L’INCOMPETENZA E I CROLLI DI POMPEI
SALVATORE SETTIS
Intanto il sindaco di Pompei ha nominato “ambasciatore di Pompei nel mondo” Emanuele Filiberto di Savoia. Il privato (a Torino), il pubblico (a Pompei) e perfino le dinastie in disarmo: tutto fa brodo, pur di evitare a qualsiasi costo che i beni culturali siano gestiti da chi se ne intende. Queste due nomine (Torino e Pompei), entrambe imminenti, sono un banco di prova per la credibilità del Paese: se ne accorgeranno, i nostri politici intenti a rattoppare alleanze e giochi di potere?
Scadono l’8 dicembre i tempi per la nomina del nuovo direttore generale di Pompei, ma non si arrestano i crolli nella sfortunata città: adesso è toccato al muro di una bottega in via Stabiana e all’intonaco della Casa della Fontana piccola. Per sanare questa vergogna, ci sono già fondi (in parte europei) per 105 milioni di euro, ma si richiedono altissime competenze specializzate. Eppure, a quel che pare, il governo non cerca archeologi per Pompei, ma diplomatici o banchieri.
E non è un caso isolato: nella corsa all’incompetenza che è fra gli sport più amati dagli italiani, si ritiene che gli incarichi di vertice nei beni culturali non vadano agli esperti ma a manager tuttofare, pronti a saltare agilmente da McDonald’s o da una banca ad alte responsabilità ministeriali. Per «adeguarsi agli standard internazionali», ci vien detto. Ma il presidente-direttore del Louvre è un ottimo archeologo classico, Jean-Luc Martinez; il direttore della National Gallery di Londra è uno storico dell’arte coi fiocchi, Nicholas Penny; il direttore e Ceo (amministratore delegato) del Metropolitan Museum di New York è Thomas Campbell, eccellente studioso di arazzi; il direttore del Getty Museum di Los Angeles è Timothy Potts, espertissimo archeologo. Gli esempi qui scelti (ma si potrebbe continuare ad libitum) non sono anziani signori abbarbicati alla poltrona: sono nomine recentissime, di studiosi attivi nel loro campo, ma anche efficaci ammini-stratori.
Governo e privati fanno a gara in questo festival dell’incompetenza: il bando per la direzione del Museo Egizio di Torino (secondo al mondo dopo quello del Cairo), lanciato dalla privata Fondazione che gestisce questo Museo di proprietà pubblica, non menziona nemmeno l’egittologia fra i prerequisiti del futuro direttore. Titolo preferenziale è, anzi, la laurea in «economia e management di beni culturali», accompagnata da attitudine al fund raising. Di egittologia neanche l’ombra. Ma come farà, un direttore incapace di decifrare un geroglifico, a dialogare alla pari con i suoi colleghi di Berlino o di Parigi? L’International Council of Museums, riunito ad Assisi pochi giorni fa, ha stilato una lettera di raccomandazione in cui si stigmatizza la mancata richiesta di una specifica preparazione in egittologia e si chiede che il bando di concorso venga rivisto.
Ma il versante pubblico non è da meno: è in questa logica che Bondi spedì alla direzione generale della Valorizzazione Mario Resca, un manager che veniva da McDonald’s. E oggi si parla di Giuseppe Scognamiglio, responsabile public affairsdi Unicredit, alla nuova direzione generale di Pompei istituita dal decreto “Valore cultura”. In altri termini, il “valore cultura” consiste nell’affermare che la cultura non ha alcun valore se non nelle mani di un manager privo di competenza specifica. Alle spalle di questa nomina c’è una catena di fallimenti: non solo Resca, che ha lasciato il Ministero dopo anni inconcludenti, ma prefetti e generali in pensione paracadutati a Pompei con la mission impossible di fare un lavoro che non è il loro. Ma l’arroganza del potere continua a giocare sulla scacchiera delle poltrone intendendole come nomine politiche, senza riguardo agli standard internazionali e infischiandosene del fallimento certo a cui si va incontro.
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