14 OTTOBRE 2013 ORE 18:24 ++++DA SCOPRIRE: BLOG ALESSANDRO PORTELLI: IL GRANDE COMANDANTE GIAP / “LA FORZA DELLA SAPIENZA DI HO CHI MINH” (SOTTO DUE INFORMAZIONI IN CROCE SULL’AUTORE)…. E MOLTO—MOLTO ALTRO—- ! //SPERO CHE FARE LA CONOSCENZA DI ALESSANDRO- AMMESSO NON SIA GIA’ VOSTRO AMICO—VI APPASSIONI COME HA APPASSIONATO ME—— AVREI VOLUTO IL TEMPO PER DEDICARMICI MEGLIO, SCUSA ALESSANDRO<<

05 OTTOBRE 2013

 

Giap-Giap-Ho Chi Minh

il manifesto 5.10.2013 Il suo nome aveva ritmato i passi di un paio di generazioni: “Giap – Giap–Ho Chi Minh”.
Anche di queste cose è fatto un mito: un nome che diventa suono e un suono che si rende autonomo dalla
materia a cui si riferiva. Adesso che arriva la notizia della sua morte, a 102 anni, tanti di quelli di noi che
scandivano col suo nome i cortei, e magari qualche volta non sapevano neanche tanto bene chi era, sono quasi
sorpresi dal fatto che non si era dissolto insieme con quelle sfilate. Giap-Giap era il suono di un sogno e di un mito,
ma Võ Nguyên Giáp era una persona e una storia. Era vivo, anche se dopo tanto tempo non sapevamo più se lottava
insieme a noi, o se noi lottavamo ancora insieme a lui. Il Vietnam è stata una delle ultime volte in cui potevamo
pensare di sapere da che parte stare, chi aveva torto e chi aveva ragione. Poi le cose si sono confuse,
il Vietnam libero e rosso è stato diverso da come lo sognavamo, le tessere del” domino” sono cadute
in direzione contraria a quella che immaginava la paranoia imperialista; ma il nome di Giap è indissolubilmente
legato non solo a quel sogno ma soprattutto alla memoria di una volta almeno che “i nostri” hanno vinto.
“Vietnam vince perché spara”, abbiamo gridato. Giap era un militare, aveva combattuto e vinto contro
i francesi, i giapponesi e adesso gli americani. Di quella rivoluzione, Ho Chi Minh era la saggezza e Giap era la forza.
La sua morte lo riconduce dal mito alla storia, gli restituisce per intero il suo nome. La lunga vita di Võ Nguyên Giáp
ha attraversato tutto il secolo breve e gli ha dato forma. E’ stato un secolo in cui spesso i deboli
hanno osato sfidare ai potenti e qualche volta hanno vinto. Per questo i vincitori di oggi vogliono ossessivamente
esorcizzare il ‘900. Ricordare Giap, sapere che è esistito, magari anche rivedere (modificare, ma tornare a vedere)
certe nostre immagini di allora, ci aiuta a non pentirci e ad essere orgogliosi del nostro tempo. A proposito: dal 1993, Võ Nguyên Giáp era cittadino onorario di Genzano, già roccaforte rossa dei Castelli Romani.

ALESANDRO PORTELI | 1:18 PM 0 COMMENTI

 

25 AGOSTO 2013

 

 

Martin Luther King: I Have a Dream

 

