli a non commettere violenza e a impegnarsi contro la violenza. Non so come i due messaggi possano infastidire. Ogni messaggio da solo è limitato, ma tra gli altri ci possono stare anche questi. E’ il linguaggio della pubblicità, non può che essere un linguaggio semplificato. Nessuno spot, nessun manifesto è un trattato di filosofia. Uomini e donne possiamo rappresentarli come vogliamo, ma se li associamo alla violenza di genere, l’associazione sovradetermina qualsiasi rappresentazione, perchè sappiamo che gli uni sono carnefici e le altre sono vittime. Infatti, lo stesso Raimo è riuscito a vedere donne vittime proprio nei manifesti che non volevano rappresentare le donne come vittime. E ha fatto bene, perchè ha visto la verità.

Un messaggio classistale donne che possono vedere riconosciuti i propri diritti sono quelle che se lo possono permettere. Viene da domandarsi cosa c’entri. Come se allora fosse meglio, fosse più egualitario, che nessuna donna vedesse riconosciuti i propri diritti. Parità di botte maschili per le proletarie e per le borghesi. Libere tutte o nessuna. L’osservazione può valere per qualsiasi diritto. I diritti non sono poteri. Il diritto di movimento è diverso per chi ha i mezzi per viaggiare in aereo e mantenersi negli hotel e per chi possiede solo una bicicletta e a stento paga l’affitto. La libertà di stampa è diversa per chi può fondare giornali e per chi non può neppure comprarli, per chi sa scrivere libri e per chi è analfabeta. Si può continuare con un elenco infinito di esempi. E’ una critica da rivolgere al liberalismo, non al femminismo. Il tema riguarda la lotta alle diseguaglianze sociali. La lotta alle discriminazioni sessiste, razziste, religiose, non preclude la lotta al classismo. E’ insensato usare una contro l’altra, se non allo scopo di delegittimare la questione di genere. Nell’arcipelago mascolinista esiste uno specifico gruppo, gli Uomini beta, deputato ad usare l’argomento di classe contro l’argomento di genere. Altri argomenti potrebbero essere usati per il medesimo scopo. Dire che le bianche sono avvantaggiate rispetto alle nere, le italiane rispetto alle straniere, le settentrionali rispetto alle meridionali, le lavoratrici rispetto alle casalinghe, le cittadine rispetto alle provinciali. Ciò nonostante la violenza maschile è trasversale alle classi, alle razze, alle culture, alle latitudini e alle longitudini. Dunque, giustizia è (già) fatta.

Un messaggio che stigmatizza e criminalizza la violenza di genereStigmatizzarecriminalizzare. Due verbi con alone negativo. Stigmatizzare vuol dire imprimere un marchio di negatività a qualcosa che di suo potrebbe anche non essere negativo. Si stigmatizzano modi di essere, di pensare o di agire, in fondo legittimi, la cui valutazione del danno a se stessi o a terzi è soltanto soggettiva. Criminalizzare vuol dire considerare criminoso qualcosa che potrebbe non esserlo. I dizionari riportano come esempio la criminalizzazione delle manifestazioni, del dissenso, della protesta, del consumo di droga. Stigma e criminalizzazione possono riguardare anche comportamenti effettivamente delinquenziali, ma dovuti a cause sociali, come la rivolta nelle banlieue francesi, la violenza negli stadi, la microcriminalità nei quartieri degradati attribuita spesso a zingari e immigrati. Comportamenti i cui autori possono essere visti come colpevoli, ma soprattutto come vittime sociali. Il povero che ruba la mela. Di solito, stigma e criminalizzazione vedono favorevoli i conservatori e contrari i progressisti. Per come si esprime e ragiona, pare che la violenza di genere secondo Raimo non sia biasimevole e criminale in sè. O che egli veda i suoi autori più come vittime della società, come degli sfortunati, che non come colpevoli responsabili delle proprie azioni.

Il nuovo femminismo rivendicativoDeludente, deprimente, inutile, penoso, regressivo. E’ un soggetto vago. Sembra comprendere le femministe, un po’ tutte, i media e le istituzioni che ne recepiscono le istanze. Un soggetto che si occupa solo di femminicidi, maternità, relazioni, crisi familiari. In effetti, questioni marginali dal punto di vista della politica maschile, affari di donne. Il nuovo femminismo si restringe nella mera(accezione negativa di pura) questione femminile. Eppure la questione femminile è la disparità tra i sessi, la subordinazione della donna all’uomo, è il motivo per cui esiste il femminismo. Che dovrebbe essere apprezzabile in sè, invece che apprezzabile solo fuori di sé in quanto nutre altre culture e da esse si nutre. Per essere meglio depresso il nuovo femminismo è paragonato a quello degli anni ’70. Un confronto perdente per qualsiasi corrente e cultura politica progressista.