l’unità 25.8.2013 Cinquant’anni fa, 250.000 persone si raccolsero a Washington in una grande manifestazione “for jobs and freedom” – per il lavoro e la libertà, organizzata da Philip A. Randolph, storico sindacalista militante nero e da Bayard Rusting, pacifista nero, gay, in odore di comunismo. Intervennero sindacalisti , leader religiosi, protagonisti dei movimenti, artisti. Il tutto culminò con lo storico discorso di Martin Luther King, e la sua celebre perorazione: “Ho un sogno…” Sono parole memorabili e in un certo senso sfortunate perché la loro eloquenza ha finito quasi per farci dimenticare le centinaia di migliaia di persone senza le quali quel discorso sarebbe rimasto solo un grande esercizio di retorica, e ridurre questa realtà di massa all’icona di una persona sola. E, riciclata e avvilita in tanti modi (dal caffè Kimbo ad Anna Oxa, da Silvio Berlusconi a Quagliarella) la frase del sogno ha finito per cancellare dalla memoria tutto il resto del discorso e la sua radicale politicità: “Ho un sogno, un sogno profondamente radicato nel sogno americano. Ho un sogno, che questa nazione un giorno sorgerà e vivrà il vero significato del suo credo: Riteniamo che certe verità non abbiano bisogno di dimostrazioni: che tutti gli uomini sono creati uguali… Ho un sogno, che le mie quattro bambine un giorno vivranno in una nazione dove saranno giudicate non dal colore della pelle ma dal contenuto del carattere. Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà elevata, ogni colle e ogni monte sarà abbassato, gli spazi ruvidi saranno levigati e i luoghi distorti saranno raddrizzati, e la gloria del Signore sarà rivelata e tutti i mortali la vedranno insieme”. Il sogno dunque riveste di familiari metafore bibliche (il faro della speranza, le fiamme dell’ingiustizia, l’alba della liberazione, le catene della segregazione …). una rivendicazione morale ma soprattutto politica: l’uguaglianza come significato originario della democrazia americana. King si colloca nella tradizione americana che fonda la denuncia degli errori e le ingiustizie del presente sul recupero dei valori fondanti del paese, evocando esplicitamente i padri fondatori e Lincoln. L’impalcatura del suo discorso sta dunque nella relazione fra il passato concreto della storia, il futuro immaginifico del sogno, e la domanda inevasa: come si fa a far entrare il sogno nella storia? Ma poi scatta un cambio di registro: “Siamo venuti qui, “ dice, “per riscuotere un assegno”. E si apre una insistita sequenza di termini bancari: la Dichiarazione d’indipendenza e la Costituzione sono “una tratta, un pagherò”, che estende a tutti, bianchi e neri, l’”eredità” dei diritti inalienabili di vita, libertà e ricerca della felicità. “Invece di onorare questa sacra obbligazione,” continua,” l’America ha dato ai suoi cittadini di colore un assegno a vuoto, che è tornato indietro con il timbro ‘scoperto’. Noi rifiutiamo di credere che la banca della giustizia abbia fatto fallimento, di credere che non ci siano fondi sufficienti nei grandi forzieri di opportunità di questa nazione. Così siamo venuti a incassare quell’assegno – un assegno pagabile a vista che ci darà le ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia”. Apparentemente, in questa prosaica allegoria bancaria, siamo molto lontani dalla poetica del sogno. Ma c’è nulla di volgare o irriverente: le figure economiche non mancano nella Bibbia e nel Vangelo; e la poetica del protestantesimo americano sa attribuire significati spirituali ai più ordinari oggetti quotidiani; soprattutto, l’America, fondata da illuministi consapevoli della natura contrattuale del patto sociale, non si vergogna di parlare di denaro. Così, King ancora la rivendicazione morale dell’uguaglianza alla nascita stessa del suo paese: se di diritti civili parliamo, è nella sua storia civile che dobbiamo cercarne le basi. Anche per questo King insiste che queste promesse sono state fatte ai cittadini americani, che gli americani ne sono gli eredi, che quelli che rivendicano sono diritti americani : “Non ci sarà tranquillità in America finché ai Negri non saranno riconosciuti i loro diritti di cittadinanza”. Così, sposa la radicalità dell’ammonimento all’America (“i turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondazioni della nostra nazione”) con l’ammonimento alla moderazione rivolto ai suoi (“Dobbiamo condurre sempre la nostra lotta sull’elevato piano della dignità, della disciplina e del sacrificio. Non dobbiamo permettere che la nostra creative protesta degeneri in violenza fisica. Sempre più dobbiamo elevarci alle maestose altezze di chi affronta la forza fisica con la forza dell’anima” perché “la sofferenza immeritata è redenzione”). E’ dopo queste concrete argomentazioni politiche che il discorso prende il volo. Ce ne accorgiamo dall’irruzione di un altro procedimento poetico: la ripetizione cumulativa, accompagnata dal crescere ispirato della voce e dal ritorno alle grandi metafore bibliche. “Ci chiedono: quando sarete soddisfatti? Non saremo mai soddisfatti”, risponde; e ripete: non saremo mai soddisfatti, finché saremo soggetti agli orrori della brutalità poliziesca; non saremo mai soddisfatti finché non potremo riposare negli alberghi e nei motel, non saremo mai soddisfatti finché la nostra mobilità sociale sarà solo da un ghetto a un ghetto più grande, finché i nostri figli saranno umiliati dalle scritte “solo per bianchi”, finché i neri in Mississippi non potranno votare e a New York penseranno di non avere nulla per cui votare. “No, no, non siamo soddisfatti, e non saremo soddisfatti finché la giustizia scorrerà a valle come le acque e il diritto come un fiume possente”. In queste parole c’è anche qualcosa del Martin Luther King futuro, capace di estendere la lotta dalle ingiustizie di diritto al Sud alle ingiustizie economiche di fatto al Nord. Troppo spesso dimentichiamo che la manifestazione del 28 agosto era convocata “per il lavoro e per la libertà”, che i suoi promotori sono innanzitutto sindacalisti, che tra le sue rivendicazioni dichiarate erano la parità universale nella formazione e dignità del lavoro e l’aumento dei minimi salariali. E che nel suo discorso John Lewis, dello Student Non Violent Coordinating Committee (l’organizzazione da cui poto tempo dopo scaturirà il grido “Black power”) aveva gridato: “Oggi manifestiamo per il lavoro e la libertà, ma non abbiamo niente di cui essere orgogliosi. Centinaia e migliaia di nostri fratelli non sono qui perché sono pagati con paghe di fame o non sono pagati affatto, mezzadri nel Mississippi che lavorano per meno di tre dollari al giorno, 12 ore al giorno… Ci dicono di essere pazienti e aspettare, ma non possiamo essere pazienti…. Fino a quando possiamo essere pazienti? Vogliamo la libertà e la vogliamo adesso” (e bisogna ascoltare le registrazioni per rendersi conto dell’ovazione possente che accoglie quel “now!”). Qui sta il passaggio più fragile e più potente del discorso. Da un lato, a chi grida “freedom now!”, King offre un generico ottimismo: “Tornate al Mississippi, tornate all’Alabama, tornare alla Sud Carolina, tornate alla Georgia. Tornate alla Louisiana, tornate allo squallore e ai ghetti delle città del nord, sapendo che in qualche modo (“somehow”) questa situazione può essere cambiata e lo sarà”. In quale modo? Con che strumenti, con che potere? Ma intrecciando la retorica delle origini democratiche con la Bibbia e gli spiritual, King fonda questa vaga speranza sul potere immateriale ma irresistibile della visione: è il momento indimenticabile del suo ribadito “I have a dream”. Per cambiare la situazione è decisiva la forza morale, la indomata soggettività e la ritrovata dignità di un movimento che si è dato una visione. Senza il sogno la realtà non cambierà mai. Utto il resto, le politiche e le strategie, viene dopo. Di qui la potenza e l’ambiguità di questa figura. Certo, il sogno rinvia a un futuro senza data – “One day”, un giorno (“che succede a un sogno differito?” aveva scritto Langston Hughes: “avvizzisce con un grappolo al sole, imputridisce come una piaga? Marcisce, si affloscia come un carico pesante? O invece esplode?”). Eppure, il sogno è la più alta delle possibilità umane, la capacità di vedere l’invisibile, dargli forma, cominciare a cercarlo. Il “sogno americano” è infine questo: non che gli americani sognino di più o sognino tutti lo stesso sogno o abbiano dei sogni tanto diversi dai normali sogni del genere umano. E’ che, nel momento in cui parole come “ricerca della felicità” o come “sogno” entrano nel lessico politico, il futuro è affidato all’umanità profonda di ciascun cittadino. Nel suo sogno, King intreccia l’ideologia liberale della rivoluzione americana, che attribuisce i diritti alla sfera individuale, con l’etica della controcultura, che fa nascere la rivoluzione dall’interno di ciascuno di noi. Anche noi abbiamo un nostro sogno differito, un contratto non soddisfatto: quell’articolo 3 della Costituzione che va anche oltre il “sogno americano”, perché proclama che realizzare la ricerca dell’uguaglianza è soprattutto “compito della Repubblica”. La cattiva politica di oggi non si limita a differire il sogno: lo azzera, lo annulla, lo nega. Perciò il sogno americano di Martin Luther King ricorda anche a noi che la possibilità di un futuro comincia nell’immaginare un altro mondo, cercare di dargli forma, e provare a realizzarlo.