L’immagine duplice e falsa degli uomini. Trasmessa dalle campagne antiviolenza e dal nuovo femminismo. Perchè esiste una casistica più ampia. Non solo violenti vs buoni e protettivi. Gli uomini che tacciono o quelli che condannano il maschilismo dovrebbero partire da sé e raccontare la propria personale tensione alla violenza di genere: È possibile – si domanda Raimo – che non ci sia mai un intellettuale maschio che racconti non dico la sua abitudine a andare a prostitute o quella volta che fu vicino a stuprare una donna, ma semplicemente riesca a confessare le sue telefonate ossessive, gli appostamenti sotto casa, le mail ricattatorie? Possibile che non ci siano maschi che riescano a mostrare queste fragilità, questa violenza implosa? Dovessi raccontare io, mi verrebbe in mente di essere stato talvolta geloso, invadente, limitante, ma nella stessa misura in cui mi è capitato di subire questi stessi comportamenti. In tal modo parliamo solo dell’imperfezione che è di tutti, non della violenza di genere. Stabilita una norma tutti esprimiamo una certa tensione a violarla. Partendo da sè, tutti potremmo raccontare di quella volta che abbiamo rubato o avuto la tentazione di rubare, di quella volta che abbiamo mentito, di quella volta che abbiamo marinato la scuola, ci siamo presentati tardi al lavoro, abbiamo fatto una telefonata privata da un ufficio pubblico, abbiamo violato il codice della strada, abbiamo buttato la carta per terra o avuto la tentazione di farlo, ci siamo messi le dita nel naso, abbiamo fumato in presenza d’altri sapendo di dar loro fastidio, abbiamo mancato un appuntamento, non mantenuto una promessa, siamo passati con indifferenza davanti ad un mendicante, abbiamo alzato la voce, insultato, prevaricato. Tutti – uomini e donne – abbiamo il nostro curriculum di cattivi pensieri e di cattive azioni, che comprende anche i rapporti con l’altro sesso, ma non è sufficiente per parlare di violenza di genere. Che non è un atto di maleducazione, volgarità o aggressività, ma una violazione dei diritti umani. La violenza di genere diventa tale quando la scorrettezza esce dai limiti della reciprocità e diventa sproporzionata, causa danni di natura fisica, sessuale, psicologica o economica o minaccia di causarli, diventa l’espressione di un rapporto di potere fondato sul genere. Alla fine, nella rappresentazione di Raimo l’immagine duplice e falsa degli uomini – buoni e cattivi – è sostituita dall’immagine di una moltitudine di mine vaganti sofferenti.

Partire da sé. Dubito che gli uomini debbano partire da sé come hanno fatto le femministe. Per le donne aveva ed ha un senso. Partire da sé, per definire se stesse e il rapporto con gli altri, per definire il mondo dal proprio autonomo punto di vista, emancipato dal punto di vista maschile imposto come neutro e universale. Se le donne partono da sé, disconfermano quel punto di vista neutro e universale. Se gli uomini partono da sé, invece lo riconfermano. Empatizzano con se stessi, sollecitano l’empatia degli altri uomini e delle donne. Si giustificano. Si concentrano sulla propria sofferenza, si percepiscono come vittime, come bisognosi di aiuto, e chiedono agli altri, soprattutto alle altre di prendersi cura di loro. Le donne partono da sè per mettersi in relazione con gli altri. Gli uomini partono da sè, per fare un giro nei propri paraggi e tornare presto al punto di partenza. Raimo prima deplora implicitamente la stigmatizzazione e la criminalizzazione della violenza di genere, poi racconta la propria personale tensione alla violenza di genere, infine dichiara di non avere modelli alternativi e di non potersi riprogrammare. Lui rimane così. Ha solo dichiarato di esser fatto così. Si è pubblicamene seduto su di sè. Ed ha invitato gli altri uomini a fare altrettanto come una chiamta di correo. Quel che gli uomini potrebbero cominciare a vedere partendo da sè, non è tanto quanto sono personalmente simili ai bruti, ma quanto vantaggio essi ricavano – buoni o cattivi che siano – dal lavoro sporco dei bruti. Un vantaggio per cui l’antiviolenza dà più fastidio della violenza, la condanna è più semplicistica dell’indulgenza, la confusione è complessità, e la soluzione migliore si colloca, lontano da sè, nell’orizzonte educativo delle future generazioni.