ALESANDRO PORTELI | 1:25 PM 0 COMMENTI

 

09 AGOSTO 2013

 

 

La festa per Priebke

 

Il manifesto 30.7.2013 Normalmente, quando una persona compie cento anni è sempre un segno positivo per le possibilità umane – anche se è una persona per cui non hai nessun motivo di rispetto, che si porta addosso la responsabilità di avere contribuito a spezzare centinaia di altre vite molto più giovani, e continua a considerarsi vittima e perseguitato e a non capire perché ce l’hanno con lui. Sono fatti suoi e se lui è contento, nei limiti dei benevoli arresti domiciliari a cui è soggetto, faccia pure. Noi siamo altrove. Ma non credo che i suoi camerati rendano un buon servizio a Erich Priebke continuando a farne la pubblica icona di un immarcescibile ideologia nazifascista, insistendo per trasformare questa privata tappa biografica in un momento di pubblica celebrazione. A quel punto la cosa torna a riguardarci, e diventa un’altra tessera in un mosaico di piccole e grandi schifezze che ammorbano l’aria che si respira in questo paese. E’ ormai un quarto di secolo che in questo paese si combatte una battaglia di conoscenza e di verità sulla memoria e il significato degli eventi di cui Priebke è stato protagonista, e di tutto quello che rappresentano per l’identità del nostro paese e di quel che resta della nostra democrazia. Per questo, dire a Priebke, ai suoi camerati e chi lo gestisce, che se vogliono brindare lo facciano nel chiuso del domicilio al quale è obbligato non rappresenta un accanimento nella vendetta; è, semmai, una difesa contro l’accanimento revisionista da cui siamo circondati e aggrediti. La pretesa festa pubblica per Priebke viene sulla scia delle irresponsabili frasi di Pippo Baudo (ma guarda con chi ci tocca discutere!) su via Rasella, che con la sua proterva ignoranza ha fatto più danno in dieci minuti di televisione di quanto decenni di libri, di teatro e di musica non possano compensare. Viene poche settimane dopo il convegno sul “nostro concittadino Graziani”che ha radunato attorno al vergognoso mausoleo di Affile fior di fascisti (tra cui alcuni che conosciamo fin dai tempi di piazza Fontana, la cui presenza infatti era prevista, stando ai giornali, anche alla festa per Priebke) senza che i media e le istituzioni battessero ciglio. Viene nel tempo delle banane alla ministro Kyenge, delle calcolate idiozie razziste di Calderoli di cui nessuno parla neanche più e lui resta tranquillo al suo posto, rappresentante istituzionale di un senso comune razzista e sessista che, come è emerso da un caso recente in Veneto e dai suoi strascichi, avvelena anche frammenti di sinistra. E’ una fatica immensa e frustrante cercare di fermarlo, ripetere ogni volta le stesse cose, sentire di aver parlato al vento e trovarsi ogni volta davanti agli stessi insulti alla verità storica e alla dignità umana. Ma per fortuna siamo ostinati.

ALESANDRO PORTELI | 8:09 PM 0 COMMENTI

 

06 AGOSTO 2013

 

 

La terra e la città

 

il manifesto 24.7.2013 Saremo stati qualche decina nella simbolica occupazione del Borghetto San Carlo, ventidue ettari di terreno agricolo di proprietà comunale sulla via Cassia fra La Storta e la Giustiniana a Roma, abbandonato dall’istituzione e rivendicato ora all’uso pubblico da un gruppo di cooperative di giovani agricoltori. Ma eravamo virtualmente almeno diecimila, tante quante le firme che le cooperative Terra!, da Sud e Coraggio (Cooperativa Romana Giovani Agricoltori) hanno consegnato la settimana scorsa al sindaco Marino e agli assessori all’urbanistica e al patrimonio del Comune di Roma. Gli interventi che si sono susseguiti nel piccolo spazio di terreno liberato oltre il filo spinato e dietro il cancello ostinatamente chiuso e arrugginito, hanno sottolineato la disponibilità espressa dai nuovi rappresentanti delle istituzioni (municipi, comune e regione sono adesso su una stessa lunghezza d’onda, il clima può cambiare), il collegamento con altre esperienze vicine (per restare a Roma Nord, quella di Volusia o quella ormai radicata di Cobragor), e soprattutto l’idea che riprendere in mano il grande patrimonio delle terre liberi comunale non è solo un’occasione produttiva, occupazionale e di servizi, ma configura anche una diversa prospettiva sulla città. Roma, il terzo comune agricolo d’Europa, l’ agricoltura ce l’ha dentro e – come tante metropoli in crisi in tutto l’occidente – può farne un elemento di ripresa non solo economica ma anche, forse soprattutto, culturale e ambientale. Se per generazioni i contadini sono stati i custodi della terra e i creatori e portatori di preziosi saperi (troppo spesso disprezzati: c’è anche il disprezzo di classe verso i contadini e la loro fatica fra le ragioni dell’abbandono dell’agricoltura), gli agricoltori di oggi si sentono pienamente integrati in una cultura urbana in trasformazione. Non a caso, come mostrano le inchieste recenti anche della Coldiretti, l’agricoltura è uno dei pochissimi comparti economici in cui l’occupazione aumenta, anche fra i giovani. Anche per questo, le cooperative che rivendicano il Borghetto San Carlo progettano un’agricoltura moderna, multifunzionale, sinergica – da un lato, un’agricoltura capace di integrare tecnologie e conoscenze avanzate e di creare occupazione (parlano di almeno quaranta posti di lavoro); dall’altro, che non sia solo (preziosa) produzione di cibo ma anche cura dell’ambiente, bellezza, servizi al territorio, ricettività, progetti terapeutici e didattici – dagli asili nido all’ippoterapia – riconoscimento del valore del lavoro materiale e rinnovamento del contatto con la materia vivente, smarrito nell’invasione del cemento. Il fatto è che la città del terzo millennio non è più uno spazio edificato compatto ma un intreccio di usi molteplici del territorio. Un libro recente, Apocalypse Town dell’urbanista Alessandro Coppola, mostra come la crisi delle città americane in fase di deindustrializzazione, da Youngstown a Detroit a certe parti di New York – si sia rovesciata nella reinvenzione dell’uso dello spazio urbano, di cui gli orti del Lower East Side di Manhattan sono l’esempio più conosciuto ma non necessariamente il più importante. Anche a Roma vediamo i segni di questo processo, dalle occupazioni agli orti urbani ai gruppi di acquisto solidale ai mercati dei produttori della filiera corta; infatti l’intervento sulla Cassia si collega anche a un censimento che le cooperative stanno portando avanti su tutti gli spazi agricoli non utilizzati di proprietà pubblica di cui è costellata Roma. Anche per questo più di uno degli interventi in assemblea ribadiva la impraticablità del paradigma centro-periferia: il recupero del Borghetto San Carlo serve anche a immettere elementi di comunità e socialità in un’ex borgata diventata quartiere dormitorio. Ma è’ un compito urgente, perché gli usi e abusi passati lasciano danni spesso irreversibili. Penso all’esperienza dell’Orto Insorto al Casilino: uno spazio abbandonato dove gli occupanti hanno scoperto che la terra era ormai inservibile, avvelenata da sversi industriali e inquinamento (ma non ci hanno rinunciato, stanno studiando colture alternative e comunque quel terreno non edificato resta un luogo di socialità offerto al quartiere). Tutto questo, naturalmente, ha bisogno anche della politica. L’irresponsabile abbandono di tante preziose risorse di proprietà pubblica è anche la conseguenza dell’inerzia delle istituzioni. Il Borghetto San Carlo era di proprietà di uno dei grandi costruttori romani, Mezzaroma, che lo ha ceduto al comune in cambio di permessi di edificabilità in altre zone della città, obbligandosi a restaurare, al costo di tre milioni di euro, il meraviglioso e vastissimo casale che sta in cima alla collinetta del borghetto (e da cui fa l’altro si gode una straordinaria vista sulla campagna romana). Il termine in cui il manufatto restaurato doveva essere consegnato al comune è scaduto da mesi, ma non è stato fatto niente e l’amministrazione Alemanno non ha ritenuto suo dovere obbligare il costruttore al rispetto degli impegni contrattuali. La disponibilità dichiarata da Marino e dai suoi assessori è senz’altro sincera; ma per smuovere la macchina comunale e passare dalle parole ai fatti è necessaria la pressione, contestativa e collaborativa, di un movimento di massa sostenuto dal consenso dei cittadini. L’esperienza di Borghetto San Carlo è un segnale incoraggiante in questa direzione.

ALESANDRO PORTELI | 11:42 PM 0 COMMENTI

 

17 LUGLIO 2013

 

 

L’assassinio di Trayvor Martin – il manifesto 16.7.2013

 