Il maschilismo di ritorno. C’è da chiedersi quando se n’era andato. E’ possibile che con la crisi, il maschilismo, come gli altri razzismi, assuma una forma più esplicita e aggressiva, ma non è la crisi ad originare la supremazia maschile, la cultura che vuole giustificarla, nè la violenza che ne è espressione e funzione. Il primo e unico rapporto Istat relativo alla violenza sulle donne è del 2006 e riguarda gli anni precedenti, dunque ben prima della crisi. Rappresentare la violenza e il maschilismo come reazione, è parte di questa cultura. Lo sfogo, il risentimento, il desiderio di confronto, credo abbiano destinatari diversi. I forconi sono un fenomeno attuale, nazionale, sono ceto medio proletarizzato, possono rivolgere sfogo e risentimento contro chi sta sotto, alla ricerca di un capro espiatorio, ma hanno chi sta sopra nella gerarchia sociale, ed è forse verso gli strati superiori che esprimono desiderio di confronto. I padri separati esistono da più di vent’anni, sono un movimento internazionale. Nella gerarchia dei generi, non hanno sopra nessuno. Reagiscono alle nuove leggi sul diritto di famiglia, alla raggiunta parità del coniuge, per ristabilire il proprio controllo, o al limite, per evitare di dover pagare l’assegno di mantenimento, poichè dal loro punto di vista, il contratto sessuoeconomico è stato rotto. Avranno certo un desiderio di confronto con le autorità, vorranno potersi esprimere sui media, improbabile vogliano confrontarsi con le donne, perchè questo presuppone il riconoscimento della parità.

La fragilità maschile. Scrive Raimo che è molto più interessante invece di agire sui sintomi, indagare e agire sulle cause della violenza di genere. A seguire il suo ragionamento, sembra che i sintomi della violenza di genere siano i lividi sul corpo delle donne. Le cause invece i lividi sull’anima degli uomini. La fragilità maschile come generatrice del maschilismo, che può esplodere in violenza. Gli uomini meno capaci di dare sostegno, meno preparati dal punto di vista dell’intelligenza emotiva ad affrontare la fine di una storia un abbandono. Gli uomini sofferenti che si ritrovano nei siti dei maestri di seduzione. La tragedia sociale più grave è il fatto che a questi uomini mancano modelli maschili utili, plastici, adatti ad un mondo che cambia. Se le donne che subiscono violenza, non devono essere presentate come vittime, gli uomini che agiscono la violenza invece non hanno bisogno di questa cautela. Come già insegnava una canzone di Enzo Iannacci, anche il vittimismo è un privilegio. Siamo nel pieno della narrazione tradizionale: uomini miti, fragili, che reagiscono ad un abbandono, ad un tradimento, con un raptus (una esplosione di violenza), incapaci di agire in modo adatto e utile, per (cosa?) mantenere la supremazia, il controllo, la proprietà. In effetti, l’alternativa non c’è, l’unica alternativa è rinunciare ad essere padroni della vita altrui, anche nel dispositivo assolutorio dell’uomo fragileche ha bisogno di lei. Mentre lei lo abbandona (delusione privata) e le femministe rivendicano (delusione pubblica). Invece di occuparsi di lui, di curarlo, di prenderlo per mano. Poche righe più avanti nel saggio si spiega che alle donne è attribuità una migliore capacità di intuizione e di attenzione, caratteristica tipica dei subalterni, in quanto hanno bisogno di anticipare i desideri maschili per evitare i conflitti. Dunque, se gli uomini hanno minore intelligenza emotiva dipende dal fatto che non hanno bisogno di anticipare i desideri femminili, di evitare i conflitti, non perchè sono più fragili (psicologizzazione della violenza) ma perchè sono socialmente più forti. Ed anche i conti della violenza ripetutamente raccontata come esplosione non tornano. Gli uomini non diventano violenti in reazione ad un abbandono. Sono abbandonati, perchè sono già violenti. L’esplosione finale, il femminicidio, è l’esito di una lunga scia di botti di petardo, fatta di insulti, denigrazioni, minacce, violenze psicologiche, vessazioni, botte. Otto vittime su dieci hanno denunciato più volte il loro aguzzino e non sono state protette, anche perchè spesso e volentieri gli operatori di polizia e di giustizia hanno interpretato la violenza come difficoltà relazionale. Come disfunzione emotiva. Come in fondo fa Raimo nel suo articolo.