Nella luce incerta di quella sera in Florida, il vigilante George Zimmerman non ha visto una persona, un ragazzo di nome Trayvor Martin – ha visto qualcosa che il nostro vicepresidente del Senato chiamerebbe “un orango”. E naturalmente ha avuto paura, e poiché poteva farlo ha sparato. Ed è stato assolto. Gli Stati Uniti si sono dati un presidente afroamericano, l’Italia si è data una ministra nata in Congo; ma questi segnali di progresso, più che indicare un’uscita dal razzismo del senso comune. Come hanno efficacemente segnalato i manifestanti di Time Square, a colori invertiti – vittima bianca, sparatore nero – il procedimento e la sentenza sarebbero stati ben altri. Ha detto Barack Obama: siamo uno stato di diritto, la sentenza è questa, cerchiamo di capire adesso che cosa fare. Ma è proprio qui il punto: che “diritto” è quello che permette un’assoluzione del genere? La legge della Florida riconosce la legittima difesa anche a chi abbia agito solo per la percezione del pericolo, indipendentemente dal fatto che questo pericolo fosse o meno reale. E non c’è dubbio che un ragazzo nero in un quartiere bianco nell’ora sbagliata è automaticamente percepito, almeno in certi contesti, come una minaccia: una materia fuori luogo, un’invasione (ricordiamo Henry Louis Gates Jr., luminare afroamericano di Harvard, arrestato perché di sera un poliziotto lo ha visto che cercava di aprire la porta della propria abitazione?). Ora, questa idea del rischio percepito, come stato mentale soggettivo che produce conseguenze materiali sociali, la conosciamo bene anche noi: è stata alla base di tutte le politiche securitarie che hanno cercato di fondare le politiche statuali sulla paura dell’altro (del migrante, dello “zingaro”, del “clandestino”, dello straniero). Questa paura non solo percepita ma attivamente alimentata ha generato da noi il fenomeno, per fortuna molto marginale ed effimero, delle ronde leghiste e paraleghiste; e anche George Zimmerman, non un poliziotto ma un volontario che si era nominato vigilante da sé, è espressione di questo impulso a “fare da sé”, a prendere in mano la legge e la sicurezza – a mettersi, con consenso della legge, fuori della logica dello stato di diritto. Su questa paura permanente, fra l’altro, si fonda anche l’altro fattore nella morte di Trayvor Martin: l’ossessione delle armi. Nella maggior parte degli Stati Uniti, l’unico elemento di moderazione sul possesso delle armi è la norma che autorizza a portarle purché siano visibili; la Florida è uno di quegli stati che invece autorizzano il possesso di armi anche nascoste. Bisogna armarsi, dice la National Rifle Association, perché solo così ci si può difendere dagli aggressori armati che stanno dappertutto: una mentalità da assedio che si traduce, dopo l’11 settembre, in quell’ossessione del terrorismo che salda le paure private alle paranoie pubbliche. Ma nel caso di Trayvor Martin, il fatto che la pistola del suo uccisore non fosse visibile ha fatto sì che l’arma non avesse neppure una funzione deterrente, ma solo una funzione omicida. Disse Barak Obama, subito dopo l’assassinio: se avessi un figlio maschio, Trayvor Martin avrebbe potuto essere mio figlio. Non era una trovata retorica: sta a dire che la sorte di Trayvor Martin può essere la sorte di qualunque ragazzo nero, che ogni ragazzo nero costruisce i suoi percorsi nello spazio urbano città tenendo presente il pericolo che corre. “In queste strade”, dice la madre afroamericana al figlio, in una canzone di Bruce Springsteen, “devi capire le regole; se ti ferma un poliziotto promettimi che ti comporterai educatamente e non cercherai di correre via e terrai sempre le mani bene in vista”. Le mani di Trayvor Martin erano bene in vista, l’arma del suo assassino nascosta. Amadou Diallo, ammazzato dalla polizia con 41 colpi, aveva in mano un portafogli che i poliziotti hanno deciso di scambiare per un’arma. Trayvor Martin non aveva in mano neanche quello. E’ segno che nemmeno rispettare le regole ti protegge, che il pericolo te lo porti addosso direttamente nella tua nera “American skin”. Che non ti uccidono per quello che fai, ma per quello che sei. E la legge li assolve.

ALESANDRO PORTELI | 10:17 AM 0 COMMENTI

 

 

Mamma mia dammi 100 lire – il manifesto 13.7.2013

 

“Mamma mia, dammi cento lire, che in America voglio andar – cento lire te le do, ma in America no….” E’ una delle canzoni di tradizione orale più diffuse in tutta Italia: la storia della ragazza che parte per l’America incoraggiata dai fratelli (“mamma mia lasciala andar”) ma portandosi addosso la maledizione della madre (“vai pure figlia maledetta”)e muore quando “a metà del mare il bastimento s’inabissò”. Come sappiamo, l’Italia è oggi un paese sia di emigranti sia di immigranti. Perciò abbiamo la possibilità di guardare all’esperienza delle migrazioni da tutti e due i punti di vista, di chi resta, di chi parte, di chi arriva. Su questo, le canzoni popolari ci permettono di capire molte cose: per esempio, il risentimento, la rabbia, il dolore di chi resta e si sente abbandonato, come se emigrare fosse una fuga da una lotta per la sopravvivenza che si continua a combattere restando (ce ne costa di lacrime l’America a noi napoletani…. non ci rimane più che preti e frati, monache di convento e cappuccini e quattro commercianti disperati…. o addirittura: mio marito sta in America e non mi scrive, non so che mancanza gli ho fatto – forse la mancanza è questa, che mi ha lasciato un figlio e ne ritrova sette…) Ma uno degli effetti dell’immigrazione è che anche queste nostre storie cambiano senso. Tempo fa, la meravigliosa Sara Modigliani cantò “Mamma mia dammi cento lire” alla fine di un incontro in cui un gruppo di immigrati africani avevano raccontato le loro storie di traversie oltre il deserto libico e il mare Mediterraneo. Nel silenzio sorpreso di chi scopriva che avevamo una storia in comune, mi accorgevo che la storia era comune solo se la canzone italiana cambiava di senso alla luce della presenza dei migranti. La cosa importante non era più tanto il conflitto generazionale fra il vecchio resta e il nuovo che parte, ma il resto della storia, la morte per mare, un’esperienza così viva a chi ha attraversato un tempo l’Atlantico (“il tragico naufragio della nave Sirio”) e oggi il Mediterraneo. La presenza e l’esperienza degli immigrati, insomma, cominciava già a spostare l’accento sulla nostra stessa tradizione, a cambiare il senso delle nostre stesse parole. Poi , “Mamma mia dammi cento lire” si inoltra in una sequenza di strofe sul disfacimento marino del corpo della ragazza naufraga: “I capelli della Rosina il pesce a mare li mangerà”, e continuando con una strofa per ogni parte del corpo, in un’immagine di cambiamento marino dal sapore shakespeariano (“ora sono perle quelli che erano i suoi occhi”, La Tempesta ). Ma ci ha pensato il cinismo volgare di un’esponente leghista di Monza – se i naufraghi mediterranei hanno cercato di salvarsi aggrappandosi alle reti delle tonnare, è “un motivo in più per non mangiare tonno” – a spostare il senso di quei versi dall’archetipo poetico della morte per mare a una materialità tangibile di corpi, di morte e disfacimento. Molti anni fa, uno studente libico, integratissimo nella comunità universitaria, mi diceva che comunque “un ragazzo nero che parla romano è il segno di qualcosa che è stato deviato”. Due secoli prima, la ragazza schiava Phillis Wheatley (la prima donna poeta pubblicata in America) scriveva un sonetto sull’esperienza di “essere trasportata dall’Africa all’America”. Deviazione, in greco si dice tropos; trasportare si dice metaphorein. Cambiando strada, trasportandosi oltre il mare, i migranti trasformano le nostre metafore, le nostre figure retoriche, in materia. A cambiare direzione, ad essere trasportati, non sono più solo le parole, ma i corpi, e si tirano dietro le parole con sé. Le nostre storie raccontate ad altre orecchie, le nostre parole su altre labbra, non sono più le stesse. Quando nell’800 il grande oratore nero ex-schiavo Frederick Douglass teneva conferenze sul “self-made man”, tutte e tre le parole – uomo, fatto, sé – si capovolgevano dall’uso allora dominante che negava ai neri umanità, autonomia e soggettività. Oggi, Geedi Yusuf, giovane migrante somalo, scrive una poesia nella sua lingua in cui si infiltrano e si smascherano parole italiane come “stranieri” (pro nunciata “istaraniyeri”) e “ospite”. Quest’ultima è una parola dei nostri buoni sentimenti: li chiamiamo “ospiti” (o gastarbeiter) e ci sentiamo generosi e accoglienti perché li facciamo entrare in casa nostra. Ma per Geedi la parola “ospite” significa tutt’altro: significa che questa è, appunto, casa nostra e non sua, e lui è qui tollerato, provvisorio. Un ospite non può restare per sempre. E noi, non meno cinici della leghista di Monza, chiamiamo “ospiti” anche i rinchiusi nei CIE, da cui non possono uscire se non per essere ritrasportati via.

ALESANDRO PORTELI | 10:15 AM 0 COMMENTI

 

05 GIUGNO 2013

 

 

Manganellate agli operai di Terni – il manifesto 6.6.2013

 

La nostra piazza Taksim oggi è alla stazione di Terni. Come in Turchia, le “forze dell’ordine” si sono scagliate indiscriminatamente contro i manifestanti – in questo caso, gli operai della AST (ex ThyssenKrupp) che, in un corteo autorizzato, si preparavano a occupare simbolicamente per 15 minuti i binari della ferrovia. In passato, quei binari erano stati occupati molte volte, non ultima il 2004-2005, durante la lotta contro la chiusura del reparto acciai speciali delle acciaierie. Non ha avuto importanza il fatto che stavolta l’occupazione fosse simbolica e preventivamente comunicata a prefettura e questura: la repressione è scattata ugualmente. Come a Istanbul e Ankara, il potere non ha oggi altra risorsa che la violenza per confrontarsi con il conflitto sociale che monta. Terni è un segnale che governo, forze politiche, sindacati, media faranno bene ad ascoltare: siamo sull’orlo di un vulcano, la rabbia e la disperazione possono esplodere da un momento all’altro. Intrecciata con la vicenda contemporanea dell’Ilva, quella delle acciaierie di Terni proclama il fallimento delle politiche di privatizzazione e della dismissione dell’apparato industriale del paese in omaggio a una “modernità” d’accatto che credeva che fare l’acciaio fosse un ciarpame da lasciare al terzo mondo. E che in questo processo ha seminato il paese di rovine, di disoccupazione, di povertà. Quello che è successo a Terni può ripetersi ed espandersi, come in Turchia, in forme imprevedibili e incontrollabili. Alla stazione di Terni, poi, le “forze dell’ordine” sono incorse in un infortunio professionale: bastonando indiscriminatamente, hanno finito per rompere la testa anche al sindaco della città, accorso sul posto per cercare di calmare le acque. E’ un infortunio dal doppio valore simbolico: da un lato, dimostra che non c’è nessun bisogno di essere “facinorosi” per uscire con la faccia insanguinata da un confronto con la polizia; dall’altro, nella misura in cui il sindaco rappresenta la città, è anche il segno di come, nonostante decenni in cui Terni città ha provato a prendere le distanze dalla sua acciaieria, nei momenti cruciali questa fabbrica rimane ancora il suo cuore e le sue vene e gli operai come già nella Resistenza (lo ha ricordato oggi il sindaco Di Girolamo) sono ancora una volta la voce della democrazia che parla per tutti.

ALESANDRO PORTELI | 11:58 PM 0 COMMENTI

 

26 MAGGIO 2013

 

 

In ricordo di Luigi Pintor

 