L’opacizzazione della questione di genere. Gli uomini hanno il privilegio di non pensare in termini di genere, anzi cercano di contrastarne la messa a tema. L’articolo di Raimo in fondo fa lo stesso. Vuol distogliere il femminismo dalla questione femminile, vuole spiegare il maschilismo e la violenza come espressione della fragilità maschile, come reazione alla crisi, come parte di un trasferimento del conflitto dal pubblico al privato, come se nel tempo passato la violenza domestica non esistesse o fosse inferiore. Afferma esplicitamente che le caratteristiche fondamentali della violenza di genere sono celate dall’attenzione a quel “di genere”. Torna a respirare, come se avesse trattenuto il fiato per lungo tempo, dopo che nel libro di Daniela Danna gli pare che molti esempi contraddicano l’idea che la violenza di genere sia più frequente nelle società dove è più accentuata la differenziazione dei sessi.

L’oggettivazione delle donne e la violenza. Non gli piace il refrain dell’oggettivazione della donna comepremessa automatica della violenza. E la proiezione del documentario il Corpo delle donne come antidoto autosufficiente. La “premessa automatica” e “l’antidoto autosufficiente” sono argomenti fantoccio – nessuno ne ha mai parlato in questi termini – per poter contestare meglio l’argomento vero, difficilmente confutabile: che l’oggettivazione della donna sia una condizione favorevole alla violenza.

Il sessismo benevolo. Sin dal titolo, Raimo sembra suggerire che il sessismo benevolo sia quello che, mediante la legge, o le campagne mediatiche, dice di voler proteggere le donne. Per esempio, gli uomini di Noino.org. In tal modo suggerisce una confusione tra tutela privata (dei padri, fratelli, mariti) dedicata alle donne della famiglia, e tutela pubblica (dello stato) dedicata a tutte le cittadine e i cittadini, a cui anche le donne hanno diritto. A leggere Chiara Volpato, più che un sostituto a buon mercato del sessismo ostile, è un suo complemento. Come il bastone e la carota. Un alternarsi di ricompense e punizioni.attraverso il quale i dominatori controllano i dominati. Solo la ricompensa genererebbe un senso di potenza, solo la punizione genererebbe resistenza. Anche le donne lo accettano. Non solo e non proprio. Lo accettano in prevalenza le donne di orientamento conservatore. Soprattutto nei paesi dove è più forte il sessismo ostile. Più è forte la minaccia maschile, più è apprezzata la protezione maschile. Perciò, quale che sia la personale posizione di un uomo rispetto alla violenza (buono, cattivo, intermedio), i proventi per lui arrivano lo stesso. Se il sessismo ostile afferma l’inferiorità della donna, il sessismo benevolo quasi ne afferma la superiorità, specie nei caratteri e nelle attitudini ritenute femminili, più utili alla cura degli uomini: l’intuizione, la sensibilità, il dono, la capacità di accoglienza, l’amore, lo spirito materno, la grazia, la delicatezza, la bellezza. Una idealizzazione ad uso e consumo degli uomini. I quali allo scopo si mostrano tranquillamente inferiori, bisognosi e dipendenti. Lo stesso articolo di Christian Raimo è un esempio di sessismo benevolo alternato al sessismo ostile. E’ ostile nei giudizi sprezzanti verso il nuovo femminismo rivendicativo. Bilanciati però dalle citazioni di testi e autrici femministe e dall’elogio del femminismo storico, anche se apprezzato non per se stesso, ma per il fatto di nutrirsi da altri e di nutrire altri. Raimo sembra quasi porsi come allievo di fronte a delle maestre, che ricopre di riconoscimenti. Che suggerisce a tutti di leggere e a cui affida l’educazione del futuro. Però, al momento di tirare le somme della lezione che ha imparato, ripete la vecchia storia del raptus (la violenza che esplode) del maschio fragile, incapace di gestire le sue emozioni, non responsabile, ed anzi si appella alla responsabilità femminile, alla capacità di sostegno, di attenzione, di educazione, in definitiva di cura delle donne. Altrimenti, il femminismo è solo rivendicativo. Meglio un femminismo materno.