il manifesto 15.5.2013 Non posso dire di avere veramente conosciuto Luigi Pintor. Non sono mai riuscito a superare la soggezione per una storia, un’intelligenza, una serietà così alte. Nemmeno quando cercavo di scrivere una storia orale della Resistenza romana ho avuto il coraggio di chiedere a lui, che ne era stato protagonista, un’intervista. Solo di fronte all’ultimo dei lutti dolorosi che gli hanno segnato la vita ho osato avvicinarmi e dirgli che gli volevo bene. Me lo ricordo una sera, in una affollata assemblea dei tempi del manifesto gruppo politico. Con un’improvvisa accentuazione delle sue vocali sarde, in una frase sola, senza cattiveria ma senza appello, sgonfiava la retorica di un giovane rivoluzionario non tanto diverso da me. Ti faceva sentire, scrivendo o parlando, che le parole sono fatti, e che te ne devi prendere la responsabilità. Ne ha dette e scritte tante, in decenni di politica e di giornalismo; non credo che ne troveremmo una vanvera o una di troppo. Ogni volta che ho scritto un articolo per il manifesto – quotidiano comunista fondato da Luigi Pintor – ho pensato: queste parole andranno sullo stesso giornale dove vanno le sue. Le leggerà lui, probabilmente. Devono valerne la pena; non lo devono annoiare; come le sue, il più possibile, non devono sprecare la carta su cui sono scritte e gli alberi con cui è fatta. Per il solo fatto di esserci, per gli standard che ci ha dato, è stato maestro. E’ questione di stile, ovviamente; ma ascoltando e leggendo Luigi Pintor capivi che lo stile è una questione morale. Il suo stile è il rigore di un’Italia rara e migliore, di una sinistra senza retoriche, e migliorava col tempo, con l’indignazione e col dolore. I suoi libri – Servabo, La signora Kirchgessner – sono gioielli rari in una letteratura italiana che conosce poco l’arte dell’aprire abissi dicendo il meno possibile. Era anche un musicista, e si sente, non fosse altro che nella capacità di far risuonare il silenzio. Come avrei voluto che l’Italia fosse come lui, avesse il suo rigore ma anche il suo senso dell’umorismo – che è sempre stato per Luigi Pintor l’esatto opposto delle buffonerie di chi cerca la risata complice per fare il simpatico. Era uno strumento di conoscenza, una lama che tagliava l’assurdo in nome di una sensatezza della ragione che è tutt’altra cosa dal senso comune. E avrei voluto che la sinistra fosse come lui, realista e non rassegnata, autoironica e non disfattista, appassionata e senza sentimentalismi. Forse, avrei voluto essere io come lui, ed è per questo che non mi permettevo di prendermi confidenze. Si domandava se eravamo destinati a morire democristiani. Ci ha lasciato in giorni fra i più cupi di quella repubblica che aveva aiutato a fondare. Nella Signora Kirchgessner, ricordando i giorni passati nelle mani degli aguzzini fascisti e nazisti, scrive: “Il tenente in divisa, che maneggiava il frustino al piano di sopra, era in cuor suo un patriota e sarebbe oggi un senatore.” E’ una profezia ironica e sconsolata, e accurata. Ma non è un’ammissione di sconfitta, è solo la constatazione che non è finita e che c’è da combattere ancora. Dice un personaggio di Faulkner, dopo una guerra perduta:”Ci hanno ammazzato, ma non ci hanno ancora battuto.” In tanti modi diversi e lungo tanto tempo, la morte ha toccato spesso Luigi Pintor, ma la rassegnazione mai. Noi, che l’abbiamo avuto con noi, cerchiamo di meritarcelo.

ALESANDRO PORTELI | 12:56 PM 1 COMMENTI

 

12 MAGGIO 2013

 

 

La terra a chi la lavorerebbe – il manifesto 12.5.2013

 

In questi giorni a Roma “coraggio” vuol dire Cooperativa Romana Giovani Agricoltori. Insieme con altre cooperative e collettivi legati al rilancio dell’agricoltura multifunzionale (legata alla qualità della vita, all’occupazione giovanile, a un uso intelligente e sostenibile delle risorse), i ragazzi della cooperativa hanno avuto il coraggio di picchettare il Borghetto San Carlo, un vasto terreno agricolo abbandonato sulla via Cassia, poco oltre il raccordo anulare per rivendicarne l’apertura e l’uso agricolo, come previsto dal piano d’assetto del parco di Veio, in cui la zona rientra. Da qualche tempo, ci rendiamo sempre più conto che la città moderna non è un’uniforme distesa di asfalto e cemento, ma è tempestata di orti di tutte le dimensioni e di spazi importanti di terre inutilizzate. Nel volantino che i giovani delle cooperative distribuiscono a chi si ferma a parlarci, si legge: ”Sono in pochi a sapere che in via Cassia 1450, a ridosso del tuo quartiere, ci sono 22 ettari di pregiato territorio agricolo e un casale dei primi del novecento acquisiti in proprietà dal comune di Roma nel marzo 2010 e da allora in stato di abbandono”. Io passo tutti i giorni davanti a quel cancello arrugginito e chiuso da un pesante lucchetto dove le cooperative hanno posto i tavoli e gli striscioni del picchetto, e non mi ero mai davvero fatto domande su quello spazio verde e vuoto al di là: era quasi come se accettassi implicitamente il senso comune che dà per scontato l’abbandono di tante preziose risorse. Ci sono voluti i picchetti perché ci facessi caso, io come non poche altre persone del quartiere che si sono fermati a parlare, a chiedere informazioni, a dare solidarietà a appoggi (questo è un quartiere difficile, che anni fa insorse in furibondi blocchi stradali contro l’ipotesi di ospitare un piccolo insediamento Rom. Ma certe volte basta che qualcuno si muova per far uscire fuori anche la sua nascosta anima civile). Il Borghetto San Carlo, continua il volantino, è un “bene comune già acquisito in proprietà pubblica grazie a una compensazione urbanistica, un contratto che con un contratto che prevede la completa ristrutturazione del casale per metterlo a disposizione dei cittadini”, a carico del precedente proprietario, il costruttore Mezzasoma che, cedendolo al comune, ha acquisiti diritti di edificazione in altre parti della città. Naturalmente, l’amministrazione Alemanno si è “dimenticata” di far rispettare il contratto. I lavori di ristrutturazione del casale, che avrebbe dovuto essere riconsegnato due mesi fa, non sono neanche cominciati e adesso anche quell’edificio (già svuotato di tutto quello che conteneva) di pregio cade in pezzi. La Cooperativa Coraggio, insieme con altre cooperative e associazioni (Cobragor, me&tree, Biosfera, Amaltea) ha presentato al comune un progetto che prevede i pieno utilizzo agricolo dei terreni, orti sociali per il quartiere, vendita diretta dei prodotti, ristorazione a chilometro zero, attività ricreative e culturali, un agri-asilo pubblico, e la creazione di trenta posti di lavoro. Sono proposte in piena linea con la formazione e le biografie degli attivisti: laureati in agronomia o in economia agraria, insieme con giovani che hanno già un’esperienza di lavoro contadino e bracciantile. Il presidio davanti al cancello chiuso del Borghetto San Carlo è una delle molte espressioni quel movimento che pensa al “ritorno” alla terra non come un passo indietro verso il passato ma come un elemento cruciale di una diversa e più vivibile modernità . Per ora, è pensato soprattutto come un modo per richiamare l’attenzione. Poi, si vedrà. Nel frattempo, i partecipanti al presidio invitano tutti a una festa con cibo e musica , a partire dalle 10 e per tutta la giornata di domenica 12 maggio davanti al Borghetto San Carlo sulla via Cassia, mezzo chilometro oltre la stele che ricorda i 14 antifascisti massacrati in quel punto dai nazisti il 4 giugno 1944.