Vedi anche:
Maschi che partono da sé e finiscono in una zona grigia
I manifesti che la gente non vuol vedere – del povero uomo

 

Posted by Massimo Lizzi

One Response to “Il sessismo benevolo del maschio fragile”

  1. Mi ha sempre affascinato degli anglosassoni la capacità di sintetizzare: http://www.theguardian.com/commentisfree/2014/jan/09/not-a-feminist-move-on-men-women?CMP=fb_gu

 

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2 risposte a 15 gennaio 2014 ore 10:59 CHRISTIAN RAIMO: DI COSA PARLIAMO NOI UOMINI QUANDO PARLIAMO DI FEMMINICIDIO/// L’HO TROVATO INTERESSANTE OLTRE CHE BEN LEGGIBILE: RAGAZZI! HA 94 COMMENTI, CI CREDETE! OLTRE A VARIE INDICAZIONI/// ———PER FAVORE INTERVENITE!

  1. mg scrive:

    Cara Chiara, mi sembra che l’articolo che sarebbe da prendere in considerazione non sia tanto quello qui pubblicato, ma l’altro di cui fornisci il link: “il femminicidio e il sessismo benevolo”.

    Quest’ultimo, a mio giudizio, per il suo piglio scientifico e per l’ampiezza delle problematiche che pone esce dall’asfissia e povertà che caratterizzano, in linea generale, il dibattito mediatico italiano sul tema della violenza di genere (ridotta poi al solo femminicidio).

    Le sollecitazioni e gli interrogativi sono tanti.
    Alcuni trovano argomenti e risposta nei dibattiti avvenuti in occasione delle quattro Conferenze Mondiali sulle donne che a partire dal 1975 hanno visto l’insorgere sulla scena internazionale dei movimenti femminili ed hanno consentito, attraverso l’incontro delle donne NORD/SUD- EST/OVEST, di prendere coscienza dell’universalità della violenza, del suo radicamento nelle strutture di potere (il patriarcato che si esprime anche nel colonialismo, razzismo, classismo etc.) e della necessità di definire progetti politici a vasto raggio per una strategia globale in difesa dei diritti fondati sull’eguaglianza e sullo sviluppo.

    Come dice l’autore: ”il femminismo nutriva (ed era nutrito da) altre correnti parallele…Il femminismo nasce come apertura ermeneutica, dialoga con le letture marxiste, strutturaliste…”; bisogna “problematizzare la questione della violenza tout-court”.

    In tali dibattiti si sono fissate le basi dei principi cardine del pensiero femminista e delle sue battaglie in diversi ambiti, legali, sociali e istituzionali: il concetto di genere come costruzione culturale, la valorizzazione della diversità e l’empowerment femminile, l’incorporazione della prospettiva di genere, il vincolo e il circolo vizioso esistente tra violenza e discriminazione di genere:

    “…la violenza contro la donna costituisce una manifestazione delle relazioni di potere storicamente diseguali tra uomini e donne che hanno condotto alla dominazione e alla discriminazione della donna da parte dell’uomo e impedito il suo pieno progresso, (e che la violenza contro la donna) è uno dei meccanismi sociali fondamentali con cui si forza la donna ad una situazione di subordinazione rispetto all’uomo”(Dichiarazione sulla eliminazione della violenza contro la donna, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite-1993)
    “La violenza di genere è il risultato della discriminazione e agisce come moltiplicatore della discriminazione” (Racc. Gen. Comitato Cedaw n.19, 1992)

    Le battaglie del movimento femminile globale hanno messo in piedi strumenti internazionali contro la violenza di genere, in Sudamerica(1995), Africa(2003) ed Europa (la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e lotta contro la violenza contro le donne, adottata ad Istanbul nel 2011, ratificata dall’Italia nel 2013, è stata quella che ci ha costretto ad adottare in fretta e furia la brutta legge per il contrasto alla violenza di genere).

    Ma perchè parlare solo di violenza domestica?
    Ma siamo sicuri che la violenza si è spostata dalla piazza alle mura domestiche? E allora la tratta? E allora gli stupri di guerra nelle operazioni di pace…anche da parte dei nostri soldati? E allora la pornografia dura? E allora le molestie sessuali sul posto di lavoro. E allora…allora…allora. Per non dire degli efferati crimini contro le donne fuori da casa nostra (Ciudad Juarez in Messico…Colombia, Perù, Cile, Rwanda, Ex Jugoslavia etc. etc.)

    Ci sarebbe ancora molto da riflettere e da dire.

  2. Arden scrive:

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