ALESANDRO PORTELI | 6:17 PM 0 COMMENTI

 

 

 

La Repubblica Romana e i diritti di cittadinanza

12.5.2013 Qualche giorno fa in un piuttosto farneticamente post, il blog di Casa Pound se la prendeva con Sandro Medici e i suoi sostenitori, rei di usare abusivamente il nome della Repubblica Romana. Citava la frase di Sandro Medici – “Ci batteremo per la cittadinanza universale” – e aggiungeva: “prima avrebbe fatto bene chiedere cosa ne pensano i giovani volontari caduti per difendere Roma dall’arroganza dello straniero sugli spalti del Gianicolo. O cosa direbbero Manara e i suoi bersaglieri, o i legionari italiani di Garibaldi, se sapessero che le loro cariche all’arma bianca al Vascello, contro un esercito più numeroso e meglio armato, 160 anni dopo sarebbero state vanificate da qualcuno che a nome loro avrebbe foraggiato l’introduzione dello Ius Soli”. Non varrebbe la pena di stare a discutere con questa gente, se non fosse che echeggiano pericolosamente il senso comune di questi giorni, le aggressioni verbali e gli insulti alla ministra Kyenge, le farneticazioni leghiste di Salvini, le idiozie reazionarie di Grillo, persino le esitazioni e i freni anche da parte della maggioranza. E allora, andiamoci davvero a guardare che cosa pensavano i fondatori della Repubblica Romana del 1849, e che cosa hanno scritto nella loro Costituzione. . Cominciando dall’articolo 1: Sono cittadini della Repubblica: Gli originarii della Repubblica; Coloro che hanno acquistata la cittadinanza per effetto delle leggi precedenti; Gli altri Italiani col domicilio di sei mesi; Gli stranieri col domicilio di dieci anni; I naturalizzati con decreto del potere ” La prima riga del primo articolo dice dunque: gli “originarii” della repubblica – non dice “i figli legittimi di cittadini a loro volta originarii” (che per essere tali devono a loro volta essere figli di “originarii” e via su per le generazioni). No: i diritti non pertengono alla discendenza ma alla persona, originario e quindi cittadino è colui la cui esistenza origina nella Repubblica. In altre parole, la prima cosa che fanno i costituenti della Repubblica Romana è precisamente di proclamare lo ius soli. Per questo dunque combattevano Garibaldi, Manara, Pisacane, Armellini e i loro compagni d’armi: un’idea aperta di cittadinanza fondata sulla persona, e in subordine sulla presenza sul luogo e sulla scelta personale. Le voci successive infatti non fanno che ribadire che la cittadinanza si acquista con la legge e con la presenza: in un’epoca in cui l’Italia ancora non esiste, prevedono termini più brevi per “gli altri italiani” ma anche la cittadinanza data agli stranieri (a tutti gli stranieri. Non importa nati dove) dopo un certo periodo, non come concessione ma come diritto – e magari anticipandola “con decreto del potere”. A pensarci bene, né Garibaldi né Mazzini erano romani per diritto di sangue: avevano genitori nati da tutt’altra parte. Ma diventano romani perché con Roma si identificano, per Roma combattono. Proprio come nell’Italia che abbiamo in mente noi: italiani si nasce perché si nasce nel territorio della repubblica, e italiani si diventa perché in Italia si vive, si lavora e si lotta. Tutto il resto della Costituzione della Repubblica Romana è coerente con questa visione ampia e inclusiva e con la concezione aperta dei diritti: abolisce la pena di morte, la carcerazione per debiti; scioglie i diritti del cittadino dall’appartenenza o meno a una fede religiosa; proclama la libertà di associazione, di pensiero, di parola e l’inviolabilità della persona, del domicilio, della corrispondenza; vieta l’istituzione di corti o tribunali speciali (che ne dicono i fascisti del terzo millennio, nostalgici del Tribunale Speciale di regime?), e ribadisce che “i giudici nell’esercizio delle loro funzioni non dipendono da altro potere dello Stato” (che ne dicono i revisori berlusconiani che vogliono sottoporre la magistratura al potere esecutivo? A proposito: i costituenti avevano previsto anche il conflitto d’interessi: “Non può essere rappresentante del popolo un pubblico funzionario nominato dai consoli o dai ministri”). Ma forse la cosa più radicale sta in una parola che non c’è. L’articolo 17 sancisce che “Ogni cittadino che gode i diritti civili e politici” è (a una certa età) elettore ed eleggibile. La parola mancante è “maschio”: al di là dei generi grammaticali, la Repubblica Romana non riconosce preminenza di diritti a uno specifico genere sessuale. Dovremo arrivare al secondo dopoguerra per recuperare questa visione. Dunque quando parliamo di Repubblica Romana parliamo di questo: cittadinanza aperta e inclusiva, diritti intangibili e condivisi, libertà fra pari. Ne para anche la Costituzione della Repubblica Italiana. Ne parla sempre meno la politica contemporanea. Ed è ora di ricominciare a parlarne.

ALESANDRO PORTELI | 1:19 PM 1 COMMENTI

 

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